CAPITOLO X
SIMILITUDINE DELL'ANTICO E DEL NUOVO TESTAMENTO
1. È evidente, in base a queste premesse, che quanti Dio ha voluto includere nel suo popolo sin dalla fondazione del mondo, sono stati uniti a lui, legati dal vincolo di una dottrina identica a quella che vige tra noi. Aggiungerò ora, dopo aver fermamente stabilito tale principio, la considerazione complementare: i padri, pur essendo partecipi con noi della medesima eredità, e godendo della medesima speranza nella comune salvezza, grazie allo stesso Mediatore, ebbero però una condizione diversa dalla nostra in questa comunità.
Le testimonianze che abbiamo raccolte nella Legge e nei Profeti sono sufficienti a dimostrare che nel popolo di Dio non vi è mai stata regola di pietà e di religione diversa da quella da noi mantenuta; tuttavia i dottori antichi parlano della diversità tra l'Antico e il Nuovo Testamento in modo esplicito e radicale e questo potrebbe ingenerare perplessità in quanti non sono sufficientemente accorti. Mi è sembrato perciò opportuno affrontare questa materia in un capitolo a sé.
Inoltre, ciò che sarebbe stato utile semplicemente, diventa necessario a causa della petulanza di quel mostro di Serveto e di alcuni Anabattisti i quali considerano il popolo d'Israele come un branco di maiali: pensano infatti che il Signore non abbia voluto far altro che ingrassarli sulla terra come in una stalla senza speranza alcuna dell'immortalità celeste. Per mettere in guardia i credenti riguardo a questo errore pestilenziale e sgombrare la mente dei semplici dalle perplessità che nascono, quando odono parlare di diversità tra Antico e Nuovo Testamento, consideriamo brevemente i punti di somiglianza e le differenze tra l'alleanza stipulata dal Signore prima della venuta di Cristo con il popolo d'Israele e quella stipulata con noi, dopo la incarnazione.
2. L'una e l'altra possono essere risolte con una parola: la sostanza e la verità dell'alleanza stipulata con i padri antichi è talmente simile alla nostra da poter essere considerata una stessa cosa. Differisce solamente nella forma della dispensazione.
Ma da questo assunto nessuno potrebbe trarre una comprensione sicura: occorre dunque trattarne più a lungo se l'esposizione vuol riuscire utile. Trattando della somiglianza o meglio dell'unità sarà superfluo riparlare diffusamente delle parti già esaminate, né sarà opportuno mescolarvi le conclusioni da trarsi in altra sede. Ci limiteremo dunque a tre punti.
In primo luogo il Signore non ha proposto agli Ebrei, quale meta cui tendere, una felicità o un benessere terreni, ma li ha adottati nella speranza dell'immortalità rivelando loro e attestando questa adozione mediante visioni e con la sua Legge ed i Profeti.
In secondo luogo l'alleanza che li ha uniti a Dio non è stata fondata sui loro meriti, ma sulla sola misericordia di Dio.
In terzo luogo hanno avuto e conosciuto Cristo quale mediatore che li univa a Dio e li faceva partecipi alle sue promesse.
Parleremo a suo tempo del secondo punto che non è stato ancora sufficientemente chiarito. Per mezzo di molte testimonianze sicure dei profeti dimostreremo che tutto il bene che il Signore ha fatto o promesso al suo popolo proveniva dalla sola bontà e clemenza sua. Il terzo punto è già stato chiarito in molte occasioni, ed abbiamo anche accennato di sfuggita al primo.
3. Esso si riferisce però direttamente al problema che stiamo esaminando e suscita, d'altra parte, numerose polemiche e controversie; sarà quindi necessario considerarlo con la massima attenzione. Dobbiamo tuttavia soffermarci a parlarne in modo da risolvere, brevemente, al momento opportuno gli aspetti che ancora mancano ad una esposizione corretta degli altri due punti.
L'Apostolo elimina ogni dubbio relativo ai tre interrogativi suddetti quando afferma che il Signore aveva promesso l'Evangelo di Gesù Cristo già da molto tempo, attraverso i suoi profeti, nelle sue sante Scritture, e lo ha poi manifestato nel tempo predeterminato (Ro 1.2) , e che la giustizia per fede, insegnata nell'Evangelo, era stata affermata nella Legge e nei Profeti (Ro 3.21).
