CAPITOLO V
GLI ARGOMENTI PORTATI A DIFESA DEL LIBERO ARBITRIO SONO PRIVI DI VALORE
1. Potremmo considerare sufficientemente dibattuto il problema della servitù dell'animo umano, se argomentazioni contrarie non venissero addotte da coloro che cercano di sedurlo con una falsa concezione della libertà.
In primo luogo vengono raccolte alcune assurdità per fare apparire odiosa questa servitù, quasi ripugnasse al senso comune. Si ricorre poi alla testimonianza della Scrittura. Risponderemo seguendo lo stesso ordine.
Essi argomentano, dunque, che se il peccato è commesso necessariamente non è più peccato; e se è volontario si può evitare. Con quest'arma Pelagio combatteva contro sant'Agostino; pure queste tesi vanno prese in considerazione finché non siano state refutate.
Io nego che il peccato cessi di essere considerato tale per il fatto che è inevitabile. Nego d'altra parte che si possa concludere che, considerandolo volontario, lo si possa evitare. Qualcuno volendo criticare Dio, ricorre al sotterfugio di pretendere l'impossibilità a fare altrimenti? La risposta è pronta: se gli uomini, asserviti come sono al peccato, l'abbiamo già detto, non possono che volere il male, questo non deriva dalla loro creazione originaria, ma dalla corruzione che è sopravvenuta. Donde viene l'infermità di cui i malvagi si prevarrebbero volentieri, se non da Adamo che spontaneamente si è sottomesso alla tirannia del Diavolo? Questa è l'origine della perversità che ci tiene tutti vincolati nei suoi lacci: il primo uomo si è ribellato al suo Creatore. Se tutti sono considerati a buon diritto colpevoli di tale ribellione, non pensino di giustificarsi con la scusa della necessità, nella quale è la causa evidentissima della loro condanna. Questo l'ho illustrato precedentemente ed ho citato l'esempio dei diavoli, dal quale risulta che chi pecca per necessità non cessa di peccare volontariamente; come inversamente, sebbene gli angeli abbiano una volontà che non può declinare dal bene, essa non cessa peraltro di essere volontà. Questo è stato rettamente inteso da san Bernardo, il quale dice che siamo tanto più miserabili in quanto la necessità è volontaria: ed essa tuttavia ci costringe sotto il suo giogo, di sorta che siamo servi del peccato.
La seconda parte della loro argomentazione, vale a dire la pretesa che quanto è compiuto volontariamente sia compiuto in piena libertà, non è valida. Abbiamo precedentemente dimostrato che molte azioni sono compiute volontariamente pur senza essere scelte liberamente.
2. Inoltre i nostri avversari sostengono che se i vizi e le virtù non dipendono dalla libera scelta, non ha senso che l'uomo ne sia remunerato oppure punito. Questa considerazione è ripresa da Aristotele ed è talvolta utilizzata, lo riconosco, da san Crisostomo e da san Girolamo. Girolamo non nasconde che essa è corrente presso i Pelagiani e cita queste loro parole: Se la grazia di Dio agisce in noi, essa sarà remunerata e non noi che non operiamo. Per quanto riguarda le punizioni di Dio contro il malfatto, faccio notare che esse ci sono inflitte giustamente perché la colpa del peccato risiede in noi. Poco importa se pecchiamo per determinazione libera o condizionata dato che lo facciamo per cupidità volontaria; l'uomo si riconosce peccatore in quanto vive sotto la servitù del peccato.
D'altra parte, quale assurdità parlare di premio per il vivere bene, se riconosciamo che esso ci viene attribuito dalla benignità di Dio e non per i nostri meriti! Molte volte sant'Agostino ripete che Dio non corona i nostri meriti, bensì i suoi doni in noi, e che il salario che riceviamo non è definito in questo modo perché sia dovuto ai nostri meriti, ma perché è dato quale retribuzione delle grazie precedentemente conferiteci. Essi comprendono rettamente che i meriti non hanno più ragion d'essere se non procedono dalla forza propria dell'uomo. Stupirsene è ridicolo!
Sant'Agostino non teme di proporre come realtà certa quanto essi considerano così irragionevole. Egli dice: "Quali sono i meriti di tutti gli uomini? Gesù Cristo viene non con un salario dovuto ma con la sua grazia gratuita e li trova tutti peccatori; egli che è libero da ogni peccato e che libera gli altri"; e: "Se ti fosse dato il dovuto, dovresti essere punito. Ma cosa avviene? Dio non ti rende la pena che ti era dovuta, ma ti dà la grazia che non ti spettava affatto. Se vuoi escluderti dalla grazia di Dio, vantati dei tuoi meriti"; e ancora: "Da solo non sei nulla, i peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio. Devi essere punito e quando Dio ti darà il salario della vita, coronerà i suoi doni, non i tuoi meriti". In questo senso altrove insegna che la grazia non viene dal merito, ma il merito viene dalla grazia. E subito dopo conclude che Dio precede tutti i meriti con i suoi doni affinché i suoi altri meriti seguano; che egli dà completamente e gratuitamente quanto dà, perché non c'è nessuna ragione per salvarci. Ma è superfluo continuare in questa enumerazione, dato che i suoi scritti sono pieni di queste affermazioni.
L'Apostolo stesso li libererà da questa idea assurda e fole se vorranno prendere in considerazione i princìpi da cui egli deduce la nostra felicità e la gloria eterna da noi attesa: "Quelli che Dio ha eletti" egli dice "li ha pure chiamati: quelli che ha chiamati, li ha pure giustificati: e quelli che ha giustificati, li ha pure glorificati", (Ro 8.30). Perché dunque i credenti sono incoronati? Perché sono stati eletti, chiamati e giustificati dalla misericordia del Signore e non per il loro impegno.
Si superi dunque questa paura assurda che non vi sarà più alcun merito senza il libero arbitrio. : È stoltissimo voler cercare di sfuggire alle conclusioni cui ci conduce la Scrittura: "Se hai ricevuto ogni cosa" dice san Paolo "perché ti glorifichi come se non l'avessi affatto ricevuta?" (1 Co. 4.7). Vediamo che toglie ogni forza al libero arbitrio, per distruggere tutti i meriti. Tuttavia Dio è ricco e generoso nella benevolenza e la sua generosità non si esaurisce mai: egli dunque rimunera le grazie che ci ha conferito come se fossero virtù provenienti da noi, perché dandocele, le ha fatte nostre.
3. Successivamente sollevano una obbiezione, che sembra essere ripresa da san Crisostomo: se non fosse in nostro potere scegliere il bene o il male, tutti gli uomini dovrebbero essere buoni oppure cattivi, dato che hanno la stessa natura. Con questo concorda l'affermazione dell'autore del libro Della vocazione dei Gentili, attribuito a sant'Ambrogio, secondo cui nessuno mai perderebbe la fede se la grazia di Dio non lasciasse alla volontà dell'uomo possibilità di modificarsi.
Mi meraviglio che a questo proposito personaggi così illustri siano caduti in errore. Come infatti non è venuto in mente a Crisostomo che è l'elezione di Dio a discriminare gli uomini? Non dobbiamo vergognarci di dichiarare quanto san Paolo afferma con tanta certezza: tutti sono perversi e dediti alla malvagità (Ro 3.10); ma aggiungiamo anche, assieme a lui, che la divina misericordia aiuta alcuni, onde non tutti rimangano nella perversione. Così dunque per natura siamo tutti colpiti dalla stessa malattia e ne sono esenti solo quelli che Dio si compiace di guarire. Gli altri, abbandonati per il suo giusto giudizio, rimangono nel proprio marciume fino alla consumazione. Ecco perché alcuni perseverano fino alla fine, altri vengono meno a metà strada. La perseveranza infatti è un dono che Dio non elargisce a tutti indiscriminatamente, ma solo a chi vuole. Non si troverà altra ragione di questa differenza, per cui gli uni perseverano e gli altri sono instabili; i primi sono sostenuti dalla forza di Dio, onde non periscano: i secondi non hanno la stessa forza, perché egli vuol mostrare in loro l'esempio della incostanza umana.
4. Obbiettano anche che tutte le esortazioni sono superflue, gli ammonimenti sono ridicoli, o inutili qualora il peccatore non abbia la possibilità di ottemperarvi.
Queste osservazioni furono rivolte, nel passato, a sant'Agostino che si vide costretto a pubblicare il libro intitolato: Della correzione e della grazia. Quivi, pur rispondendo ampiamente a tutto, riassume la questione in questi termini: "O uomo, riconosci nel comandamento ciò che devi fare, nel rimprovero per non averlo fatto, riconosci che la forza ti manca, per colpa tua, pregando Dio riconosci donde devi ricevere quel che ti manca",. Il libro che ha intitolato: Dello Spirito e della lettera sostiene la stessa tesi. Dio non ha commisurato i suoi comandamenti alle forze umane, ma dopo aver ordinato quello che era giusto, dà gratuitamente ai suoi eletti la facoltà di potere ottemperare. Questo punto non richiede ulteriori discussioni.
Prima di tutto non siamo soli a sostenere questa tesi, ma con noi sono Cristo e tutti i suoi apostoli. Badino dunque i nostri avversari a quali antagonisti si fanno incontro! Sebbene Cristo abbia dichiarato che senza di lui non possiamo far nulla (Gv. 15.5) , tuttavia non tralascia di rimproverare quanti fanno il male senza di lui e non tralascia di esortare tutti alle buone opere. Con quale violenza san Paolo riprende aspramente i Corinzi perché non vivevano in spirito di carità (1 Co. 3.3) ! E successivamente prega Dio di renderli caritatevoli.
Dichiara ai Romani che la giustizia non dipende dal volere né dall'affannarsi umano, ma dalla misericordia di Dio (Ro 9.16); tuttavia non tralascia in séguito di ammonirli, esortarli e correggerli. Perché dunque i nostri avversari non invitano il Signore a non sprecare le proprie forze, chiedendo senza scopo agli uomini quello che lui solo può dare e rimproverandoli di quello che fanno per semplice mancanza della sua grazia? Perché non ammoniscono san Paolo a perdonare a coloro che non hanno la volontà di fare il bene dato che senza la misericordia di Dio non si può che sbagliare?
Tutte queste assurdità non hanno ragion d'essere: se considerato con attenzione l'insegnamento divino si rivela, infatti, fondato su solidissime motivazioni.
San Paolo ammette, è vero, che l'insegnamento, le esortazioni e gli incitamenti non servono, da soli, a cambiare il cuore dell'uomo, quando afferma che chi pianta non è nulla, né chi annaffia, ma tutta l'efficacia risiede nel Signore che fa crescere (1 Co. 3.7). Vediamo anche con che severità Mosè prescriva i precetti della Legge; con che insistenza i profeti minaccino i trasgressori; non per questo cessano di riconoscere che gli uomini iniziano a comprendere quando vien loro data l'intelligenza, che è compito proprio di Dio circoncidere i cuori e convertirli da pietra in carne, che egli scrive la sua legge nelle nostre interiora, in breve, che rinnovando le anime nostre egli dà efficacia al suo insegnamento.
5. A cosa servono dunque le esortazioni? domanderà qualcuno. Rispondo che se un cuore ostinato le sprezza, esse gli saranno di testimonianze per convincerlo quando sarà davanti al giudizio di Dio. E la cattiva coscienza ne è toccata e stimolata nella vita presente. Per quanto infatti se ne faccia beffe, non le può invalidare.
Si obbietta: che dunque farà il povero peccatore dato che gli è negata la prontezza del cuore che è necessaria per obbedire? Rispondo: come potrà tergiversare dato che può imputare la durezza del cuore solo a se stesso? Per quanto i malvagi, sebbene vogliano prendere possibilmente alla leggera i precetti e gli avvertimenti di Dio, sono tenuti in scacco dalla potenza divina, lo vogliano oppure no.
Ma l'utilità principale delle esortazioni è nei riguardi dei credenti: il Signore agisce in loro con il suo Spirito, ma adopera anche lo strumento della sua parola e lo adopera con efficacia. Sia dunque chiaro, come deve essere chiaro, che l'unica forza dei giusti è situata nella grazia di Dio, secondo l'affermazione del Profeta: "Darò loro un cuor nuovo per camminare nei miei precetti" (Ez. 11.19) , e se poi qualcuno domanda perché li si incita al loro dovere e non li si abbandona alla guida dello Spirito Santo; perché li si spinge con l'esortazione, dato che non possono essere stimolati più di quanto lo Spirito li spinga; perché li si corregge quando hanno sbagliato, dato che sono necessariamente impediti dall'infermità della loro carne, dobbiamo rispondere: Uomo, chi sei tu da voler imporre la legge a Dio? Se vuole prepararci con l'esortazione a ricevere la grazia di obbedire alla sua esortazione, cosa hai da rispondere o da ribellarti a questo sistema? Se anche le esortazioni non servissero ad altro che a rimproverarci i credenti per i peccati, non dovrebbero essere reputate inutili. Ma dato che esse fruttuosamente infiammano i cuori all'amore della giustizia e inversamente all'odio del peccato, visto che lo Spirito Santo adopera questo strumento esterno per agire all'interno in vista della salvezza dell'uomo, chi oserà respingerle come superflue?
Se poi qualcuno desidera una risposta più chiara, la sintetizzo così: Dio opera in noi in due modi, all'interno con il suo Spirito, all'estero con la sua parola. Illuminando le menti con il suo Spirito, formando i cuori all'amore della giustizia e dell'innocenza, rigenera l'uomo in una nuova creatura. Con la sua parola stimola l'uomo e lo incita a desiderare e cercare questo rinnovamento. Manifesta la potenza della sua mano nell'uno e nell'altro strumento, secondo l'economia della sua dispensazione.
Rivolgendo la stessa parola agli iniqui ed ai reprobi, sebbene essa non li conduca a correggersi, le conferisce tuttavia forza in un altro modo: esercita ora una pressione sulle loro coscienze e nel giorno del giudizio saranno tanto più inescusabili.
Per questo motivo il nostro Signore Gesù, sebbene dichiari che nessuno può andare a lui se non venga guidato dal Padre (Gv. 6.44-45) , non tralascia tuttavia di attuare il suo compito di insegnamento e invita con la sua voce quanti hanno bisogno di essere istruiti dallo Spirito Santo e traggono profitto di quanto odono. Quanto ai reprobi, san Paolo dichiara che la dottrina non è inutile perché per loro essa è odore di morte a morte, pur essendo odor soave dinanzi Dio (2 Co. 2.16).
6. Si affannano a raccogliere valide testimonianze nella Scrittura e sperano di poterci confutare almeno con la quantità delle citazioni non potendo farlo ricorrendo a testi validi e pertinenti. Agiscono come un capitano che, radunando un grande esercito di uomini inadatti alla guerra, si illuda di spaventare il nemico. Bel colpo d'occhio per una parata! Tutti in fuga al primo scontro.