Indubbiamente, l'Evangelo non lega il cuore degli uomini ad un'amore della vita presente ma li innalza alla speranza dell'immortalità, non li vincola alle delizie terrene ma, annunciando la speranza loro preparata nel cielo, li trasporta in alto. In questa direzione ci conduce l'affermazione che troviamo altrove: "Dopo che avete creduto all'Evangelo "egli dice "siete stati segnati dallo Spirito Santo, che è arra della nostra eredità, ecc. " (Ef. 1.13); e: "Abbiamo udito della vostra fede in Cristo e della vostra carità verso i credenti, a causa della speranza che avete nel cielo, che vi è stata annunciata dall'insegnamento dell'Evangelo " (Cl. 1.4-5); e: "Il Signore mediante il suo Evangelo ci ha chiamati a partecipare alla gloria del nostro Signore Gesù Cristo " (2 Ts. 2.14). Per questo motivo è chiamato "dottrina di salvezza ", "potenza di Dio per salvare tutti i credenti "e "regno dei cieli ". Se la dottrina dell'Evangelo è spirituale e ci dà accesso alla vita incorruttibile, non pensiamo che coloro ai quali l'Evangelo è stato promesso e predicato si siano occupati, come bestie, a cercare il proprio piacere carnale senza preoccuparsi della propria anima.
Né qualcuno a questo punto obbietti che le promesse dell'Evangelo date anticamente da Dio mediante i profeti sono state destinate al popolo del Nuovo Testamento. Perché l'Apostolo, poco prima di questa affermazione, secondo cui l'Evangelo è stato promesso nella Legge, aggiunge ugualmente che quanto la Legge contiene si rivolge particolarmente a quanti sono sotto la Legge (Ro 3.19). Ammetto che lo dice in un altro contesto; ma dicendo che l'insegnamento della Legge appartiene ai Giudei, non poteva aver dimenticato l'affermazione precedente relativa all'Evangelo promesso nella Legge.
In questo passo dimostra dunque chiaramente che l'antico patto mirava essenzialmente alla vita futura, dato che includeva le promesse dell'Evangelo.
4. Ne consegue inoltre che esso era fondato sulla misericordia gratuita di Dio e trovava la propria garanzia in Gesù Cristo. La predicazione evangelica non proclama altro: i poveri peccatori sono giustificati per la paterna clemenza di Dio, senza averlo meritato. E questa predicazione trova piena espressione in Gesù Cristo.
Chi dunque oserà privare di Cristo gli Ebrei, con i quali è stata stipulata l'alleanza dell'Evangelo, il cui unico fondamento è Cristo? Chi oserà estraniarli dalla speranza di salvezza gratuita, dato che la dottrina di fede, che procura giustizia gratuita, è stata loro comunicata?
Per non continuare a discutere di una questione così chiara, ci basti la fondamentale affermazione del Signore Gesù: "Abramo è stato animato da un grande desiderio di vedere il mio giorno; l'ha visto e se n'è rallegrato " (Gv. 8.56). L'Apostolo mostra che l'affermazione relativa ad Abramo si riferisce genericamente a tutto il popolo fedele: "Cristo è stato ieri e oggi e sarà eternamente " (Eb. 13.8). Non parla solo della divinità eterna di Cristo, ma della conoscenza della sua potenza che e stata 1n ogni tempo comunicata ai credenti.
Per questo motivo la vergine Maria e Zaccaria nei loro cantici definiscono la salvezza rivelata in Cristo un adempimento delle promesse fatte da Dio ad Abramo ed ai Patriarchi (Lu 1.54.72). Se Dio, manifestando il suo Cristo, ha adempiuto la sua promessa antica, non si può non dire che il fine dell'antico patto non sia stato Cristo e la vita eterna.
5. L'Apostolo non considera solo il popolo d'Israele simile ed eguale a noi nella grazia del Patto ma altresì nel significato dei sacramenti. Volendo ammonire i Corinzi di non cadere nelle stesse colpe, per cui Dio aveva punito gli Ebrei, ricorre a questa argomentazione: non abbiamo alcuna prerogativa o dignità particolare che ci sottragga alla vendetta divina che è caduta su di loro (1 Co. 10.1-6.2). Così dunque non solo il Signore ha esercitato la stessa benevolenza verso di loro, come verso di noi, ma ha anche raffigurato in mezzo a loro la sua grazia mediante gli stessi segni e sacramenti.
Come se dicesse: Vi sembra di essere fuori pericolo perché il battesimo da cui siete stati segnati e la Cena del Signore contengono delle promesse speciali; e intanto sprezzate la bontà di Dio e vivete in modo dissoluto. Ma dovete ricordare che gli Ebrei non erano privi degli stessi sacramenti eppure il Signore non ha mancato di esercitare verso loro la severità del suo giudizio. Sono stati battezzati nel passaggio del Mar Rosso e nella nuvola che li proteggeva dall'ardore del sole.
Chi respinge questo insegnamento afferma che si trattava di un battesimo carnale corrispondente in qualche misura al nostro spirituale. Ma se accettiamo questa interpretazione, l'argomentazione dell'Apostolo non può procedere: egli ha voluto togliere ai Corinzi la fiducia infondata basata sulla convinzione di essere migliori degli Ebrei a causa del battesimo. E anche il seguito immediato non può essere discusso: essi hanno mangiato la medesima carne spirituale e bevuto la stessa bevanda spirituale che sono date anche a noi, cioè Gesù Cristo.
6. Per contestare l'autorità di san Paolo, citano la dichiarazione di Cristo: "I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti. Chiunque mangerà la mia carne non morrà mai in eterno " (Gv. 6.49-50). La contraddizione non sussiste. Il Signore Gesù, sapendo di rivolgersi a uditori che cercavano solamente di pascere il proprio ventre senza preoccuparsi affatto del vero cibo delle anime, adatta in parte il suo discorso alle loro capacità e ricorre a questo paragone della manna con il suo corpo. Essi pretendevano che, per avere autorità, egli confermasse la sua divinità con qualche miracolo, come Mosè aveva fatto nel deserto facendo piovere dal cielo la manna. Ora nella manna vedevano unicamente un mezzo per saziare la fame corporale che tormentava il popolo nel deserto. Non salivano abbastanza in alto per considerare il mistero cui fa allusione san Paolo. Allora Cristo, per indicare che dovevano aspettarsi da lui un beneficio maggiore e più eccellente di quello che i loro padri avevano ricevuto da Mosè, pone questo paragone: Se considerate miracolo eccezionale il fatto che il Signore abbia mandato al popolo il cibo celeste per mano di Mosè, onde non perisse ma fosse sostentato, riconoscete quanto più prezioso è il cibo che reca immortalità.
Perché il Signore menziona solo l'aspetto secondario della manna e tace l'essenziale? Perché gli Ebrei gli additavano, a guisa di rimprovero, Mosè, che aveva soccorso il popolo d'Israele nelle difficoltà, nutrendolo in modo miracoloso con la manna. Risponde di essere dispensatore di una grazia assai più preziosa, al cui paragone rimaneva sminuito quanto Mosè aveva fatto per il popolo, anche se ne avevano un concetto così alto.
San Paolo considera questo argomento con molta attenzione, nella convinzione che, quando ha fatto cadere la manna del cielo, il Signore non intendeva solo mandare al suo popolo del cibo materiale ma anche comunicare un mistero spirituale, simboleggiante la vita eterna che doveva attendersi da Cristo.
Possiamo dunque concludere senza incertezze che le stesse promesse di vita eterna, che vengono oggi presentate a noi, sono state comunicate agli Ebrei e anzi sono state loro suggellate e confermate da sacramenti veramente spirituali. Questa materia è ampiamente trattata da sant'Agostino nel contro Fausto Manicheo.
7. Se tuttavia i lettori preferiscono un elenco delle testimonianze della Legge e dei Profeti da cui risulti evidente che l'alleanza spirituale posseduta da noi oggi, è stata comune ai padri secondo le dichiarazioni di Cristo e degli Apostoli, cercherò di soddisfarli, tanto più volentieri nella speranza di convincere gli oppositori i quali non potranno in seguito trovare scappatoie.