Ci sarà facile rovesciare tutte le obbiezioni di questi avversari non essendo altro che vuota apparenza. I passi che essi citano possono essere raccolti e classificati in alcuni gruppi, li disporremo in ordine e successivamente affronteremo ogni gruppo con una sola risposta, evitando di esaminarli tutti ad uno ad uno.
Il primo grande argomento è dato dai comandamenti di Dio che essi considerano proporzionati alle nostre forze sì che potremmo metterli in pratica. Ne elencano un gran numero e misurano così le forze umane. Ragionano in questi termini: ovvero Dio si beffa di noi quando ci ordina santità, pietà, obbedienza, castità, amore e mansuetudine e ci proibisce impudicizia, idolatria, inverecondia, ira, rapacità, orgoglio e via dicendo, ovvero ci chiede di attuare solo quanto è in nostro potere.
Tutti i comandamenti, cui essi alludono, possono essere raccolti in tre categorie: gli uni prescrivono che l'uomo si converta a Dio, gli altri semplicemente raccomandano l'osservanza della Legge, gli altri ancora prescrivono di perseverare nella grazia di Dio già ricevuta. Esaminiamoli prima tutti in generale, poi dettagliatamente secondo questi tre tipi.
Riconosco che oramai da molto tempo si accetta correntemente di misurare le facoltà dell'uomo sulla base dei comandamenti di Dio e questo ha una parvenza di ragionevolezza. Tuttavia, affermo che questo è frutto di grande ignoranza. Quanti vogliono dimostrare che sarebbe assurdo parlare in questo modo se l'osservanza dei comandamenti fosse impossibile all'uomo, si basano su un ragionamento invalido pretendendo che altrimenti la Legge sarebbe stata data invano. Quasi san Paolo non avesse mai parlato di questo: che significano le affermazioni seguenti: la Legge è stata data per aumentare le trasgressioni (Ga 3.19); dalla Legge viene la conoscenza del peccato (Ro 3.20); la Legge genera il peccato (Ro 7.7); è sopravvenuta per moltiplicare il peccato (Ro 5.20). Intendeva dire che essa doveva corrispondere alle nostre forze per non essere inutile? Al contrario san Paolo mostra in tutti questi passi che Dio ci ha ordinato qualcosa al di sopra della nostra capacità per convincerci della nostra impotenza. Certo lo scopo e il coronamento della Legge è la carità, secondo la definizione che egli stesso ne dà (1 Ti. 1.5); e prega Dio di riempirne il cuore dei Tessalonicesi (1 Ts. 3.12). Con questo significa che la Legge colpirebbe le nostre orecchie invano e senza frutto se Dio non ispirasse nei nostri cuori quanto essa insegna.
7. Se la Scrittura insegnasse che la Legge è solo norma di vita cui devono essere misurate le nostre opere, accetterei volentieri l'opinione dei miei avversari, essa però ce ne rivela molteplici aspetti. È dunque opportuno prestare attenzione a questi piuttosto che alle nostre fantasie.
Per quanto riguarda l'argomento in discussione, non appena la Legge ci ha prescritto quel che dobbiamo fare, immediatamente aggiunge che la capacità di obbedire proviene dalla grazia di Dio. Di conseguenza ci insegna a domandarla in preghiera. Se ravvisiamo nella Legge solo comandamenti, senza promessa alcuna, allora dovremmo mettere alla prova le nostre forze per vedere se sono sufficienti ad adempierli; ma ai comandamenti sono congiunte le promesse ed esse manifestano che abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio e che tutta la nostra forza è nella sua grazia. Esse mostrano dunque che non solo siamo insufficienti ma anche assolutamente incapaci di osservare la Legge.
Non ci si fermi dunque a questa correlazione tra le nostre forze e i comandamenti di Dio; come se egli avesse commisurato la norma di quella giustizia, che voleva stabilire, con la nostra debolezza e la nostra piccolezza! Consideriamo piuttosto alla luce delle promesse di Dio quanto siamo impreparati, dato che in tutto e per tutto abbiamo tanto bisogno della sua grazia. Dio ha forse rivolto la sua legge a dei pezzi di legno o a delle pietre? Nessuno li vuol convincere di questo.
I malvagi non sono né pietre né tronchi quando, resi consapevoli dalla Legge che le loro concupiscenze dispiacciono a Dio, si rendono colpevoli di fronte alle loro stesse coscienze: né i credenti quando, coscienti della propria debolezza, ricorrono alla grazia di Dio. In questo senso sant'Agostino afferma: "Dio comanda quel che non sappiamo fare, onde sappiamo quel che dobbiamo chiedergli", e: "L'utilità dei precetti è grande se si valuta il libero arbitrio in modo che la grazia di Dio ne sia maggiormente onorata", ancora: "La fede chiede quel che la Legge comanda"; infatti la Legge comanda onde la fede chieda quel che la Legge ha comandato. "Dio richiede anche la fede da noi; e non trova quello che chiede fino a quando non l'abbia dato per poterlo trovare": "Dio conceda quel che ordina e ordini quello che vuole,".
8. Questo risulterà più chiaro considerando i tre tipi di comandamenti a cui abbiamo accennato. Spesso il Signore richiede, nella Legge come nei Profeti, che ci convertiamo a luì (Gl. 2.12). Ma il Profeta d'altra parte risponde: "Convertimi, Signore, e sarò convertito. Dopo che mi hai convertito, ho fatto penitenza ecc." (Gr. 31.18). Ci ordina anche di circoncidere il nostro cuore (De 10.16); ma per bocca di Mosè dichiara che questa circoncisione è operata dalla sua mano (De 30.6). Più volte richiede agli uomini un cuor nuovo, ma afferma di essere il solo a poterlo rinnovare (Ez. 36.26). Ora, come dice sant'Agostino, quello che Dio promette, non lo facciamo per natura né per libera scelta, ma egli lo fa con la sua grazia. La quinta regola della dottrina cristiana da lui enunciata consiste nel distinguere chiaramente nella Scrittura tra Legge e promesse, tra comandamenti e grazia. Che diranno ora quanti si richiamano ai comandamenti di Dio per glorificare la potenza umana e sminuire quella grazia di Dio, per mezzo della quale invece i precetti sono osservati?
Il secondo tipo di comandamenti che abbiamo menzionato è semplice: onorare Dio, servire ed accettare la sua volontà, osservare le sue prescrizioni, seguire la sua dottrina. Ma vi sono infinite testimonianze secondo cui tutta la giustizia, santità, pietà, purezza che possediamo sono dono gratuito proveniente da lui.
Quanto al terzo tipo, un esempio ci è dato nell'esortazione di Paolo e Barnaba ai credenti di perseverare nella grazia di Dio (At. 13.43). Ma in un altro passo san Paolo mostra donde provenga questa forza: "State saldi" dice "fratelli miei, mediante la potenza del Signore," (Ef. 6.10). D'altra parte vieta di contristare lo Spirito di Dio, dal quale siamo suggellati in attesa della nostra redenzione (Ef. 4.30). Quanto è qui prescritto, altrove è domandato al Signore in preghiera, non fa dunque parte delle possibilità umane: infatti l'Apostolo supplica il Signore di rendere i Tessalonicesi degni della propria vocazione, di compiere in essi quanto aveva determinato nella sua bontà e di condurre al compimento l'opera della fede (2 Ts. 1.2). Similmente nella seconda ai Corinzi, trattando delle elemosine, loda molte volte la buona volontà dei destinatari; ma successivamente rende grazie a Dio perché ha incoraggiato Tito nel compito di esortarli (2 Co. 8.11- 16). Se Tito non ha neanche potuto aprire la bocca per esortare gli altri senza che Dio glielo abbia suggerito, come gli uditori sarebbero stati indotti ad agire bene se Dio non avesse toccato loro il cuore?
9. I più abili e smaliziati mettono in dubbio queste testimonianze sostenendo che esse non escludono l'unione delle nostre forze con la grazia di Dio, che sovviene così alla nostra debolezza. Menzionano alcuni passi dei profeti in cui il merito della nostra conversione sembra suddiviso fra noi e Dio; ad esempio: "Convertitevi a me e io mi convertirò a voi" (Za. 1.3).
Abbiamo indicato precedentemente in che consista l'aiuto di Dio e non c'è bisogno di ripeterci. Si tratta di mostrare qui che erroneamente i nostri avversari attribuiscono all'uomo la capacità di adempiere la Legge basandosi sul fatto che Dio ci comanda di obbedirvi; è infatti evidente che la grazia di Dio è necessaria per adempiere il comandamento divino ed essa ci è promessa a questo fine. Ne deriva che siamo impegnati a fare più di quanto possiamo. E nessun cavillo permette ai disputatori di sfuggire all'affermazione di Geremia secondo cui il patto di Dio con il popolo antico non ha avuto forza ed è decaduto perché si basava solamente sulla lettera; ed essa non può avere forza che quando lo Spirito venga aggiunto alla dottrina, per farci obbedire ad essa (Gr. 31.32).
Per quanto concerne la frase: "Convertitevi a me e mi convertirò a voi", essa non convalida affatto il loro errore. Per conversione di Dio non bisogna intendere la grazia con cui rinnova i nostri cuori in vista di una vita santa, ma quella con cui manifesta la sua volontà buona e il suo amore verso noi facendoci prosperare; inversamente è detto che si allontana da noi allorché ci punisce. Poiché dunque il popolo d'Israele che aveva à lungo sofferto si lamentava che Dio si fosse allontanato, il Signore risponde che il suo favore e la sua generosità non mancheranno loro se si convertiranno alla dirittura di vita e si avvicineranno a colui che è la sorgente di ogni giustizia. Intendere il passo come se spartisse il merito della nostra conversione tra Dio e noi, significa distorcerlo.
Abbiamo trattato rapidamente la questione perché bisognerà riprenderla affrontando il problema della Legge.
10. Il secondo ordine delle loro considerazioni non differisce molto dal primo. Menzionano le promesse secondo le quali Dio sembra associarsi alla nostra volontà. Per esempio: "Cercate la rettitudine e non il male, e voi vivrete!" (Am 5.14) : "Se mi ascolterete, vi darò il benessere: ma se non lo farete, vi farò perire per la spada" (Is. 1.19-20) : "Se toglierai le tue abominazioni, non sarai cacciato". "Se ascolti la voce del Signore il tuo Dio per eseguire e mantenere i suoi comandamenti, farò di te il popolo più eccellente della terra" e altri consimili (Gr. 4.1; De 28.1; Le 26.3).
Pensano che Dio si farebbe beffe di noi affidando alla nostra volontà queste cose che non ci è possibile compiere. Umanamente questa considerazione ha qualche peso. Se ne potrebbe dedurre che Dio agisce crudelmente fingendo che dipenda interamente da noi il ricevere la sua grazia e ogni bene, mentre non abbiamo invece alcun potere in merito; che sarebbe ridicolo mostrarci con tanta insistenza la sua liberalità senza che ne possiamo fruire. In breve, si può obbiettare che le promesse di Dio non avrebbero alcuna certezza se dipendessero da una impossibilità di esecuzione.
Parleremo altrove delle promesse che dipendono da una condizione impossibile e risulterà chiaro non esservi nulla di assurdo nonostante l'impossibilità di realizzazione.
Quanto al problema in discussione, io nego che il Signore sia crudele o inumano verso di noi quando ci esorta a meritare le sue grazie e i suoi benefici pur sapendoci impotenti a farlo. Le promesse sono rivolte ai credenti e ai malvagi; sono pertanto utili tanto nei riguardi degli uni che degli altri. Il Signore con questi precetti punge e sveglia la coscienza degli iniqui onde non si trastullino nei loro peccati, incuranti del suo giudizio: nello stesso tempo con le sue promesse attesta loro quanto siano indegni della sua benignità. Chi vorrà negare a Dio il diritto di beneficare chi l'onora e di vendicarsi rigorosamente di chi sprezza la sua maestà? Il nostro Signore rettamente dunque propone agli iniqui, tenuti prigionieri sotto il giogo del peccato, questa condizione: se abbandoneranno la malvagità, egli invierà loro ogni bene; e da questo possano intendere che a buon diritto sono esclusi dai beni dovuti ai servitori di Dio.
D'altra parte non bisogna stupirsi perché, volendo stimolare i credenti a implorare la sua grazia, Dio agisce con le sue promesse come agisce con i suoi comandamenti, come abbiamo già visto. Facendoci conoscere la sua volontà per mezzo dei suoi comandamenti, egli ci rende consapevoli della nostra miseria mostrandoci che siamo contrari ad ogni bene: insieme ci spinge a invocare il suo Spirito per esserne indirizzati sul buon cammino. Ma dato che la nostra pigrizia non è abbastanza smossa dai suoi precetti, vi aggiunge le promesse con la cui dolcezza ci induce ad amare quanto ci comanda. Quanto più amiamo la giustizia, tanto più siamo zelanti nella ricerca della grazia di Dio. In questo modo Dio, nelle dichiarazioni summenzionate, non ci attribuisce la facoltà di mettere in pratica le sue richieste, e tuttavia non si beffa della nostra debolezza; al contrario agisce per il bene dei suoi servitori e rende gli iniqui più condannabili.
2. La terza serie di testi ha qualche affinità con le precedenti. I miei contraddittori citano i passi in cui Dio rimprovera al popolo d'Israele di non aver saputo vivere in obbedienza. Ad esempio: "Amalec e i Cananei sono davanti a voi, sarete uccisi dalla loro spada perché non avete voluto obbedire al Signore" (Nu. 14.43);"Perché vi ho chiamato e non avete risposto, vi distruggerò come ho fatto con Silo" (Gr. 7.13);"Questo popolo non ha ascoltato la voce del suo Dio e non ha accettato la sua dottrina: per questo è rigettato" (Gr. 7.28);"Poiché avete indurito il vostro cuore e non avete voluto obbedire al Signore, tutti questi mali vi sono venuti addosso" (Gr. 32.23). Che significato avrebbero questi rimproveri se gli interessati sono in grado di ribattere, immediatamente: Non chiedevamo altro che prosperare, e temevamo la sventura; se non abbiamo obbedito al Signore, non abbiamo ascoltato la sua voce per evitare il male e avere sorte migliore, è unicamente perché, essendo detenuti nella prigionia del peccato, non siamo liberi. A torto dunque Dio ci rimprovera il male cui siamo sottomessi e che non era in nostro potere evitare.
Lasciando da parte la frivola e infondata scusa della necessità chiedo loro se possono dimostrare di non essere colpevoli. Se sono convinti di aver mancato, allora non senza ragione Dio afferma che è da imputarsi alla loro perversità il fatto che egli non li abbia benedetti. Possono forse negare che la causa della loro ostinazione sia stata una volontà perversa? Se la sorgente del male è in loro stessi, a che pro cercare cause esterne per far credere di non essere i responsabili della propria rovina?