Incomincerò con una osservazione che gli Anabattisti considerano debole e quasi ridicola, ma che ha una grande importanza per tutte le persone di retto giudizio. Considero dunque indiscutibile il fatto che la Parola di Dio abbia una tale forza da essere sufficiente a vivificare le anime di tutti quelli che la ricevono. È sempre stata vera l'asserzione di san Pietro, secondo cui essa è una semenza incorruttibile che permane in eterno (1 Pi. 1.23); egli lo conferma anche citando le parole di Isaia (Is. 40.6). Dato che Dio, nel passato, ha legato a se gli Ebrei con questo legame sacro ed indissolubile, non v'è dubbio che li abbia messi da parte, per condurli a sperare nella vita eterna. Dicendo che hanno ricevuto ed accolto la Parola per essere uniti più intimamente a Dio, non intendo riferirmi a quella comunione generale che comprende cielo, terra ed ogni creatura. Sebbene Dio vivifichi tutte le cose con la sua ispirazione, ciascuna secondo le proprietà della sua natura, non le libera tuttavia dalla necessità della corruzione. Ma l'ispirazione di cui parlo è particolare e illumina, nella conoscenza di Dio, le anime dei credenti e le congiunge in una certa misura a lui.
Come dunque Abramo, Isacco, Noè, Abele, Adamo e gli altri Patriarchi sono stati in comunione con Dio grazie a questa illuminazione della sua parola, così non v'è dubbio che essa abbia costituito per loro l'entrata nel regno eterno di Dio essendo una reale partecipazione a Dio, che non poteva esistere senza la grazia della vita eterna.
8. Se questo sembra ancora un po' oscuro, esaminiamo i termini stessi del Patto: questo soddisferà gli spiriti tranquilli e convincerà di errore gli oppositori ignoranti.
Il Signore ha sempre espresso il patto con i suoi servitori in questi termini: "Sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo " (Le 26.12). Anche i profeti solevano affermare che in queste parole era compresa la vita la salvezza e la sostanza della felicità. Non senza ragione infatti Davide dichiara beato il popolo che ha il Signore per suo Dio (Sl. 144.15) e felici coloro che sono eletti quale sua eredità (Sl. 33.12). Questo non si riferisce alla felicità terrena ma al riscatto dalla morte; egli riscatta dalla morte, conserva in perpetuo e mantiene nella sua misericordia quanti ha ricevuto nel sodalizio del suo popolo. Così dicono gli altri profeti: "Tu sei il nostro Dio; non moriremo affatto ", (Abacuc 1.12) : "Il Signore è il nostro re e il nostro legislatore, egli ci salverà " (Is. 33.22) : "Beato Israele perché hai la tua salvezza in Dio " (De 33.29).
Non dilunghiamoci troppo in problemi superflui ma accontentiamoci dell'asserzione che ricorre spesso nella Scrittura: non ci manca abbondanza di ogni bene e di salvezza quando il Signore è nostro Dio. E questo a buon diritto: se la sua rivelazione costituisce una sicura garanzia di salvezza, come potrebbe rivelarsi all'uomo quale Dio, senza anche aprirgli i tesori della salvezza? Dio è nostro a condizione di abitare in mezzo a noi, come egli dichiara per bocca di Mosè (Le 26.12); e questo non si può attuare senza il possesso della vita. Quand'anche questo fatto non fosse stato espresso esplicitamente, vi erano evidenti promesse di vita spirituale in queste parole: "Sono il vostro Dio " (Es. 6.7). Non dichiarava solo di essere Dio dei loro corpi, ma anche soprattutto, delle loro anime. Ora le anime, quando non siano unite a Dio nella giustizia, gli sono estranee e rimangono nella morte; quando d'altra parte gli siano congiunte, ne ricevono vita perenne.
9. C'è di più: non solo si dichiarava loro Dio ma prometteva di rimanerlo per sempre onde la loro speranza non si limitasse alle cose presenti ma si protendesse verso l'eternità. Che l'allusione al tempo futuro avesse questo intento risulta da molte dichiarazioni dei credenti che si consolano nella certezza che Dio non li abbandonerà.