Se è dunque vero che i peccatori sono per colpa loro privi dei benefici di Dio e ricevono la punizione della sua mano, a buon diritto egli li rimprovera; e se persistono nel male, imparino a deprecare la propria iniquità quale causa della propria miseria, anziché biasimare l'eccessiva severità di Dio. Se non sono completamente induriti e possono essere addolciti, concepiscano dispiacere e odio per i propri peccati, a causa dei quali si vedono in distretta, e così ritornino sulla buona strada e riconoscano la fondatezza dei rimproveri di Dio. Dalla preghiera di Daniele (Da 9) appare che questi rimproveri sono riusciti utili per i credenti. Ne vediamo un esempio negli Ebrei a cui Geremia indica per ordine di Dio le cause delle loro sventure; sebbene sia accaduto solo quanto Dio aveva predetto, vale a dire che non ascolterebbero le divine parole, e che non risponderebbero ai divini appelli (Gr. 7.27).
A che scopo parlare ai sordi? dirà qualcuno. Perché loro malgrado comprendano la verità di quanto odono: è sacrilegio abominevole imputare a Dio la causa delle calamità che risiedono in loro stessi.
Con queste tre risposte tutti potranno facilmente orientarsi tra le infinite testimonianze collezionate dai nemici della grazia di Dio, tanto dei comandamenti che delle promesse della Legge e dei rimproveri di Dio ai peccatori, i quali vogliono garantire all'uomo un libero arbitrio che non esiste.
Il Salmo afferma, per confondere gli Ebrei, che essi sono una nazione perversa, dal cuore ribelle (Sl. 78.8). In un altro passo il Profeta esorta gli uomini del suo tempo a non indurire i loro cuori (Sl. 95.8). Questo è ben detto, dato che tutta la colpa della ribellione risiede nella perversità umana. Ma è sciocco dire che il cuore dell'uomo, preparato da Dio, si volge di per se in un senso o nell'altro. Il Profeta dice: "Ho inclinato il mio cuore a osservare i tuoi comandamenti" (Sl. 119.112) perché si era dato a Dio con coraggio franco e gioioso; ma non si vanta di essere l'autore di questa inclinazione che nello stesso salmo riconosce essere un dono di Dio.
Dobbiamo di conseguenza ricordare l'ammonimento di san Paolo: egli ordina ai credenti di compiere la loro salvezza con timore e tremore, poiché Dio opera in loro il volere e il fare (Fl. 2.13). Attribuisce loro il compito di mettere mano all'opera, affinché non si lascino andare all'incuria; ma aggiungendo che questo deve avvenire, con timore e tremore, li umilia e ricorda che quanto ordina loro è l'opera propria di Dio. Con questo mezzo esprime la necessità che i credenti operino "passivamente", se posso esprimermi in questo modo: vale a dire agiscano in quanto sono spinti, e la facoltà è data loro dal cielo.
Per questa ragione san Pietro esortandoci ad aggiungere alla fede la virtù (2 Pi. 1.5) non ci attribuisce una parte dell'azione, quasi facessimo qualcosa separatamente e per conto nostro: ma risveglia solamente la pigrizia della nostra carne, che spesso soffoca la fede. Simile suona la frase di san Paolo: "Non spegnete lo Spirito!" (1 Ts. 5.19). La pigrizia qualora non sia repressa s'insinua in continuità in noi.
Se qualcuno replica ancora che è dunque in potere dei credenti custodire la purezza data loro, si può facilmente rispondere che questa perseveranza, richiesta da san Paolo (2 Co. 7.1) proviene solo da Dio. Ci è spesso richiesto infatti di purgarci di ogni macchia: e tuttavia lo Spirito Santo si riserva il vanto di consacrarci nella purezza.
Risulterà chiaro dalle parole di san Giovanni che quanto appartiene a Dio solamente ci è dato sotto forma di concessione: "Chi è da Dio"egli dice"stia in guardia!" (1 Gv. 5.18). I predicatori del libero arbitrio prendono alla leggera questo avvertimento, come se fossimo salvati in parte dalla virtù di Dio e in parte dalla nostra, quasi lo stare in guardia non ci venisse dal cielo. Ecco perché Gesù Cristo prega il Padre di guardarci dal male o dal maligno (Gv. 17.15). E sappiamo che i credenti combattendo contro Satana sono vittoriosi solo con le armi che Dio fornisce loro. Per questo san Pietro dopo aver ordinato di purificare le anime nell'obbedienza alla verità, aggiunge subito a modo di correzione: "in virtù dello Spirito", (1 Pi. 1.22).
Per concludere, san Giovanni mostra in breve come tutte le forze umane non siano che vento o fumo nella lotta spirituale, affermando che chi è generato da Dio non può peccare perché la semenza di Dio dimora in lui (1 Gv. 3.9). E in un altro passo ne precIs. la ragione: perché la nostra fede è la vittoria che vince il mondo (1 Gv. 5.4).
12. Essi citano però una testimonianza della Legge di Mosè che sembra del tutto contraria alla nostra interpretazione. Dopo aver fatto conoscere la Legge, Mosè affermò davanti al popolo quanto segue: "Il comandamento che ti do oggi non è nascosto, non è lontano da te, non s'innalza nel cielo, ma è presso di te, nella tua bocca e nel tuo cuore, affinché tu lo pratichi" (De 30.11- 14).
Riconosco che sarebbe molto difficile rispondere se questo fosse detto dei soli comandamenti. Si potrebbe certo intendere l'affermazione nel senso che qui si parla della facilità di intendere i comandamenti più che di metterli in pratica: ma qualche dubbio rimarrebbe. Abbiamo però un commentatore che ci toglie ogni dubbio: è san Paolo il quale afferma che Mosè parlava della dottrina dell'Evangelo (Ro 10.8). Se qualche ostinato replicasse che san Paolo ha travisato il significato naturale del passo per riferirlo all'Evangelo, difendere l'esegesi dell'Apostolo è possibile, anche se si deve respingere una simile calunnia. Se Mosè avesse parlato solamente dei comandamenti, avrebbe ingannato il popolo. Non avrebbe infatti potuto fare altro che cadere in rovina, avendo la pretesa di osservare la Legge con le proprie forze, quasi fosse cosa facile! Dov'è questa facilità, visto che la nostra natura soccombe a questo compito e nessuno può camminare senza inciampare?
È dunque certo che con queste parole Mosè ha inteso il Patto di misericordia che aveva reso manifesto nella Legge. Infatti aveva dichiarato poco prima che i nostri cuori devono essere circoncisi da Dio affinché lo amiamo (De 30.6). Non vede dunque questa "facilità" nelle forze dell'uomo ma nell'aiuto e nel soccorso dello Spirito Santo, il quale agisce con potenza nella nostra infermità.
Non bisogna dunque riferire il passo solamente ai comandamenti ma piuttosto alle promesse evangeliche che, lungi dall'attribuirci il potere di procurarci la giustizia, mostrano al contrario che ne siamo del tutto privi. La salvezza ci è presentata nell'Evangelo non nella forma dura e difficile, addirittura impossibile, usata dalla Legge: in base cioè all'adempimento di tutti i comandamenti, ma in forma facile ed agevole: in base a questa convinzione san Paolo applica la testimonianza di cui stiamo parlando per confermare che la misericordia di Dio ci è generosamente messa in mano. Questa testimonianza non serve dunque affatto a garantire una libertà della volontà umana.
13. Sono soliti menzionare alcuni altri passi in cui è mostrato che talvolta Dio ritrae la sua grazia dagli uomini, per vedere da che parte si volgeranno. i: detto per esempio in Osea: "Mi tirerò da parte fino a quando delibereranno nei loro cuori di seguirmi" (OS 5.15). Sarebbe ridicolo, essi dicono, che il Signore stesse a vedere quale sarà la loro via se essi non avessero la possibilità di volgersi dall'una o dall'altra parte con le proprie forze. Dio non ha forse l'abitudine di dire costantemente, per mezzo dei suoi profeti, che rigetterà il popolo e lo abbandonerà finché questo non si corregga?
Vediamo quali conclusioni ne vogliono trarre. Se dicono che il popolo, lasciato a se stesso, può convertirsi da solo, tutta la Scrittura li contraddice. Se riconoscono che la grazia di Dio è necessaria alla conversione dell'uomo, questi passi non li aiutano a combattere contro di noi.
Ma essi diranno che la riconoscono necessaria in modo tale però che le forze dell'uomo vi abbiano parte in qualche misura. Donde lo deducono? Certo non da questo passo né da altri simili: infatti è ben diverso che Dio tolga la sua grazia all'uomo per vedere che cosa questi faccia, oppure che sovvenga alla sua infermità e ne confermi le deboli forze.
Ma domanderanno: che significano allora queste espressioni? Rispondo che esse suonano come se Dio dicesse: Siccome non riesco a nulla con questo popolo ribelle, né con le esortazioni, né con le ammonizioni, né con le riprensioni, mi tirerò da parte per un tempo e tacendo sopporterò che sia afflitto. Così vedrò se dopo lungo patimento si ricorderà di me e mi cercherà. Quando è detto che Dio si ritirerà, si intende che ritirerà la sua parola. Quando è detto che osserverà quanto faranno gli uomini in sua assenza, si vuol dire che senza mostrarsi li affliggerà per qualche tempo. Una cosa e l'altra fa per umiliarci. Potrebbe spezzarci mille volte con i castighi e le punizioni senza poterci correggere; per questo è necessario che ci renda docili con il suo Spirito.
Stando così le cose è erroneo dedurre che l'uomo abbia qualche merito nel convertirsi a Dio. È detto al contrario che Dio, offeso dalla nostra durezza ed ostinazione, ritira da noi la sua parola (attraverso la quale ci comunica la sua presenza) ed esamina quel che faremo da soli. Lo scopo di tutto questo è di farci riconoscere che da soli non siamo nulla e non possiamo nulla.
14. Prendono lo spunto anche da una espressione corrente non solo tra gli uomini, ma anche nella Scrittura: le buone opere sono dette"nostre", ed è affermato che facciamo il bene come il male. Ora, se i peccati ci sono giustamente imputati, in quanto provengono da noi, per la stessa ragione ci dovrebbero essere attribuite le buone opere. Non sarebbe infatti ragionevole dire che facciamo le cose, cui Dio ci spinge, come pietre, non potendole fare per nostra propria volontà. In séguito ne concludono che, sebbene la grazia di Dio abbia il merito principale, tuttavia queste locuzioni indicano che abbiamo qualche capacità naturale di fare il bene.
Se ci fosse solo la prima obbiezione, vale a dire che le buone opere sono chiamate "nostre", risponderei che chiamiamo nostro il pane quotidiano che pure chiediamo a Dio di concederci. Questa parola indica dunque quel che non ci era in alcun modo dovuto ma che diventa nostro in virtù della infinita generosità di Dio. Dovrebbero dunque rimproverare al Signore questo modo di esprimersi: oppure non considerare strano che siano dette "nostre" buone opere in cui non c'è nulla di nostro, se non in quanto ci è dato dalla generosità di Dio.
La seconda obiezione ha maggior peso: la Scrittura afferma spesso che i credenti servono Dio, conservano la sua giustizia, obbediscono alla sua Legge e applicano la loro diligenza a compiere il bene. Se questi sono i compiti propri della mente e della volontà umana, come potrebbero essere attribuiti contemporaneamente allo Spirito di Dio e a noi, se non vi fosse un qualche legame tra le nostre facoltà e la grazia di Dio?
Sarà facile risolvere questi dubbi considerando rettamente il modo in cui Dio agisce nei suoi servi.
In primo luogo, la similitudine con cui vogliono metterci in difficoltà non è pertinente. Chi infatti è così insensato da pensare che l'uomo sia sospinto da Dio nello stesso modo che una pietra è gettata? Nulla di simile deriva dalla nostra dottrina. Noi diciamo esservi una facoltà umana naturale di approvare, respingere, volere, non volere, sforzarsi, resistere; vale a dire lodare la vanità, respingere il vero bene, volere il male, non volere il bene, sforzarsi di peccare, resistere alla dirittura. Qual è la parte del Signore in tutto questo? Se vuole adoperare la perversità umana come uno strumento della sua ira, la volge e la in dirizza dove meglio gli pare per realizzare le sue opere giuste e buone attraverso una mano cattiva. Quando dunque vedremo un malvagio servire Dio in questo modo mentre obbedisce alla propria malvagità, lo paragoneremo ad una pietra che è mossa da una forza esterna senza alcun movimento proprio, né sentimento, né volontà? Vediamo che c'è una bella differenza!
Che diremo dei buoni, di cui trattiamo particolarmente qui? Quando il Signore vuol edificare in loro il suo Regno, frena e modera la loro volontà perché non sia travolta dalla concupiscenza disordinata, secondo la sua tendenza naturale. D'altra parte la piega, la forma, la dirige e la riconduce alla regola della sua giustizia, per farle desiderare santità ed innocenza. Infine la conferma e la fortifica con la forza del suo Spirito perché non vacilli né cada.
Per questo motivo sant'Agostino scrive: "Mi dirai: Siamo dunque condotti dall'esterno e non facciamo nulla per conto nostro?". Le due cose sono vere: sei condotto e ti conduci: e ti conduci bene se ti fai condurre da colui che è buono. Lo Spirito di Dio che opera in te è quello che aiuta chi opera. Questa parola "aiutare" mostra che anche tu fai qualcosa". Ecco le sue parole.
Riguardo al primo punto egli indica che l'operare dell'uomo non è eliminato dalla guida e dalla direzione dello Spirito Santo, perché la volontà, che è guidata all'aspirazione del bene, è naturale. Riguardo all'aggiunta della parola"aiutare"si può dedurre che facciamo anche qualcosa, ma non bisogna intenderla come se egli ci attribuisse qualcosa indipendentemente e senza la grazia di Dio; piuttosto, per non favorire la nostra pigrizia, concilia l'opera di Dio con la nostra di modo che il volere sia per natura e il voler bene per grazia. D'altronde aveva detto poco prima: "Se Dio non ci aiuta, non solo non potremo vincere ma neanche combattere".
15. Da questo risulta che la grazia di Dio, nel significato attribuito alla parola quando si parla della rigenerazione, è come la regola e la briglia dello Spirito per dirigere la volontà dell'uomo. Ora non può dirigerla senza correggerla, riformarla e rinnovarla: per questo motivo diciamo che il principio della nostra rigenerazione sta nell'abolizione di quanto è nostro. Similmente non può correggerla senza smuoverla, spingerla, condurla, trattenerla. Per questo diciamo che tutte le buone azioni che ne derivano, dipendono da lui.
Non neghiamo tuttavia la verità di quanto afferma sant'Agostino: la nostra volontà non è annullata dalla grazia di Dio ma piuttosto è riparata. Non vi è contraddizione tra il dire che la volontà dell'uomo è riparata quando, corretta la perversità, essa è indirizzata alla giustizia; e il dire che nel processo una nuova volontà è creata nell'uomo. Infatti la volontà naturale è talmente corrotta e pervertita da dover essere totalmente rinnovata.
Nulla impedisce, a questo punto, di dire che compiamo le opere che lo Spirito Santo compie in noi, sebbene la nostra volontà non apporti nulla di proprio che sia indipendente dalla grazia. Ricordiamoci dunque della citazione già menzionata di Agostino: molti si adoperano invano a trovare nella volontà dell'uomo qualche bene che gli sia proprio, qualsiasi elemento si pretenda aggiungere alla grazia di Dio per rivendicarne il libero arbitrio, non è che corruzione; come se si allungasse del buon vino con acqua sporca e amara. Tutti i sentimenti buoni provengono dal solo impulso dello Spirito; tuttavia, dato che il volere è naturalmente radicato nell'uomo, è detto a buon diritto che facciamo le cose di cui Dio si riserva il merito. In primo luogo perché tutto quanto Dio compie in noi Egli vuole sia nostro, a condizione che comprendiamo che non ha origine in noi; in secondo luogo, perché abbiamo nella nostra natura l'intelletto, la volontà e la perseveranza che egli dirige al bene per farne uscire qualcosa di buono.
16. Le altre argomentazioni che i miei avversari raccolgono qua e là non sono tali da turbare molto le persone di intelligenza che abbiano ben assimilato le risposte sin qui esposte.
Menzionano quanto è scritto nella Ge : "Il tuo desiderio sarà sotto di te e tu lo dominerai", (Ge 4.7) , intendendolo detto del peccato, come se Dio promettesse a Caino che il peccato non potrà dominare nel suo cuore se vorrà adoperarsi a vincerlo! Al contrario questo deve essere piuttosto riferito ad Abele. Nel passo l'intenzione di Dio è infatti di rimproverare l'invidia che Caino aveva concepito verso suo fratello. Questo per due ragioni. In primo luogo si sbagliava pensando di primeggiare sul fratello davanti a quel Dio che apprezza solamente la giustizia e l'integrità. In secondo luogo si dimostrava ingrato nei riguardi del dono ricevuto da Dio, non potendo sopportare il fratello che era più giovane e che doveva curare.
Ammettiamo pure che Dio parli del peccato, affinché non si creda che scegliamo questa interpretazione perché l'altra ci è contraria. Se è così, o Dio gli promette che sarà superiore, oppure gli ordina di esserlo. Se glielo ordina, abbiamo visto che su questo non si può fondare il libero arbitrio. Se si tratta di una promessa, dove ne è l'adempimento visto che Caino è stato vinto dal peccato, che avrebbe dovuto dominare?
Forse diranno che la promessa aveva una condizione implicita, come se Dio avesse detto: "Se combatti riporterai la vittoria "Ma chi potrà tollerare questi sotterfugi? Se si riferisce questa dominazione al peccato non v'è dubbio trattarsi di una esortazione rivolta da Dio, nella quale non si illustra quali siano le facoltà dell'uomo, ma quale sia il suo dovere, anche se non può compierlo.
La realtà di fatto e la grammatica postulano un paragone tra Caino e suo fratello Abele: questi, il primogenito, non sarebbe stato umiliato nel sottomettersi al fratello minore, ma ha rovinato la situazione con il suo delitto.
17. Ricorrono anche alla testimonianza dell'Apostolo, il quale afferma che la salvezza non è in mano di chi vuole o di chi corre, ma risiede nella misericordia di Dio (Ro 9.16). Ne deducono esservi nella volontà e nel comportamento dell'uomo qualche parte di per se debole, a cui la misericordia di Dio supplisce affinché raggiunga un felice risultato.
Ma se si considera attentamente il problema affrontato dall'Apostolo in quel testo, non ci si può ingannare così sconsideratamente sulla sua intenzione. È: vero che possono citare Ori gene e san Girolamo per difendere la loro spiegazione, Io potrei, al contrario, contraddirli con l'autorità di sant'Agostino. Ma non dobbiamo preoccuparci di quello che costoro ne hanno pensato, quanto piuttosto di intendere quel che san Paolo voleva dire; vale a dire che otterrà salvezza solo colui al quale Dio farà misericordia, mentre rovina e confusione sono preparate per tutti coloro che non avrà eletto. Con l'esempio di Faraone aveva indicato la condizione dei reprobi. Aveva dimostrato l'elezione gratuita dei credenti con la testimonianza di Mosè, laddove è detto: "Avrò pietà di chi avrò accolto misericordiosamente". Conclude che non dipende da chi vuole o da chi corre, ma da Dio che fa misericordia. È una sciocchezza arguire da queste parole l'esistenza nell'uomo di una qualche forma di volontà e di capacità ad agire, come se san Paolo dicesse che la volontà e l'attività umana da sole non bastano. Bisogna dunque respingere questa argomentazione priva di fondamento.
Che senso infatti avrebbe il dire: la salvezza non è nelle possibilità di chi vuole o di chi corre, come se vi fosse una forma di volontà o di corsa! La frase dell'Apostolo è più semplice: non vi è né volontà né corsa per condurci alla salvezza, ma in questo campo solamente la misericordia regna. Non parla qui diversamente dall'altro passo, in cui afferma: la bontà e la benevolenza di Dio verso gli uomini sono apparse, non attraverso le opere di giustizia che abbiamo fatte, ma attraverso la infinita misericordia divina (Tt 3.5). Se volessi dedurre che abbiamo compiuto alcune buone opere, dal momento che san Paolo nega che abbiamo ottenuto la grazia di Dio con le opere della giustizia da noi compiute, loro stessi mi deriderebbero. E tuttavia la loro argomentazione è di questo tipo. Riflettano a quello che dicono per non basarsi su argomenti così inconsistenti.
Infatti l'argomentazione di sant'Agostino è pienamente valida: se fosse detto che non dipende da chi vuole né da chi corre perché il volere e il correre da soli non bastano, si potrebbe rovesciare completamente il ragionamento e affermare che non dipende dalla misericordia, perché neanch'essa opera da sola. È chiaro come questo sia irragionevole. Perciò sant'Agostino conclude che san Paolo lo ha detto perché non vi è nell'uomo alcuna buona volontà che non sia preparata da Dio. Non che non dobbiamo volere e correre, ma Dio opera l'una e l'altra cosa in noi.
Non è meno sciocco il ragionamento di quanti affermano che san Paolo definisce gli uomini: cooperatori di Dio (1 Co. 3.9). È evidente che si riferisce ai Dottori della Chiesa, di cui Dio si serve e che mette all'opera per costruire l'edificio spirituale, che è opera sua in modo esclusivo. E difatti i ministri non sono chiamati suoi compagni, come se avessero qualche facoltà di per se stessi; Dio opera per loro mezzo dopo averli resi idonei a farlo.
18. Inoltre menzionano la testimonianza dell'Ecclesiastico, libro notoriamente privo di autorità sicura. Ma anche se non la rifiutassimo, e potremmo farlo a buon diritto, che aiuto reca alla loro tesi? Afferma che l'uomo, dopo essere stato creato, è stato lasciato alla propria volontà e Dio gli ha dato dei comandamenti, osservando i quali, ne sarà protetto, che la vita e la morte, il bene e il male sono stati messi dinanzi all'uomo affinché scegliesse quanto preferisce (Ecclesiaste 15.14).
Ammettiamo che l'uomo all'atto della creazione abbia ricevuto la facoltà di scegliere la vita o la morte. Ma che ne sarà se rispondiamo che l'ha perduta? Non voglio certo contraddire Salomone, il quale afferma che l'uomo è stato creato buono dal principio ed ha prodotto da solo invenzioni malvagie (Ecclesiaste 7.29). Dato dunque che l'uomo degenerando ed allontanandosi da Dio ha perduto se stesso con tutti i suoi beni, quanto è detto della sua prima creazione non può essere esteso alla sua natura viziosa e corrotta. Rispondo dunque non solo ai miei oppositori, ma anche all'Ecclesiastico, chiunque esso sia, in questo modo: Se vuoi spingere l'uomo a cercare in se la capacità di acquistare la salvezza, la tua autorità non ha sufficiente forza da poter portare pregiudizio alla parola di Dio, la quale evidentemente vi si oppone. Se vuoi solamente far tacere la bestemmia della carne che cerca di giustificarsi attribuendo a Dio i propri vizi, e a questo fine insegni che l'uomo ha ricevuto una natura buona da Dio ed è stato causa della propria rovina, te lo concedo volentieri purché ci accordiamo insieme su questo punto, di riconoscere che attualmente egli è spoglio degli ornamenti della grazia ricevuti originariamente da Dio; così insieme riconosciamo che ora ha bisogno non di avvocato, ma di medico.
19. I nostri avversari citano con maggior frequenza la parabola di Cristo in cui si parla dell'uomo lasciato mezzo morto per strada dai briganti (Lu 10.30). So bene che comunemente si ravvisa. in quest'uomo l'immagine della sventura del genere umano. Ne prendono lo spunto per dire che l'uomo non è stato mutilato dal peccato e dal Diavolo al punto di non avere ancora un qualche soffio di vita: infatti è detto essere mezzo morto. In che consiste questa mezza vita, essi dicono, se non nel fatto che gli è rimasto un residuo di retta intelligenza e volontà?
In primo luogo, che faranno se rifiuto la loro allegoria? Non v'è alcun dubbio infatti che essa è stata escogitata dai padri antichi, oltre il significato letterale e naturale del testo. Le allegorie devono essere accettate solo se fondate sulla Scrittura: da sole esse non possono fondare alcuna dottrina.
Per di più non ci mancano le ragioni per refutare le loro dichiarazioni. La parola di Dio infatti non lascia una mezza vita all'uomo ma lo considera del tutto morto per quanto concerne la vita beata. Quando san Paolo parla della nostra redenzione, non dice affatto che siamo stati guariti da una mezza morte, ma che siamo stati risuscitati dalla morte (Ef. 2.5; 5.14). L'invito a ricevere la grazia di Cristo non è rivolto a quanti sono semi viventi, ma a quanti sono morti e sepolti (Ef. 5.14). Con questo concorda l'affermazione del Signore che l'ora è venuta per i morti di risuscitare alla sua voce (Gv. 5.25). Hanno il coraggio di contrapporre questa vacua allegoria a testimonianze così esplicite?
Ma quand'anche la loro allegoria fosse valida, cosa possono concluderne che risulti contro di noi? L'uomo, diranno, è vivo a metà; dunque ha una qualche traccia di vita. Riconosco certo che ha un'anima capace di intelligenza, sebbene incapace di penetrare fino alla sapienza celeste di Dio, ha in qualche misura la percezione del bene e del male, ha qualche intuizione dell'esistenza di un Dio, sebbene non ne abbia la retta conoscenza; ma dove conducono tutte queste cose? Esse non possono inficiare l'affermazione di sant'Agostino: i doni gratuiti relativi alla salvezza sono stati tolti all'uomo dopo la sua caduta; i doni naturali, incapaci di condurlo a salvezza, sono stati corrotti e macchiati.
Questa affermazione irrefutabile rimanga dunque ferma e certa: l'intelletto dell'uomo è completamente estraneo alla giustizia di Dio, al punto di non poter immaginare, né concepire, né comprendere null'altro che cattiveria, iniquità e corruzione. Similmente il suo cuore è avvelenato dal peccato al punto di non poter produrre che perversità. E se accade che ne esca qualcosa di buona apparenza, tuttavia l'intelletto rimane sempre mascherato dall'ipocrisia e dalla vanità e il cuore dedito ad ogni malvagità.
CAPITOLO VI
L'UOMO PERDUTO DEVE CERCARE LA REDENZIONE IN GESÙ CRISTO
1. Essendo l'intero genere umano perito in Adamo, la dignità e nobiltà nostre, come già abbiamo detto, risulterebbero prive di valore alcuno, anzi risulterebbero a nostra vergogna, se Dio non si manifestasse quale redentore nella persona del figlio suo unigenito. Egli infatti non riconosce quale opera sua l'umanità viziata ed imbastardita. Essendo decaduti dalla vita alla morte, quanto possiamo conoscere di Dio, come nostro Creatore, sarebbe inutile se non intervenisse la fede che ci rivela Dio, quale padre e salvatore, in Gesù Cristo.
Era bensì nell'ordine naturale che la costruzione del mondo fosse come una scuola per insegnarci la pietà e con questo mezzo condurci alla vita eterna e alla perfetta felicità per la quale siamo stati creati. Ma dopo la caduta e la rivolta di Adamo, dovunque volgiamo gli occhi, in alto e in basso, non ci appare altro che maledizione sparsa su tutte le creature, avvolgendo cielo e terra, tale da agghiacciare le anime nostre di orribile disperazione. Sebbene infatti Dio manifesti ancora, in molti modi, il suo paterno favore, tuttavia la semplice considerazione del mondo non ci può assicurare della sua paternità, perché la coscienza ci convince interiormente e ci fa sentire che a causa del peccato meritiamo di essere da lui respinti e di non essere considerati suoi figli.
C'è altresì la rozzezza e l'ingratitudine dei nostri spiriti che, accecati, non vedono la verità; e a causa della perversione dei sensi frodiamo Dio della sua gloria, ingiustamente.
Siamo dunque condotti all'affermazione di san Paolo: dato che il mondo non ha conosciuto Dio nella sapienza di Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti mediante la follia della predicazione (1 Co. 1.21). Definisce "sapienza di Dio "lo spettacolo del cielo e della terra, così eccellente, ricco di infiniti miracoli, e la cui contemplazione avrebbe dovuto condurci a conoscere Dio. Ma dato che ne abbiamo tratto così poco frutto, ci chiama alla fede in Gesù Cristo, che avendo apparenza di follia è sprezzata dagli increduli. Così, sebbene la predicazione della croce non piaccia allo spirito umano, se desideriamo ritornare al nostro Creatore, dal quale siamo lontani, perché ricominci ad esserci padre, dobbiamo accettare questa follia in tutta umiltà.
Infatti, dopo la caduta di Adamo nessuna conoscenza di Dio ha potuto produrre salvezza senza mediatore. Quando Gesù Cristo dice: la vita eterna consiste nel riconoscere il Padre quale vero Dio e quegli che è mandato quale Cristo (Gv. 17.3) , non si riferisce solamente al proprio tempo, ma a tutte le età. Tanto più grave è la stupidità di quanti aprono le porte del paradiso agli increduli e agli infedeli senza la grazia di Gesù Cristo, mentre la Scrittura lo presenta quale unica porta per farci accedere alla salvezza.
Se qualcuno volesse limitare questa affermazione di Gesù Cristo al tempo in cui l'Evangelo è stato manifestato, sarà facilmente refutato: in tutti i secoli e in tutte le nazioni coloro che sono separati da Dio non possono piacergli prima di essere riconciliati, e sono dichiarati maledetti e figli dell'ira. Vi è anche la risposta del Signore Gesù alla Samaritana: "Voi non conoscete quel che adorate; noi conosciamo quel che adoriamo, perché la salvezza viene dai Giudei " (Gv. 4.22). Con queste parole condanna ogni genere di religione praticata dai pagani tacciandola di errore e di falsità e ne indica il motivo: il Redentore era stato promesso sotto la Legge al solo popolo eletto. Ne consegue che nessun culto è mai stato gradito a Dio se non orientato verso Gesù Cristo. Di conseguenza, san Paolo afferma che tutti i pagani sono stati senza Dio ed esclusi dalla speranza della vita (Ef. 2.12).