Vi era inoltre il secondo elemento del patto che li confermava maggiormente in questa fiducia: la dichiarazione che la benedizione di Dio sarebbe prolungata oltre i limiti della loro vita terrena. Era detto: "Io sarò l'Iddio della tua discendenza dopo di te " (Ge 17.7). Se il Signore intendeva manifestare la propria benevolenza verso di loro beneficando i loro successori, a maggior ragione il suo favore si doveva manifestare su loro stessi. Dio infatti non è simile agli uomini, che trasferiscono l'amore portato ai defunti sui loro figli, non avendo la possibilità di manifestare il loro affetto ai morti. La sua liberalità non è arrestata dalla morte, non priva del frutto della sua misericordia coloro che hanno fatto sì che egli estendesse la sua misericordia a mille generazioni (Es. 20, Q. Ha voluto mostrare in questo modo la ricchezza infinita della sua bontà che i suoi servitori avrebbero esperimentato anche dopo la morte, perché essa si riverserebbe su tutta la famiglia anche dopo il loro decesso. E il Signore ha suggellato la verità di questa promessa e ce ne ha mostrato l'adempimento, in certo qual modo, definendosi l'Iddio di Abramo, di Is.cco e di Giacobbe molto tempo dopo la loro morte (Es. 3.6). Questa definizione non sarebbe stata ridicola se essi fossero periti? Sarebbe equivalso a dire: Io sono Iddio di quelli che non ci sono!
Inoltre gli evangelisti raccontano che i Sadducei furono confutati da Cristo con questo solo argomento e non poterono negare che Mosè in questo passo volesse parlare della resurrezione dei morti (Mt. 22.32; Lu 20.37). Avevano inoltre imparato da Mosè che tutti i santi sono nella mano di Dio (De 33.3); era loro facile concluderne che non sono estinti dalla morte, dato che colui che ha in suo potere la vita e la morte li ha ricevuti sotto la sua sicura protezione.
10. Veniamo ora al punto principale di questa controversia: se i credenti dell'antico Patto abbiano ricevuto da Dio una illuminazione tale da sapere che una vita migliore li aspettava fuori dalla terra, potendo così concentrarvi il pensiero e tenendo in non cale questa vita corruttibile.
Il modo di vivere loro assegnato anzitutto: una istruzione perenne per ammonirli che sarebbero stati i più miserabili di tutti gli uomini qualora si fossero limitati a cercare la loro felicità su questa terra.
Adamo, già infelice per il ricordo della sua beatitudine perduta, incontra grande difficoltà nel procurarsi il suo misero cibo lavorando con tutte le sue forze (Ge 3.17). E non è solo oppresso da questa maledizione di Dio: riceve una delusione immensa proprio nel campo dove avrebbe dovuto ricevere consolazione; dei due figli che ha, uno è malvagiamente ucciso dalla mano dell'altro (Ge 4.8). Gli rimane Caino, del quale ha giustamente orrore. Abele crudelmente ucciso nel fiore dell'età, è per noi simbolo della sventura umana.
Noè logora gran parte della propria vita a costruire l'arca in mezzo a grandi ostacoli e difficoltà (Ge 6.22) , mentre tutti se la godono in mezzo ai piaceri e alle delizie. E anche quando è salvato dalla morte, questo avviene sotto forma di una calamità peggiore che se fosse morto cento volte: non solo l'arca è per lui come un sepolcro per dieci mesi e vi è forse cosa peggiore che essere tenuto così a lungo immerso nel fetore e nello sterco degli animali, in un luogo senza aria? Dopo essere sfuggito a tante difficoltà, trova motivo di nuova tristezza: si vede deriso dal proprio figlio ed è costretto a maledire con la propria bocca colui che Dio aveva risparmiato dal diluvio per essergli di consolazione (Ge 9.20-25).
11. Abramo da solo vale come un milione di esempi. Consideriamo la sua fede, che ci è proposta come esempio eccellente tanto che dobbiamo essere considerati suoi discendenti per essere figli di Dio (Ge 12.3). Nulla ripugnerebbe alla ragione più che l'escludere dal numero dei credenti colui che è il padre di tutti i credenti, senza lasciargli neanche un angolino tra di noi. Né si può respingerlo o destituirlo dalla situazione sì onorevole in cui Dio l'ha posto, senza che tutta la Chiesa sia annientata.