Inoltre, visto che san Giovanni insegna che la vita è stata fin dal principio in Cristo e che tutti ne sono stati privati, è necessario ritornare a questa sorgente. Gesù Cristo definisce se stesso come "vita "in quanto è il propiziatore che rappacifica Dio nei nostri confronti.
D'altra parte l'eredità celeste appartiene solo ai figli di Dio. Non v'è dunque ragione che siano ammessi in questa categoria quanti non sono incorporati al Figlio unigenito: san Giovanni testimonia che quanti credono in Gesù Cristo hanno il privilegio di essere fatti figli di Dio (Gv. 1.12).
Ma la mia intenzione qui non è di trattare ex professo della fede, sarà dunque sufficiente questo accenno all'argomento.
2. Comunque sia, Dio non si è mai mostrato propizio ai Padri antichi e non ha mai dato loro speranza di grazia senza proporre loro un mediatore. Tralascio di parlare dei sacrifici, mediante i quali i credenti furono chiaramente edotti di dover cercare salvezza esclusivamente nella espiazione compiuta da Gesù Cristo; dico esclusivamente nel senso che la beatitudine promessa da sempre alla Chiesa da Dio è stata fondata sulla persona di Gesù Cristo.
Sebbene infatti Dio abbia incluso tutta la stirpe di Abramo nel suo patto, tuttavia san Paolo afferma giustamente che questo seme, nel quale tutte le genti dovevano essere benedette, propriamente parlando era Gesù Cristo (Ga 3.16; sappiamo infatti che molti sono stati generati carnalmente da Abramo ma non sono considerati sua discendenza. Anche se tralasciamo Ismaele e molti altri, perché i gemelli di Isacco, vale a dire Esaù e Giacobbe, sono stati uno respinto e l'altro eletto quando erano ancora uniti nel ventre della madre? Perché il primogenito è stato ripudiato e il secondo ne ha preso il posto? Infine, perché la maggior parte del popolo è stata tagliata fuori come bastarda?
È dunque chiaro che la razza di Abramo deve la sua condizione al suo Capo e che la salvezza promessa non si attua fino a che non si sia arrivati a Cristo, il cui ufficio è di raccogliere quello che era disperso. Ne segue che l'adozione del popolo eletto dipendeva, alla origine, dalla grazia del mediatore.
Sebbene questo non sia così chiaramente esposto in Mosè, tuttavia è stato certamente conosciuto in generale da tutti i credenti. Infatti, ancor prima che vi fosse un re creato dal popolo, già Anna, madre di Samuele, dice nel suo cantico, parlando della beatitudine della Chiesa: "Il Signore darà forza al suo re ed esalterà il corno del suo Cristo " (1 Re 2.10). Con queste parole vuol significare che Dio benedirà la sua Chiesa. Con questo concorda la profezia data a Eli, citata poco dopo: "Il sacerdote che stabilirò camminerà davanti al mio Cristo ". E non v'è dubbio che il Padre celeste abbia voluto raffigurare una immagine viva di Gesù Cristo nella persona di Davide e dei suoi successori. Ecco perché, volendo esortare i credenti al timore di Dio, ordina di baciare il Figlio per rendergli omaggio (Sl. 2.12). Nello stesso senso si esprime questa frase dell'Evangelo: "Chi non onora il Figlio, non onora il Padre " (Gv. 5.23).
Così, sebbene il regno di Davide sia stato distrutto dalla rivolta delle dieci tribù, tuttavia il patto che Dio aveva fatto con lui e con i suoi successori è rimasto, come aveva detto mediante i Profeti: "Io non distruggerò completamente questo regno a motivo di Davide, mio servitore e di Gerusalemme che ho eletta: ma a tuo figlio resterà una tribù " (2 Re 11.12-34). Il proposito è reiterato due o tre volte e questa parola viene aggiunta: "Affliggerò la semenza di Davide, ma non per sempre ". Successivamente è detto che Dio aveva lasciato una lampada in Gerusalemme per amore di Davide suo servitore, per procurargli una discendenza e proteggere Gerusalemme (2 Re 15.4). E mentre tutto cadeva in rovina ed in confusione estrema, daccapo fu detto che Dio non aveva voluto disperdere la tribù di Giuda a motivo di Davide suo servitore, promettendo di dare una lampada perpetua a lui e ai suoi figli.
Il sunto di tutto questo è il fatto che Dio ha eletto solo Davide per fare riposare su lui il suo favore e il suo amore, come è detto in un altro passo: "Ha abbandonato il tabernacolo di Silo e di Giuseppe, non ha eletto la tribù di Efraim, ma quella di Giuda e il monte di Sion che ha amato. Ha eletto il suo servitore Davide, per pascere il popolo e l'eredità di Israele " (Sl. 78.60.67).
Dio ha voluto insomma sostenere la sua Chiesa facendone dipendere la situazione, la felicità e la salvezza da questo capo. Perciò Davide esclama: "L'Eterno è la forza del suo popolo e la potenza di salvezza del suo Cristo " (Sl. 28.8). Poi aggiunge una preghiera: "Salva il tuo popolo e benedici la tua eredità! "; volendo significare con questo che tutto il bene della Chiesa è inseparabilmente legato alla superiorità e alla sovranità di Gesù Cristo. Altrove dice, sempre in questo senso: "o Dio, salva! Il re ci esaudisca nel giorno in cui lo pregheremo " (Sl. 20.10). Insegna chiaramente che i credenti hanno sempre fatto ricorso all'aiuto di Dio nella fiducia di essere coperti dalla protezione del re. Possiamo dedurlo dall'altro Salmo: "o Dio, salva! Benedetto sia colui che viene nel nome dell'Eterno! " (Sl. 118.25-26) , dove si vede che i credenti si sono rivolti a Gesù Cristo sperando di essere difesi dalla mano di Dio. A questo fine tende anche la preghiera con cui tutta la Chiesa implora la misericordia di Dio: "o Dio, la tua mano sia sull'uomo alla tua destra, sul figlio dell'uomo che hai preparato per il tuo servizio! " (Sl. 80.18). Sebbene l'autore del Salmo si lamenti della dispersione di tutto il popolo, ne domanda tuttavia la restaurazione per mezzo del solo capo.
E quando Geremia, dopo la deportazione del popolo in terra straniera, la rovina ed il saccheggio del paese, piange e geme sulla distretta della Chiesa, menziona soprattutto la desolazione del regno, perché veniva così spezzata la speranza dei credenti: "Il Cristo "dice "che era lo spirito della nostra bocca, è stato preso a causa dei nostri peccati; colui al quale dicevamo: Vivremo tra i popoli, coperti dalla tua ombra ".
Con questo è chiaro che Dio non può essere propizio al genere umano senza un mediatore; che ai Padri, sotto la Legge, ha costantemente proposto Gesù Cristo onde fosse oggetto della loro fede.
3. Quando promette la fine delle afflizioni, soprattutto quando annunzia la liberazione della Chiesa, innalza la bandiera della fiducia e della speranza in Gesù Cristo. "Dio è uscito "dice Habacuc "per la salvezza del suo popolo con il suo Cristo " (Abacuc 3.13). Quando menziona ai Profeti la restaurazione della Chiesa, il popolo è richiamato alla promessa fatta a Davide relativamente alla perpetuità del trono reale. Né c'è da meravigliarsene, ché altrimenti non vi sarebbe stata alcuna stabilità nel patto su cui si appoggiavano.
A questo si riferisce una importante dichiarazione di Isaia; vedendo il re incredulo Achaz respingere l'annuncio del soccorso che Dio voleva offrire alla città di Gerusalemme, egli, saltando da un soggetto all'altro, per così dire, se ne viene a parlare del Messia: "Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio " (Is. 7.14) , intendendo dire con parole velate che sebbene il re e il popolo rigettassero, a causa della loro malvagità, la promessa che era loro offerta e si sforzassero, con deliberato proposito, di annullare la verità di Dio, tuttavia l'alleanza non sarebbe stata distrutta ed a suo tempo sarebbe venuto il Redentore.
Per questo motivo i profeti, volendo rassicurare il popolo con l'affermazione del favore e della benevolenza di Dio, hanno costantemente additato il regno di Davide, dal quale avrebbero dovuto venire la redenzione e la salvezza eterna. Così Isaia dice: "Stabilirò il mio patto con voi, le grazie stabili promesse a Davide. Ecco, l'ho dato come testimone ai popoli " (Is. 55.3); tanto più che i credenti, vedendo le cose confuse e disperate, non potevano sperare, senza ricevere una testimonianza come questa, che Dio fosse loro propizio e disposto alla magnanimità.
Similmente Geremia per incoraggiare quanti erano disperati dice: "Ecco, viene il giorno in cui farò sorgere a Davide un germoglio giusto, e allora Giuda e Israele abiteranno al sicuro" (Gr. 23.5-6). Ed Ezechiele da parte sua: "Susciterò sulle mie pecore un pastore, vale a dire il mio servitore Davide. Io, l'Eterno, sarò il loro Dio e il mio servitore Davide sarà il loro pastore. Stabilirò con essi una alleanza di pace " (Ez. 34.23). In un altro passo, dopo aver parlato del rinnovamento che sembrava incredibile dice: "Il mio servitore Davide sarà il loro re e lui solo sarà pastore su tutti; e ratificherò una alleanza permanente di pace con loro " (Ez. 37.25-26).
Scelgo alcune tra molte testimonianze, perché desidero solo far notare ai lettori che la speranza dei credenti non ha mai riposato altrove che in Gesù Cristo.
Tutti gli altri profeti usano lo stesso linguaggio; come dice Osea: "I figli di Giuda e i figli di Israele saranno raccolti insieme e stabiliranno su di se un capo " (Ho 1.2). Questo è espresso ancor meglio dopo: "I figli d'Israele ritorneranno e cercheranno l'Eterno, loro Dio e Davide, loro re " (Ho 3.5). Similmente Michea parlando del ritorno del popolo specifica che davanti a loro camminerà il re e l'Eterno sarà il loro capo (Mi. 2.13). Amos volendo promettere il ristabilimento della Chiesa dice: "Innalzerò la tenda di Davide che è caduta; riparerò tutte le brecce e rialzerò tutte le rovine ", (Am. 9.2). Con questo mostra non esservi altro segno di salvezza che il ristabilimento della gloria e della maestà reale nella casa di Davide: il che si è realizzato in Cristo.
Per questo motivo Zaccaria, il cui tempo era più vicino alla manifestazione di Cristo, esclama più chiaramente: "Rallegrati, figlia di Sion! Gioisci, figlia di Gerusalemme! Ecco il tuo re viene a te, giusto e salvatore " (Za. 9.9). Abbiamo già citato un passo simile nel Salmo: "L'Eterno è la forza di salvezza del suo Cristo. O Dio, salva! " (Sl. 28.8-9). Queste parole mostrano che la salvezza si estende dal capo a tutto il corpo.
4. Dio ha voluto nutrire i Giudei con queste profezie, onde si abituassero a guardare a Gesù Cristo ogni volta che domanda vano di essere liberati. E infatti, sebbene si siano gravemente corrotti, non hanno mai perso la coscienza di questa verità fondamentale: vale a dire che Dio, secondo la promessa fatta a Davide, sarebbe il redentore della sua Chiesa per mezzo di Gesù Cristo. E con questo mezzo rimarrebbe fermo il patto gratuito con cui Dio aveva adottato i suoi eletti.
In conseguenza di questo, durante l'entrata di Gesù Cristo in Gerusalemme, poco prima della sua morte, risuonava come cosa nota sulla bocca dei bambini questo cantico: "Osanna al figlio di Davide! " (Mt. 21.9). Non v'è alcun dubbio infatti, che esso aveva origine in un concetto accettato da tutto il popolo e ripetuto quotidianamente: vale a dire che non restava loro altro pegno della misericordia di Dio che la venuta del Redentore.
Per questo motivo Cristo ordina ai suoi discepoli di credere in lui per credere in modo autentico e pieno in Dio (Gv. 14.1). Sebbene infatti la fede si rivolga al Padre mediante Gesù Cristo, tuttavia egli vuole ricordare che essa svanirebbe, quand'anche radicata in Dio, se egli stesso non intervenisse per mantenerla saldamente. Del resto la maestà di Dio è troppo alta perché gli uomini mortali possano giungere ad essa; essi non fanno altro che strisciare sulla terra come vermiciattoli. Accetto dunque l'affermazione corrente che Dio è l'oggetto della fede purché si aggiunga che non a caso Gesù Cristo è detto immagine dell'Iddio invisibile (Cl. 1.15). Con questa espressione ci viene reso manifesto che se il Padre non si presenta a noi per mezzo del Figlio non può essere conosciuto sotto il profilo della salvezza.
Sebbene gli scribi avessero confuso ed oscurato con le loro false glosse tutto quello che i profeti avevano insegnato sul Redentore, tuttavia Gesù Cristo ha considerato come certo e universalmente accettato il principio che non vi fosse altro rimedio allo smarrimento in cui erano caduti gli Ebrei, né altro modo di liberare la Chiesa se non nella venuta del Redentore promesso. Il popolo non ha compreso con la necessaria chiarezza l'insegnamento di san Paolo che Gesù Cristo è il fine della Legge (Ro 10.4). Risulta però chiaramente dalla Legge e dai Profeti quanto sia vera e certa questa affermazione.
Non trattiamo ancora dettagliatamente della fede, perché sarà più opportuno farlo altrove. Questo solo deve essere chiaro: se l'elemento primario della pietà consiste nel conoscere Dio quale Padre che ci mantiene, ci governa e ci nutre fino a quando non ci accoglierà nella sua eredità eterna, ne deriva immancabilmente quanto abbiamo or ora affermato, vale a dire che la vera conoscenza di Dio non può sussistere senza Gesù Cristo, e che fin dall'inizio del mondo egli è stato presentato ai credenti onde guardassero a lui e la loro fiducia si riposasse in lui.
In questo senso Ireneo scrive che il Padre, essendo in se infinito si è reso finito nel Figlio, conformandosi alla nostra piccolezza affinché le nostre facoltà non fossero annullate dalla sua gloria. Affermazione fraintesa da alcuni stravaganti che se ne sono serviti per mascherare le loro diaboliche speculazioni dicendo che solo una parte della divinità era stata infusa dalla perfezione del Padre nel Figlio. Questo buon Dottore intende invece dire che Dio si scopre in Gesù Cristo e non altrove. : È eternamente vera l'affermazione: "Chi non ha il Figlio, non ha il Padre " (1 Gv. 2.23). Sebbene molti si siano vantati di adorare il sovrano Creatore del cielo e della terra, tuttavia non avendo mediatore erano nell'impossibilità di gustare realmente la misericordia di Dio e conseguentemente di essere rettamente persuasi della sua paternità. Dato che non avevano il capo, cioè Cristo, hanno avuto solo una conoscenza nebulosa di Dio e senza fondamento. Di conseguenza sono caduti in superstizioni enormi e grossolane, rivelando la propria ignoranza: come oggi i Turchi i quali si vantano con convinzione che il loro Dio è il sovrano Creatore e tuttavia lo sostituiscono con un idolo, in quanto rifiutano Gesù Cristo.
CAPITOLO VII
LA LEGGE NON È STATA DATA PER VINCOLARE IL POPOLO ANTICO, MA PER NUTRIRNE LA SPERANZA DI SALVEZZA IN GESÙ CRISTO, FINO AL MOMENTO DELLA SUA VENUTA
1. È facile dedurre da quanto detto sin qui, che la Legge non è stata data, circa 400 anni dopo la morte di Abramo, per allontanare da Gesù Cristo il popolo eletto, ma anzi mantenerne viva l'attesa e incitarlo a nutrire un ardente desiderio della sua venuta, e, inoltre, per confermarlo in questa attesa onde non perdesse coraggio per il suo prolungarsi.
Con questo termine "Legge "non intendo solo indicare i dieci comandamenti che ci presentano la norma di una vita giusta e santa, ma i diversi aspetti della religione che Dio ha rivelato per mezzo di Mosè. La funzione di Mosè come legislatore, non è stata l'abolizione della benedizione promessa alla razza di Abramo; vediamo anzi che ripetutamente egli richiama i Giudei a questo patto gratuito stabilito da Dio con i loro padri e di cui erano eredi, quasi fosse stato mandato per rinnovarlo.
Questo fatto risulta chiaramente dalle cerimonie. Nulla infatti è più sciocco e futile dell'offrire grasso delle visceri di animali e fumo puzzolente per riconciliarsi con Dio; o trovare conforto nell'aspersione di sangue e acque per cancellare le macchie dell'anima. Insomma, il culto celebrato sotto la Legge, considerato in se stesso, ci sembra gioco infantile, qualora cioè non se ne considerino gli aspetti di simbolo e prefigurazione, cui corrispondono verità spirituali. Non senza motivo dunque, sia nell'ultimo discorso di santo Stefano (At. 7.44) che nell'epistola agli Ebrei (Eb. 8.5) , è ricordato con tanta cura il testo in cui Dio ordina a Mosè di costruire il tabernacolo e gli altri accessori cultuali secondo il modello che gli era stato mostrato sul Monte (Es. 25.4o). Se tutto questo non avesse avuto uno scopo spirituale gli Ebrei vi avrebbero sprecato fatica, come i pagani nelle loro ciarlatanerie. La gente profana e beffarda che non ha mai applicato i suoi sforzi ad una retta pietà, se l'ha a male con la moltitudine dei riti della Legge e non solo si stupisce del fatto che Dio abbia messo in così grandi difficoltà il popolo antico, caricandolo di tanti pesi, ma si fa beffe di molte cerimonie, quasi fossero solo futili giochetti da bambini. Essi non considerano il fine: scisso dal quale le rappresentazioni della legge appaiono naturalmente vane e inutili.
Il termine di riferimento, di cui si parla, mostra chiaramente che Dio non ha stabilito i sacrifici per impegnare in cose terrene coloro che lo volevano servire, ma piuttosto per innalzare il loro spirito più in alto. Ne è dimostrazione la sua natura stessa che, essendo spirituale, non può prendere piacere che in un culto spirituale. Molte testimonianze dei profeti lo confermano: quando rimproveravano agli Ebrei la loro insipienza perché pensavano che Dio apprezzasse i sacrifici in se stessi. La loro intenzione non era affatto lo sminuire in qualche modo la Legge, ma essendone veraci e retti commentatori volevano ricondurre il popolo ebraico al punto dal quale si era allontanato.
Dobbiamo dedurre che la Legge non era senza Cristo dal solo fatto che la grazia di Dio è stata offerta agli Ebrei. Mosè infatti ha additato loro il fine della loro adozione: essere il regno sacerdotale di Dio (Es. 19.6). E questo non potevano ottenerlo se non fosse esistita riconciliazione più degna e preziosa che quella ottenuta mediante il sangue di animali. Per quale ragione i figli di Adamo, nati schiavi del peccato per contagio ereditario, dovrebbero essere innalzati improvvIs.mente alla dignità reale e in questo modo fatti partecipi della gloria di Dio? Questo bene eccelso ed eccellente può venire loro solo quale dono. Come avrebbero potuto godere del diritto di offrire sacrifici, abominevoli a Dio quali erano a motivo dei loro vizi, se non fossero stati consacrati a questo ufficio dalla santità del Capo?
San Pietro riferendosi alle parole di Mosè si è espresso con notevole sensibilità e pertinenza: alludendo al fatto che la grazia goduta dagli Ebrei sotto la Legge è stata pienamente rivelata in Gesù Cristo, dice: "Siete una razza eletta, un real sacerdozio " (1 Pi. 2.9).
Questo mutamento di termini vuol far rilevare che coloro ai quali Gesù Cristo è apparso attraverso l'Evangelo, hanno ricevuto maggiori beni dei loro padri, dato che sono tutti rivestiti dell'onore sacerdotale e reale, onde avere la libertà di presentarsi liberamente a Dio per mezzo del loro Mediatore.
2. Notiamo qui, per inciso, che il regno stabilito nella dinastia davidica rappresentava una parte dell'incarico attribuito a Mosè e della dottrina di cui era stato fatto ministro. Ne consegue che, sia nella tribù di Levi, che nei successori di Davide, Gesù Cristo è stato presentato agli Ebrei come in un duplice specchio: come ho detto, non avrebbero potuto essere sacerdoti di Dio altrimenti, dato che erano servi del peccato e della morte e macchiati dalla corruzione.
È anche evidente la verità dell'affermazione di san Paolo che gli Ebrei sono stati tenuti sotto la Legge come sotto la direzione di un pedagogo (Ga 3.24) finché spuntasse il seme per il quale la grazia doveva essere data. Non essendo Gesù Cristo rivelato loro, erano, in quel tempo, simili a fanciulli, la loro ignoranza e la loro debolezza non potevano condurre ad una conoscenza piena delle cose celesti.
Questa guida a Gesù per mezzo dell'aspetto cerimoniale della legge è già stato esposto, e lo si può comprendere ancor meglio in base alle molte testimonianze dei profeti. Infatti sebbene fossero obbligati ad offrire, quotidianamente, sempre nuovi sacrifici per soddisfare Dio, tuttavia Isaia promette loro che tutti i peccati saranno cancellati di colpo da un sacrificio unico e perpetuo (Is. 53). Anche Daniele lo conferma (Da 9). I sacerdoti, scelti nella tribù di Levi, entravano nel santuario; tuttavia nel Salmo era detto che Dio ne aveva eletto uno solo, stabilendolo con giuramento solenne ed immutabile perché fosse sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec (Sl. 110.4). Era allora praticata l'unzione con olio, ma Daniele, in séguito ad una visione, dichiara che ve ne sarà un'altra.
Non insisterò ulteriormente su questo punto, tanto più che l'autore dell'epistola agli Ebrei, dal capo 4all'11, ne tratta ampiamente e mostra chiaramente che tutte le cerimonie della Legge sono prive di valore e di utilità alcuna fin quando non si giunga a Gesù Cristo.
San Paolo si riferisce anche ai dieci comandamenti quando dice che Gesù Cristo è il fine della Legge per la salvezza di tutti i credenti (Ro 10.4) , e quando afferma che Gesù Cristo è l'anima o lo spirito che vivifica la lettera, che in se sarebbe mortale (2 Co. 3.6). Nel primo passo vuol dire che non serve conoscere la vera giustizia, se Gesù Cristo non ce la concede per imputazione gratuita, oppure rigenerandoci con il suo Spirito. Giustamente quindi definisce Gesù Cristo l'adempimento o il fine della Legge; infatti non servirebbe a nulla conoscere quel che Dio ci richiede se Gesù Cristo non ci soccorresse alleggerendo il giogo e l'insopportabile fardello sotto il quale soffriamo e da cui siamo schiacciati.
In un altro passo dice che la Legge è stata formulata per le trasgressioni (Ga 3.19) , allo scopo di umiliare gli uomini, convincendoli della loro dannazione. Questa è la preparazione autentica ed unica per giungere a Cristo; quanto vien detto a questo proposito con parole diverse, si armonizza molto bene. Dovendo polemizzare con seduttori, secondo cui la possibilità di giustificarsi e meritare salvezza esisteva unicamente nell'adempimento delle opere della Legge, e dovendo distruggere le loro argomentazioni, è stato talvolta costretto ad assumere la Legge in una accezione più limitata, come se essa si limitasse ad ordinare di vivere bene, sebbene non ne debba essere eliminato il patto di adozione, quando la si considera nella sua totalità.
3. È utile vedere in breve come siamo resi più inescusabili dal fatto di aver conosciuto la legge morale, essendo così sollecitati a chiedere perdono.
Se è vero che nella Legge è rivelata la perfezione della giustizia, ne consegue che l'osservanza completa della Legge costituisce giustizia perfetta nel cospetto di Dio, mediante la quale l'uomo può essere ritenuto giusto davanti al tribunale celeste. Per questo Mosè, dopo aver fatto conoscere la Legge, non esita a invocare il cielo e la terra quali testimoni del fatto che ha posto dinanzi al popolo di Israele la vita e la morte' il bene e il male (De 30.19). E non possiamo negare che l'osservanza perfetta della Legge sia ricompensata con la vita eterna, come il Signore ha promesso
Dobbiamo d'altra parte considerare se siamo in grado di realizzare una obbedienza tale da poter nutrire qualche speranza di salvezza. A che serve infatti comprendere che, obbedendo alla Legge, possiamo meritarci la vita eterna, se nello stesso tempo non conosciamo il mezzo per pervenire alla salvezza? Qui appare la debolezza della Legge: questa obbedienza non può infatti essere riscontrata in alcun uomo; di conseguenza siamo esclusi dalle promesse di vita e cadiamo nella eterna maledizione. Non parlo solo di quello che avviene di fatto, ma di quello che necessariamente deve accadere. Dato che l'insegnamento della Legge supera di molto le facoltà umane, possiamo contemplare da lontano le promesse in essa formulate, ma non possiamo trarne alcun giovamento.
Non otteniamo dunque altro se non prendere ancor meglio coscienza della nostra miseria, dato che ci è tolta ogni speranza di salvezza e la morte viene rivelata. D'altra parte vi sono le minacce formulate, che non si riferiscono a qualcuno di noi in particolare ma genericamente a tutti. Esse ci incalzano e ci perseguitano con rigore inesorabile, di sorta che la Legge si offre a noi come una maledizione ineluttabile.
4. Così dunque se ci raffrontiamo solo con la Legge non possiamo che perdere coraggio in modo assoluto, rimanere confusi e disperarci, dato che in essa siamo tutti maledetti e condannati e ciascuno di noi è escluso dalla beatitudine promessa a chi l'osserva.
Qualcuno domanderà se Dio prende piacere nell'ingannarci. Infatti sembra un inganno quello di far balenare una qualche speranza di felicità all'uomo, di chiamarvelo ed esortarvelo, promettergli che è pronta e poi impedirgliene l'accesso.
Rispondo che le promesse della Legge non sono state date invano, essendo però in forma condizionale non possono realizzarsi se non per coloro che avranno attuata tutta la giustizia, il che non si verifica tra gli uomini. Quando avremo compreso che esse hanno efficacia per noi a condizione che Dio, per sua bontà gratuita, ci accolga senza considerare le nostre opere; e quando avremo accolto per fede questa bontà, offertaci nell'Evangelo, allora queste stesse promesse, con le loro condizioni, non risulteranno vane. Perché allora il Signore ci darà gratuitamente ogni cosa, in modo che la sua liberalità giunga al punto di non respingere la nostra obbedienza imperfetta; ma perdonandoci le sue lacune, l'accetti come se fosse valida e assoluta e ci consenta così di ricevere i frutti delle promesse della Legge, come se le condizioni preliminari fossero state osservate.
Il problema sarà più compiutamente trattato quando parleremo della giustificazione per fede; non voglio perciò svilupparlo oltre.
5. Dobbiamo ora brevemente spiegare, confermando quanto abbiamo già detto, perché l'osservanza della Legge sia impossibile. Sembra un'affermazione completamente assurda, tanto che san Girolamo non ha esitato a condannarla come perversa. Non ci interessano le ragioni che lo hanno spinto ad assumere questa posizione; ci basti di comprendere la verità.
Non farò distinzione tra vari tipi di possibilità. Definisco "impossibile "quello che mai si è verificato e Dio ha esplicitamente dichiarato non si verificherà mai. Affermo che, dall'inizio del mondo, nessuno fra tutti i santi, chiuso nel carcere di questo corpo mortale, ha manifestato tale perfezione di senti menti da amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze. Aggiungo che non ce n'è uno solo che non sia stato contaminato da qualche concupiscenza. Chi potrà contraddirmi? Conosco il tipo di santi inventati dalla superstizione popolare: di una tale purezza che a stento gli angeli del cielo possono essere loro paragonati; ma questo è in contrasto con la Scrittura e con l'esperienza. Dico di più: non ci sarà mai nessuno che raggiunga questo livello di perfezione prima di essere liberato dal corpo. Molti testi della Scrittura lo dimostrano esplicitamente.
Dedicando il Tempio, Salomone diceva che non c'è sulla terra uomo che non pecchi (2 Re 8.46). Davide dichiara che nessun essere vivente sarà giustificato nel cospetto di Dio (Sl. 143.2). Questo è spesso ripetuto anche nel libro di Giobbe. San Paolo lo afferma più chiaramente di tutti: "La carne ha desideri contrari allo Spirito, e lo Spirito ha desideri contrari alla carne " (Ga 5.17). Per dimostrare che quanti sono sotto la Legge sono maledetti si limita a questa sola spiegazione: è scritto che quanti non obbediranno ai comandamenti saranno maledetti (Ga 3.10; De 27.26). Con questo presuppone, anzi è per lui cosa certa, che nessuno è in grado di obbedire. Ora tutto ciò che viene predetto nella Scrittura deve essere considerato eterno, anzi necessario.
I Pelagiani pungolavano sant'Agostino con questa sottigliezza: sarebbe recare ingiuria a Dio pensare che egli ordini più di quel che i credenti siano in grado di fare, con l'aiuto della sua grazia. Per rispondere alle loro calunnie egli ammetteva che il Signore potrebbe esaltare un mortale fino alla perfezione angelica, qualora lo volesse; ma aggiungeva che non l'ha fatto mai né lo farebbe in avvenire avendo affermato il contrario. Non ho nulla da obbiettare a questa affermazione; aggiungo solo che è privo di senso contrapporre la potenza e la verità di Dio. Affermo dunque che il problema della possibilità o impossibilità che si verifichino cose che il Signore ha dichiarato non si verificheranno, è fuori discussione.