Per quanto riguarda la sua situazione: non appena è chiamato da Dio viene tratto fuori dal suo paese, perde i suoi parenti ed amici, è privato delle cose più desiderabili di questo mondo, come se Dio, con deliberato proposito, avesse voluto spogliarlo di ogni gioia terrena. Non appena entra nella terra che gli era stato ingiunto di abitare, ne è cacciato dalla carestia. Per trovar tranquillità si ritira in un paese dove è costretto ad abbandonare la propria moglie per salvar la vita, e questo lo addolorava più di molte morti (Ge 12.11-15). Ritorna alla sua terra di provenienza e ne è di nuovo cacciata dalla carestia. Quale gioia poteva esserci nell'abitare una terra in cui spesso soffriva le privazioni ed addirittura la fame, al punto di doverne fuggire? È: costretto di nuovo alla necessità di abbandonare sua moglie nel paese di Abimelec.
Dopo aver vagato qua e là nell'incertezza per parecchi anni, è costretto dalle liti dei servitori a mandare fuori di casa suo nipote che gli era come un figlio. Senza dubbio questa separazione è stata per lui come se gli si strappasse una delle sue membra. Poco dopo apprende che i nemici lo hanno fatto prigioniero. Dovunque vada trova nei vicini crudele barbarie e gli viene impedito di bere ai pozzi che ha scavato se non ne riscatta l'uso. Giunto alla vecchiaia si vede privato di figli, la cosa più dura a quell'età. Infine genera Ismaele, oltre le proprie speranze. Anche questa nascita però gli costa ben cara perché sua moglie Sara lo rimprovera di essere causa delle difficoltà familiari dando motivo di orgoglio alla serva.
Nei suoi ultimi giorni gli è dato Isacco, ma con il risultato che il figlio precedente viene cacciato come un povero cane abbandonato nella foresta. Dopo che gli è rimasto il solo Isacco, ultimo sostegno della sua vecchiaia, gli è ordinato di ucciderlo. Si potrebbe immaginare situazione più infelice: un padre boia del proprio figlio? Se fosse morto di malattia, tutti avrebbero stimato infelice quel povero vecchio cui era stato dato il figlio solo per un breve tempo, come per scherzo, quasi per raddoppiargli il dolore che provava vedendosi privato di discendenza. Se fosse stato ucciso da un nemico, la calamità sarebbe stata considerata maggiore. Ma supera ogni sventura il pensarlo assassinato dalla mano di suo padre!
Insomma durante tutta la sua vita è stato tormentato ed afflitto e se qualcuno volesse rappresentare un tipo di vita miserabile, non troverebbe esempio più adatto. Si obbietterà che non è stato del tutto infelice essendo sfuggito a tanti pericoli e avendo sormontato tante tempeste, rispondo che non possiamo definire felice una vita che giunge alla vecchiaia attraverso infinite difficoltà, ma quella dell'uomo che vive tranquillamente e nel benessere.
12. Veniamo ad Isacco che non ha sopportato altrettante calamità ma ha potuto a malapena provare il gusto di qualche piacere o di qualche rilassamento: d'altra parte ha esperimentato gli sconvolgimenti che non permettono all'uomo di essere felice sulla terra. La carestia lo caccia dalla terra di Canaan, come suo padre. Sua moglie gli è strappata dalle braccia. I vicini lo molestano e lo tormentano dovunque vada, in molte maniere, tanto che deve combattere per avere l'acqua. La donne di suo figlio Esaù gli causano molte noie in casa (Ge 26.35). È afflitto dalle discordie tra suoi figli e non può porvi rimedio che cacciando quello che aveva benedetto (Ge 28.5).