La disputa sorge anche intorno al termine. Interrogato dai suoi discepoli su chi potesse essere salvato, Gesù Cristo risponde che questo è impossibile agli uomini ma che a Dio ogni cosa è possibile (Mt. 19.25). Sant'Agostino fa notare, con validi argomenti, che nella vita presente non rendiamo mai a Dio l'amore che gli dobbiamo: "L'amore "egli dice "deriva dalla conoscenza, nessuno può dunque amare Dio perfettamente senza aver prima conosciuto la sua bontà. Durante il nostro pellegrinaggio terreno, non la vediamo che oscuramente e come in uno specchio; di conseguenza l'amore che le portiamo è imperfetto ".
Sia dunque chiaro che ci è impossibile adempiere la Legge fin quando siamo in questo mondo, come san Paolo dimostra in altro testo (Ro 8.3).
6. Per illustrare più chiaramente l'insieme del problema, riassumiamo quale siano la funzione e il compito della Legge che vien definita morale: in esso, a mio giudizio, vi sono tre elementi.
In primo luogo, mostrando la giustizia di Dio, la Legge fa prendere coscienza a ognuno della propria ingiustizia, convincendolo e condannandolo. È necessario che l'uomo, altrimenti accecato e ubriacato dall'amore di se, sia costretto a riconoscere e confessare la propria debolezza e la propria impurità. Se la sua vanità non è messa a nudo, egli si gonfia di folle tracotanza e non può giungere a riconoscere la piccolezza e la debolezza delle proprie forze, in quanto le commisura alla propria fantasia. Quando invece le mette alla prova nell'adempimento della legge di Dio, si vede costretto a umiliare il proprio orgoglio a causa delle difficoltà che incontra. Se infatti nutriva in precedenza una grande opinione di se, sente poi quale peso gravi sulle sue forze fino a farlo inciampare, vacillare, cadere ed infine venir meno. In questo modo la conoscenza della dottrina di Dio sottrae l'uomo alla naturale presunzione.
Anche da un altro vizio deve essere liberato: l'arroganza, di cui già abbiamo parlato. Fin quando si attiene al giudizio che può dare di se, anziché considerare la vera giustizia, si pone in una situazione ipocrita, di cui si compiace, inorgogliendosi nei riguardi della grazia di Dio e giustificandosi con invenzioni costruite di testa propria. Quando però è costretto ad esaminare la propria vita al metro della Legge di Dio, lasciando da parte l'immagine della propria giustizia, frutto della sua fantasia e perciò falsa, scopre di essere incredibilmente lontano dalla vera santità, e al contrario, di essere pieno di vizi, di cui, prima, si considerava esente. Le concupiscenze sono così nascoste e sottili da ingannare facilmente il giudizio dell'uomo. Non senza motivo l'Apostolo dice di non aver saputo che cosa fosse la concupiscenza fino a quando la Legge non gli disse: "Non concupire! " (Ro 7.7). Se essa non è denunciata dalla Legge e tratta fuori dal suo nascondiglio, essa uccide l'infelice uomo, senza che se ne accorga.
7. La Legge è dunque come uno specchio in cui contempliamo in primo luogo la nostra debolezza, poi l'iniquità che ne deriva, e infine la maledizione che le colpisce ambedue, così come in uno specchio percepiamo le macchie del nostro viso. Colui infatti che è privo di ogni capacità a vivere rettamente, non può che rimanere nel fango del peccato. Al peccato fa séguito la maledizione. Perciò quanto più la Legge ci convince della nostra colpa tanto più ci rivela che siamo meritevoli di condanna e di gravi pene.
Questo intende l'Apostolo allorché dice che, mediante la Legge, sorge la coscienza del peccato (Ro 3.20). Ne sottolinea così la prima funzione che concerne i peccatori non rigenerati. Nello stesso senso sono da intendersi queste affermazioni: la Legge è sopravvenuta per aumentare il peccato (Ro 5.20) , essa quindi è ministra di morte (2 Co. 3.7) , produce l'ira di Dio (Ro 4.15) e ci uccide. Senza dubbio quanto più la coscienza è toccata sul vivo dalla conoscenza del suo peccato, tanto più aumenta l'iniquità, perché allora la ribellione verso il legislatore si aggiunge alla trasgressione. Ne consegue dunque che essa fornisce argomenti alla vendetta di Dio nei riguardi del peccatore, perché non può che accusare, condannare e condurre a perdizione.
Dice sant'Agostino: "Se si toglie lo Spirito di grazia, la Legge non serve ad altro che ad accusare e ad uccidere ". Esprimendosi in questi termini non condanna la Legge, né toglie alcunché alla sua eccellenza. Se la nostra volontà fosse interamente fondata sull'obbedienza e radicata in essa, allora sarebbe sufficiente conoscere l'insegnamento per essere salvi. Dato però che la nostra natura, corrotta e carnale, si oppone con ostilità alla Legge spirituale di Dio e non può esserne corretta, ne consegue che la Legge data in vista della salvezza, si trasforma in occasione di peccato e di morte. Ogniqualvolta ci pone di fronte alle nostre trasgressioni, ci rivela anche la giustizia di Dio e d'altra parte scopre la nostra iniquità. Quanto più ci conferma il premio preparato per la giustizia, tanto più ci assicura della confusione preparata per gli iniqui. Lungi dunque dal voler sminuire la Legge!
Non potremmo lodare maggiormente la bontà di Dio! È evidente che la nostra perversità soltanto ci impedisce di ottenere la beatitudine eterna che ci era offerta nella Legge. Vedendo come Dio non si stanca di beneficarci e di aggiungere benevolenza a benevolenza, abbiamo motivo di gustare maggiormente la sua grazia che ci soccorre in ciò che manca all'adempimento della Legge, e di mirare più a fondo la sua misericordia che ci conferisce questa grazia.
8. La nostra condanna è decretata dalla Legge non in vista di farci cadere nella disperazione, o perché perdiamo coraggio. Questo non avverrà se sapremo trarne profitto. È vero che i malvagi si abbandonano in questo modo allo sconforto, ma ciò avviene per l'ostinazione del loro cuore.
I figli di Dio devono pervenire ad altre conclusioni. San Paolo dichiara infatti che siamo tutti condannati dalla Legge, onde ogni bocca sia chiusa e tutti prendano coscienza del loro debito verso Dio (Ro 3.19) : tuttavia, in un altro passo insegna che Dio ha racchiuso ogni cosa nell'incredulità, non per perdere, né per lasciar perire, ma per fare misericordia a tutti (Ro 11.32) , vale a dire, affinché rinunciando ad una falsa presunzione della propria virtù, gli uomini riconoscano di essere sostenuti solamente dalla sua mano. Affinché, svuotatisi e spogliatisi, ricorrano alla sua misericordia, affidandosi solamente ad essa, nascondendosi sotto la sua ombra, considerandola giustizia valida unicamente nella forma in cui è offerta in Gesù Cristo a tutti quelli che la cercano, la desiderano e la aspettano con vera fede. Nei comandamenti della Legge il Signore ci si presenta come colui che retribuisce solo una giustizia perfetta, della quale tutti siamo sprovvisti, e colui che, al contrario, attua con severità le pene dovute a nostri errori. Ma in Cristo il suo volto riluce pieno di grazia e di dolcezza, sebbene noi siamo poveri e indegni peccatori.
9. Sant'Agostino parla sovente della spinta che riceviamo dalla Legge, ad implorare l'aiuto di Dio. Dice ad esempio: "La Legge ordina affinché, dopo esserci sforzati di adempiere i comandamenti ed aver fallito a causa della nostra infermità, impariamo ad implorare l'aiuto di Dio, ": "L'utilità della Legge è di convincere l'uomo della sua infermità e costringerlo a chiedere la medicina della grazia, che è in Cristo " "La legge comanda; la grazia dà la forza di far bene " "Dio comanda quel che non possiamo fare, onde sappiamo quel che gli dobbiamo domandare ", "La Legge è stata data per renderci colpevoli, onde essendo colpevoli temessimo, e temendo domandassimo perdono e non presumessimo nulla dalle nostre forze " "La Legge è stata data per farci sentire piccoli, anziché grandi, per mostrarci che da soli non abbiamo la forza di ottener giustizia; onde, sentendoci poveri ed indigenti, ricorressimo alla grazia di Dio ". Di conseguenza aggiunge una preghiera: "O Signore, comandaci quello che non possiamo realizzare, o piuttosto comandaci quello che non possiamo realizzare senza la tua grazia, affinché quando gli uomini non potranno realizzare quel che Tu dici, ogni bocca sia chiusa e nessuno si stimi grande; tutti siano piccoli e tutti siano resi colpevoli di fronte a Dio ".
È superfluo che io mi metta a raccogliere le affermazioni di sant'Agostino, dato che egli ha scritto un libro apposta, intitolato: Dello spirito e della lettera. Egli non si occupa espressamente del secondo aspetto della Legge: forse perché pensava che lo si sarebbe potuto dedurre dal primo, o perché non lo vedeva così chiaramente o non riusciva a trattarne come avrebbe voluto.
Sebbene il primo ufficio della Legge, del quale abbiamo ora trattato, si riferisca propriamente ai figli di Dio, tuttavia esso concerne anche i reprobi. Essi non giungono al punto di essere umiliati secondo la carne per ricevere forza spirituale nello spirito, come i credenti, ma vengono meno cadendo in disperazione; tuttavia è bene che le loro coscienze siano messe in crisi, per manifestare l'equità del giudizio di Dio. Fin quando possono, cercano di sfuggire al giudizio di Dio. Sebbene il giudizio non sia ora manifestato, tuttavia la testimonianza della Legge e la loro propria coscienza li gettano nella disperazione talché risulta evidente ciò che hanno meritato.
10. La seconda funzione della Legge consiste nel ricorrere alle sanzioni per mettere un freno alla malvagità di quanti si curano di fare il bene solo quando siano costretti, in quanto li inquieta con le terribili minacce che contiene. Questo avviene non perché il loro cuore sia interiormente toccato o mosso, ma perché sono come imbrigliati ed impediti di dar corso ai loro malvagi propositi, che altrimenti attuerebbero con sfrenata licenza. Non risultano, per questo, più giusti e migliori di fronte a Dio. Sebbene siano trattenuti dal timore o dalla vergogna, per cui non osano eseguire quello che concepiscono in fondo al cuore e non danno libero corso alla furia della loro intemperanza, tuttavia il loro cuore non è mosso dal timore e dall'obbedienza a Dio; anzi più si trattengono, più sono infiammati dalle loro concupiscenze, pronti a commettere ogni azione vile o turpe, se il timore della Legge non li trattenesse. E non solo il cuore rimane sempre malvagio, ma anche nutrono un odio radicale contro la Legge di Dio e dato che Dio ne è l'autore, odiano lui. Se fosse loro possibile, lo toglierebbero volentieri di mezzo perché non possono tollerare che ordini quel che è buono, santo e retto, facendo giustizia di quanti sprezzano la sua maestà.
Questo atteggiamento risulta più evidente in alcuni, più nascosto in altri; ma è presente in tutti quelli che non sono rigenerati, i quali sono costretti, bene o male, a sottomettersi alla Legge, non per libera scelta ma per costrizione e con grande riluttanza; e null'altro ve li costringe se non il timore della severità di Dio.
Tuttavia questa giustizia imposta risulta necessaria alla comunità umana, la cui tranquillità il Signore garantisce, impedendo che ogni cosa sia rovesciata disordinatamente; e questo avverrebbe se ciascuno ritenesse lecita ogni cosa.
Per di più, non è inutile per i figli di Dio essere governati da questa pedagogia nel tempo in cui non hanno ancora lo spirito di Dio ma si smarriscono nelle intemperanze della carne.
Talvolta avviene che il Signore non si riveli immediatamente ai credenti ma li lasci camminare per qualche tempo nell'ignoranza prima di chiamarli. Grazie a questo timore servile sono trattenuti dal diventare dissoluti e sebbene il loro cuore, non essendo ancora domato e soggiogato, non ne tragga molto vantaggio tuttavia si abituano a poco a poco a portare il giogo del nostro Signore; sicché non saranno indocili del tutto, quando egli li chiamerà a sottomettersi ai suoi comandamenti, quasi fosse cosa nuova e sconosciuta.
È probabile che l'Apostolo intendesse accennare a questa funzione della Legge quando diceva che essa non è data per i giusti, ma per gli ingiusti ed i ribelli, gli increduli e i peccatori, i malvagi e gli scellerati, gli assassini dei genitori, gli omicidi, i fornicatori, i ladroni, i mentitori e gli spergiuri e tutti quelli macchiati dai vizi contrari alla sana dottrina (1 Ti. 1.9-10). Egli mostra che la Legge è come una briglia per frenare le concupiscenze della carne che altrimenti dilagherebbero senza limite.
2. Quanto dice in un altro passo può essere inteso in questi due sensi: la Legge è stata un pedagogo per gli Ebrei, per condurli a Cristo (Ga 3.24). Vi sono infatti due tipi di uomini che essa conduce a Cristo con la sua pedagogia.
I primi, di cui abbiamo già parlato, sono quelli che ripieni di fiducia nelle proprie forze e nella propria giustizia, devono esserne privati per diventare capaci di ricevere la grazia di Cristo. La Legge rendendone evidente la miseria, li conduce all'umiltà e li prepara così a desiderare quello di cui non credevano di mancare.
I secondi hanno bisogno di briglia per essere trattenuti e impediti dall'andar vagando secondo le concupiscenze della carne. Dove lo Spirito di Dio non governa ancora, le concupiscenze sono talvolta così enormi e smodate da far sì che l'anima rischi di sprofondare nel disprezzo e nella ribellione contro Dio. Così avverrebbe se Dio non provvedesse con questo mezzo, trattenendo con la briglia della sua Legge quanti sono ancora dominati dalla carne. Di conseguenza, se non rigenera immediatamente un uomo eletto in vista della salvezza, fino al momento della sua visitazione lo mantiene nel timore, per mezzo della Legge; timore non autentico e libero come dovrebbe essere nei suoi figli, ma tuttavia utile, in quel momento, a chi deve essere condotto per mano, pazientemente, fino ad una conoscenza più perfetta.
Tante sono le esperienze che abbiamo di questo fatto da rendere superflui gli esempi. Quanti sono rimasti temporaneamente nell'ignoranza di Dio, riconosceranno di essere stati mantenuti in quel modo nel timore di Dio fino a quando non furono rigenerati dallo Spirito per incominciare ad amarlo con slancio e affetto.
12. La terza funzione della Legge, la principale, pertinente al fine per cui essa e stata data, si esplica fra i credenti nel cui cuore già regna ed agisce lo spirito di Dio. Sebbene abbiano la Legge scritta nei toro cuori dal dito di Dio; sebbene ricevano dallo Spirito Santo il desiderio di obbedire a Dio, tuttavia traggono ancora doppio frutto dalla Legge. Essa è un ottimo strumento per far loro sempre meglio e più sicuramente comprendere quale sia la volontà di Dio, alla quale aspirano, e confermarne in loro la conoscenza. Come un servo, pur desideroso di servir bene e compiacere in tutto al suo padrone, ha bisogno di conoscere con grande famigliarità le sue abitudini e le sue condizioni per potercisi adattare. E nessuno tra noi può esentarsi da questa necessità. Nessuno ancora, infatti, ha raggiunto un sapienza tale da non poter progredire ulteriormente, giorno per giorno, mediante il quotidiano approfondimento della Legge, assimilando la volontà di Dio con sempre più chiara comprensione.
Non abbiamo solamente bisogno di insegnamenti ma anche di esortazioni: il servitore di Dio trarrà dunque dalla Legge e dalla frequente meditazione di essa anche questo giovamento: sarà stimolato all'obbedienza a Dio, vi sarà confermato e sarà liberato dai suoi errori. Bisogna che in questo modo i santi esortino se stessi dato che, per quanto pronti a fare il bene, sono sempre trattenuti dalla pigrizia e dalla pesantezza della carne, per cui non compiono mai appieno il loro dovere. Riguardo alla loro carne la Legge sarà come una frusta che la spinge all'opera: un asino non vuol tirare se non lo si frusta. Per parlar più chiaramente: dato che l'uomo spirituale non è ancora liberato dal fardello della carne, la Legge gli sarà di pungolo perpetuo per non lasciarlo addormentare né rallentare il passo.
A questa funzione si riferiva Davide quando celebrava con grandi lodi la Legge di Dio: "La legge di Dio è immacolata e converte le anime; i comandamenti di Dio sono retti e rallegrano i cuori " (Sl. 19.8) : "La tua parola è una lampada al mio piede, una luce sui miei passi " (Sl. 119.105) e tutto quello che segue nello stesso Salmo. E tutto questo non contrasta con le frasi precedentemente riportate di san Paolo, che non mostrano l'utilità della Legge per l'uomo fedele e già rigenerato, ma quello che essa può da sola offrire all'uomo. Il Profeta mostra al contrario il risultato del fatto che il Signore istruisce i suoi servitori nella dottrina della sua Legge, ispirando interiormente la determinazione di seguirla. E non si limita ai precetti ma vi aggiunge la promessa della grazia, che per i credenti non deve essere tralasciata e che addolcisce quel che sarebbe amaro. Nulla sarebbe meno amabile di una legge che esigesse solamente l'adempimento del proprio dovere, con minacce, e spingesse le nostre anime al timore e alla paura. Davide mostra soprattutto di aver conosciuto in essa ed accolto il Mediatore, senza il quale non esisterebbero dolcezze o piacere alcuno.
13. Alcuni ignoranti, incapaci di percepire questa differenza, respingono in modo assoluto e senza eccezione Mosè e vogliono mettere da parte le due tavole della Legge perché non ritengono convenevole ai cristiani di mantenersi vincolati da una dottrina che contiene in se la dispensazione della morte.
Respingiamo questa opinione: infatti Mosè ha chiaramente dichiarato che sebbene la Legge possa solo generare la morte nell'uomo peccatore, tuttavia reca frutto molto diverso per i credenti. Prossimo alla fine, egli dichiarò al popolo: "Ritenete bene nella vostra memoria e nel vostro cuore le parole che oggi vi comunico, per insegnarle ai vostri figli e istruirli a conservare e mettere in pratica tutte le cose scritte in questo libro. Non vi sono ordinate invano, ma perché per mezzo di esse possiate vivere " (De 32.46-47).
Nessuno può negare vi sia nella Legge l'immagine completa di una perfetta giustizia, oppure bisogna dire che non occorre avere alcuna regola per vivere rettamente, né siamo tenuti ad osservarla. Non vi sono infatti molte norme per vivere rettamente ma una sola, perpetua ed immutabile. Quanto dice Davide: il giusto medita la Legge giorno e notte (Sl. 1.2) , non deve dunque essere riferito ad un'epoca determinata, ma si riferisce a tutti i tempi, fino alla fine del mondo.
Né, stupiti del fatto che essa richiede una santità maggiore di quella che possiamo raggiungere mentre siamo nella prigione del nostro corpo, dobbiamo tralasciare il suo insegnamento. Quando siamo sotto la grazia di Dio essa non esercita il suo rigore sì da spingerci all'estremo, come se non fosse soddisfatta qualora non compiamo tutto quello che essa prescrive. Ma esortandoci a seguire la perfezione cui ci chiama, ci mostra la meta cui è utile e convenevole che tutta la nostra vita tenda, e se non cessiamo di fare questo, il suo scopo è raggiunto. La vita intera è infatti una corsa e quando saremo giunti al termine, il Signore ci darà di toccare quella meta che ora perseguiamo, anche se ne siamo ancora lontani.
14. La Legge dunque agisce come esortazione per i credenti, non per incatenare le loro coscienze alla maledizione, ma per risvegliarle dalla pigrizia, sollecitandole a punire la propria imperfezione. Alcuni, volendo esprimere la liberazione della maledizione, affermano che la Legge è abrogata e annullata per i credenti (parlo sempre della legge morale) , non nel senso che essa non debba ordinare sempre quello che è buono e santo, ma nel senso che non ha più il significato di prima: vale a dire che non umilia le loro coscienze con terrore mortale. E infatti san Paolo insegna chiaramente che la Legge è stata abrogata.
Ma Gesù Cristo stesso ha predicato affermando di non voler affatto distruggere o annullare la Legge (Mt. 5.17); non lo avrebbe detto se non lo si fosse accusato di farlo. Queste accuse non erano state formulate senza una qualche giustificazione: è verosimile che fossero originate da una esposizione erronea del suo insegnamento (gli errori prendono spesso lo spunto da una verità). Per non cadere in questo errore dobbiamo distinguere diligentemente ciò che nella Legge è stato abrogato da ciò che permane valido.
Il Signore Gesù afferma di non essere venuto per abolire la Legge ma per adempierla, che non ne passerà una sola lettera fino a che il cielo e la terra sussisteranno; che quanto vi è scritto deve realizzarsi: con questo dimostra che la sua venuta non ha per nulla diminuito il rispetto e l'obbedienza dovuti alla Legge. E a ragione, dato che è venuto per trovar rimedio alle trasgressioni contro di essa. L'insegnamento della Legge non è dunque scalfito da Gesù Cristo: essa ci istruisce in vista di ogni opera buona, ci ammonisce, ci rimprovera, ci castiga.
15. Le affermazioni di san Paolo relative alla maledizione, non hanno la funzione di istruire ma quella di vincolare, impressionare ed avvincere le coscienze. Per sua natura la Legge non solo insegna, ma pretende anche rigorosamente quel che ordina. Se non la si adempie fino in fondo, essa emette senz'altro la sentenza di orribile maledizione. Per questo motivo l'Apostolo dice: Quanti sono sotto la Legge sono maledetti, come è scritto: "Maledetti saranno tutti quelli che non compiranno quanto è prescritto " (Ga 3.10; De 27.26). Di conseguenza egli afferma che permangono sotto la Legge coloro che non fondano la propria giustizia sulla remissione dei peccati, che ci libera dai rigori della Legge. Bisogna dunque essere liberati dai vincoli della Legge, se non vogliamo morire miserevolmente in cattività.
In che consistono tali legami? Nell'inflessibile rivendicazione con cui ci persegue senza tregua, e senza lasciare un solo errore impunito. Per riscattarci da questa infelice situazione, Cristo è stato maledetto per noi, come è scritto: "Maledetto colui che pende dal legno ". Nel capitolo seguente san Paolo dice che Cristo è stato sottoposto alla Legge per riscattare quelli che erano sotto la servitù della medesima. Ma aggiunge subito: "Onde potessimo gioire del privilegio dell'adozione per essere figli di Dio " (Ga 3.13; 4.4; De 21.23). Vale a dire: perché non fossimo sempre stretti dalla servitù che tiene le nostre coscienze avvinte in angoscia mortale. Rimane tuttavia fermo che l'autorità della Legge non è sminuita e dobbiamo sempre continuare ad accettarla con rispetto e nell'obbedienza.
16. Le cose sono differenti riguardo alle cerimonie che sono state abolite nella prassi ma non nel significato. Il fatto che Gesù Cristo le abbia fatte cessare con la sua venuta non toglie nulla alla loro santità, anzi la rende più augusta e più preziosa. Esse non sarebbero state che una commedia o un divertimento per gli sciocchi se in esse non fosse stata manifestata la potenza della morte e della risurrezione di Gesù Cristo; inoltre se esse non avessero avuto fine, non si potrebbe comprendere oggi perché erano state istituite. Perciò san Paolo dice che sono state ombre della realtà apparsa in Gesù Cristo; intende mostrare che la loro osservanza è superflua ed anzi nociva (Cl. 2.17).
Vediamo dunque che la loro abolizione fa sì che la verità brilli meglio che se ci fosse ancora un velo steso e Gesù Cristo, che si è manifestato direttamente, vi fosse ancora raffigurato indirettamente. Ecco perché, alla morte di Gesù Cristo, il velo del tempio si è rotto in due parti ed è caduto a terra (Mt. 27.51); perché risultava manifestata nella sua pienezza l'immagine viva ed esplicita dei beni celesti di cui le cerimonie antiche avevano solo poche ed oscure tracce, come dice l'autore dell'epistola agli Ebrei (10.1). In questo senso Cristo dice che la Legge e i Profeti hanno avuto validità fino a Giovanni e da allora il regno di Dio ha incominciato ad essere annunciato (Lu 16.16) , non che i santi padri fossero privati della predicazione, che contiene in se la speranza della salvezza, ma avevano percepito solo da lontano e velatamente quello che oggi vediamo in piena luce.
San Giovanni Battista spiega alla Chiesa di Dio perché abbia dovuto iniziare da questi rudimenti per salire più in alto: la Legge è data da Mosè, la grazia e la verità sono state recate da Gesù Cristo (Gv. 1.17). Sebbene l'annullamento e il perdono dei peccati fossero promessi agli antichi sacrifici e l'arca del Patto fosse pegno sicuro del favore paterno di Dio, tutto questo non sarebbe stato che un'ombra se non fosse stato fondato su Gesù Cristo, in cui si trova stabilità e sicurezza permanente.
Questo fatto deve comunque essere chiaro: l'abolizione delle cerimonie della Legge, che hanno avuto termine e non sono più in uso, ne mette in luce l'utilità fino alla venuta di Gesù Cristo, il quale abolendone l'osservanza, ne ha garantito la forza e la validità con la sua morte.
17. Più difficile appare la questione sollevata da san Paolo. Egli dice: "Quando eravate morti nei vostri peccati e nella incirconcisione della vostra carne, Dio vi ha vivificati con Cristo, perdonandovi le colpe, cancellando l'atto accusatore dei precetti, che vi era contrario, inchiodandolo alla croce, ecc. " (Cl. 2.13-14). Sembra che voglia estendere l'abrogazione della Legge al punto che i decreti di essa non ci concernano del tutto. Sbagliano però quanti pensano che questo debba essere riferito semplicemente alla legge morale di cui non considerano però abolito l'insegnamento ma l'eccessiva severità.
Altri, esaminando più da vicino le parole di san Paolo, notano che esse si riferiscono propriamente alla legge cerimoniale e rilevano che san Paolo ha l'abitudine di adoperare questo termine "precetti "quando ne parla. Dice infatti agli Efesini: "Gesù Cristo è la nostra pace: egli ci ha uniti insieme, abolendo la Legge fatta di comandamenti in forma di precetti, ecc. " (Ef. 2.14). Non v'è alcun dubbio che questo si riferisca alle cerimonie, perché dice che questa Legge era come un muro per separare gli Ebrei dai Gentili. Riconosco dunque che la prima interpretazione è giustamente raccolta dai secondi; tuttavia essi stessi non mi sembrano spiegare ancora perfettamente la frase dell'Apostolo; i due passi non possono essere confusi come se fossero del tutto simili. Quello nell'epistola agli Efesini ha questo significato: san Paolo volendo rendere gli Efesini certi del fatto che erano entrati nella comunione del popolo di Israele, dice che è tolto l'impedimento che li separava da quello: si tratta delle cerimonie, in quanto le abluzioni e i sacrifici con cui gli Ebrei si consacravano a Dio li distinguevano dai pagani.
Nell'epistola ai Colossesi è evidente che accenna ad un mistero più profondo. Si tratta in questo caso dell'osservanza delle pratiche mosaiche, cui i seduttori volevano costringere il popolo cristiano. Ma qui, come nell'epistola ai Galati, dove si tratta lo stesso problema, egli va più a fondo e risale alla sorgente.
Se si considera nelle cerimonie solamente la loro celebrazione, perché le definirebbero un "atto accusatore "contro di noi? E perché far consistere la somma della nostra salvezza nell'annullarle e sopprimerle? : È evidente dunque che bisogna qui considerare altro che l'esteriorità delle cerimonie.
Sono certo di aver trovato il vero significato del passo purché si riconosca vera l'affermazione, giustissima, di sant'Agostino, anzi, il pensiero che ha tratto dalle parole evidenti dell'Apostolo: nelle cerimonie giudaiche vi era confessione di peccato più che espiazione (Eb. 7.9-10). Cosa significava infatti il sacrificio, se non riconoscimento di colpevolezza mortale? Offrivano un animale per essere ucciso in vece loro. Cosa facevano con le loro abluzioni, se non riconoscersi immondi e contaminati? Con questo confessavano il debito rappresentato dalla loro impurità e dalla loro offesa. Ma in questo riconoscimento non avveniva alcun pagamento. Per questo motivo l'Apostolo dice: per mezzo della morte di Cristo è stata compiuta la redenzione delle offese che sotto l'antico Patto sussistevano e non erano eliminate (Eb. 9.15). A buon diritto dunque, san Paolo definisce le cerimonie "precetti "contrari a chi li praticava, perché per mezzo loro si riconosceva e firmava la propria condanna. Questo non impediva agli antichi padri di partecipare alla stessa grazia cui noi partecipiamo; infatti lo hanno ottenuto attraverso Cristo, non attraverso le cerimonie; e san Paolo in questo passo le distingue da Cristo perché esse oscuravano la sua gloria dopo la rivelazione dell'Evangelo.
Le cerimonie, dunque, se considerate in se sono giustamente dette "atti accusatori ", contrari alla salvezza dell'uomo, in quanto sono strumenti per costringere le coscienze a confessare i propri debiti. Dato che i seduttori volevano costringere la Chiesa cristiana ad osservarle, san Paolo, considerandone l'origine, ha ragione di far osservare ai Colossesi il pericolo in cui sarebbero caduti lasciandosi soggiogare da tali pratiche, perché in questo modo la grazia di Dio sarebbe stata loro sottratta. Con la purificazione operata dalla sua morte, una volta per tutte, egli ha infatti abolito tutte quelle pratiche esteriori con cui gli uomini si confessano debitori di Dio senza poter essere scaricati dei loro debiti.