Quanto a Giacobbe, è come il modello delle più grandi disgrazie che possano accadere. Mentre è a casa, durante tutta la sua infanzia, è tormentato dall'inquietudine per le minacce di suo fratello, alle quali infine è costretto a cedere fuggendo lontano dai genitori e dalla patria. Oltre all'angoscia causata dall'esilio, è trattato duramente da suo zio Labano. Non solo patisce per sei anni in servitù dura e inumana, ma alla fine è ingannato e gli si dà una donna diversa da quella che desiderava (Ge 29.20). Per averla deve di nuovo farsi schiavo e di giorno è bruciato dal calore del sole, di notte gelato e infreddolito sopportando pioggia, vento e tempesta, senza dormire né riposarsi, come lui stesso lamenta. E dopo vent'anni in questa miserevole situazione, ancora è afflitto giornalmente dagli insulti del suocero. Neanche in casa propria è tranquillo a causa degli odii, delle dispute e delle invidie delle sue donne.
Quando Dio gli ordina di tornare al suo paese, deve fuggire in modo vergognoso. E non può sfuggire alla malvagità di suo suocero che lo perseguita e lo insegue per via (Ge 31.23). E sebbene Dio non permetta che gli succeda di peggio, pure deve ricevere molte umiliazioni da parte di quell'uomo che gli aveva già create tante difficoltà.
Subito dopo si trova in una situazione ancor più disperata: andando incontro al proprio fratello ha la prospettiva di un eccidio quale ci si può aspettare da un nemico crudele. Il suo cuore è orribilmente tormentato e dilaniato dall'angoscia mentre ne aspetta l'arrivo (Ge 32.2). Quando lo incontra si getta mezzo morto ai suoi piedi finché si accorge che questi è meglio intenzionato di quanto avesse sperato.
Entrando per la prima volta nel paese, sua moglie Rachele, che amava in modo del tutto particolare muore di parto (Ge 35.16). In seguito gli si comunica che il figlio avuto da lei, che amava più d'ogni altro, era stato sbranato dalle belve (Ge 37.32). Questa morte lo colpisce così crudelmente che piange amaramente, rifiutando ogni consolazione e vuole morire, non avendo altro desiderio che di seguire suo figlio nella tomba. Inoltre quale tristezza, quale dolore, quale sventura lo colgono vedendo la propria figlia rapita e violentata? (Ge 34.2). E quando i suoi figli, per farne vendetta, saccheggiano una città e così non solo lo rendono inviso agli abitanti ma lo mettono in pericolo di morte?
Segue l'orribile crimine di Ruben (Ge 35.22) che doveva causargli terribile angoscia. Se una delle più grandi sofferenze che l'uomo possa avere è quella di veder la propria moglie subire violenza, cosa dobbiamo dire quando una tale malvagità è commessa dal proprio figlio? Poco dopo la famiglia è ancora contaminata da un altro incesto (Ge 38.18) : queste vergogne erano tali da spezzare il cuore più saldo e paziente del mondo.
Nell'ultima vecchiaia, per sovvenire all'indigenza della propria famiglia, manda i figli a provvedersi di grano in un paese straniero (Ge 42.32). L'uno è messo in prigione, ed egli pensa sia in pericolo di morte. Per riscattarlo è costretto a mandare Beniamino, nel quale aveva posto tutto il suo affetto.
Come avere in mezzo a tale moltitudine di mali un minuto di tempo per respirare a proprio agio? Lo dichiara a Faraone, affermando che i giorni della sua vita sono stati brevi e penosi (Ge 47.9). Chi afferma di aver vissuto in continua miseria, non manifesta di aver sperimentato una prosperità quale Dio aveva promesso. Quindi o Giacobbe era ingrato verso Dio oppure aveva ragione di considerarsi sventurato. Se il suo dire era vero, ne consegue che non poneva la sua speranza nelle cose terrene.
13. Se tutti questi santi padri hanno atteso da Dio una vita felice, come è indubitabile, hanno certamente conosciuto ed atteso una felicità diversa da quella della vita terrena. L'Apostolo lo esprime molto bene: "Abramo ", egli dice "è dimorato per fede nella terra promessa, come in terra straniera, vivendo in capanne con Is.cco e Giacobbe che erano partecipi alla stessa eredità. Aspettavano una città ben fondata, il cui architetto è Dio stesso. Sono tutti morti in questa fede senza aver ricevuto le promesse ma guardandole da lontano e sapendo e riconoscendo di essere stranieri sulla terra. Con questo dimostrano di aver cercato un'altra patria. Se fossero stati mossi dal desiderio del paese naturale che avevano abbandonato, avrebbero potuto ritornarvi. Ma ne speravano uno migliore nei cieli. Per questo Dio non si vergogna di definirsi loro Dio, perché ha preparato loro una abitazione " (Eb. 11.9).
Si sarebbero dimostrati stupidi del tutto aspettando, con tanta perseveranza, l'adempimento di promesse cui non corrispondeva nessuna conferma terrena: se non ne avessero atteso l'adempimento da una fonte diversa. L'Apostolo, di conseguenza, insiste nel ricordare che si sono definiti pellegrini e stranieri in questo mondo, come anche Mosè aveva detto (Ge 47.9). Se sono stranieri in terra di Canaan, dov'è dunque la promessa di Dio che li costituisce eredi? Questo dimostra dunque che la promessa di Dio mirava più lontano della terra. Per questo motivo non hanno acquisito il possesso di un solo piede della terra di Canaan, se non per il solo loro sepolcro (At. 7.5). Con questo dimostravano che la loro speranza era di godere della promessa solo dopo la morte.
Per lo stesso motivo Giacobbe ha dato tanto peso al fatto di esservi seppellito ed ha fatto giurare al figlio Giuseppe di farvi portare il suo corpo (Ge 47.29-30). Allo stesso modo Giuseppe ordinava di portarvi le proprie ceneri, il che avveniva circa trecento anni dopo la sua morte (Ge 50.25).
14. Appare chiaro, insomma, che in tutta la loro esistenza hanno guardato a questa felicità della vita futura. A che scopo Giacobbe avrebbe ricercato la primogenitura attraverso tante difficoltà e tanti ostacoli, dato che essa non gli procurava alcun vantaggio e anzi lo cacciava dalla casa di suo padre? Egli aveva in mente una benedizione più alta. E manifesta apertamente di non aver avuto altro obbiettivo quando esclama, in un punto di morte: "Aspetterò la tua salvezza, Signore! " (Ge 49.18). Dato che sapeva di essere prossimo alla morte, quale salvezza avrebbe potuto sperare se non avesse visto nella morte l'inizio di una nuova vita?
E d'altra parte perché fermarsi ad esaminare l'atteggiamento dei figli di Dio, quando Balaam stesso, che si sforzava di combattere la verità, ha avuto la stessa convinzione e la stessa comprensione? Desiderando che la propria anima morisse della morte del giusto (Nu. 23.10) egli nutriva nel suo cuore un sentimento che Davide ha descritto in seguito: la morte dei santi è preziosa per il Signore e la morte degli iniqui è sgradita (Sl. 116.15; 34.22). Se la meta ultima degli uomini fosse la morte, in essa non si potrebbe notare alcuna differenza tra giusti e malvagi. Bisogna dunque distinguerli in base alla situazione che aspetta gli uni e gli altri nel tempo futuro.
15. Non abbiamo ancora parlato di Mosè, il quale avrebbe avuto, secondo i sognatori di cui stiamo parlando, unicamente il compito di condurre il popolo di Israele al timore ed alla venerazione di Dio con la promessa di fertili possedimenti e di abbondanza di cibo. Qualora però non si voglia spegnere la luce che ci si presenta in tutta evidenza, dobbiamo riconoscere che siamo in presenza, nel caso suo, di un patto spirituale.
Venendo ai profeti, troviamo una esplicita contemplazione della vita eterna e del regno di Cristo. Davide, in primo luogo, il quale si esprime, per il fatto di precedere gli altri, in modo più oscuro riguardo ai misteri celesti; ma riconduce tutto il suo insegnamento, con precisione e chiarezza, a questo punto. Risulta chiaro il suo pensiero riguardo alla vita celeste da una frase come questa: "Sono pellegrino e straniero, come tutti i miei padri; ogni uomo vivente è vanità; ciascuno svanisce come un'ombra. E qual è ora la mia attesa? Signore, la mia speranza si volge a te " (Sl. 39.6-8.13). Chi, dopo aver dichiarato di non aver nulla di fermo e stabile nel mondo, conserva tuttavia fermezza di speranza in Dio, evidentemente pone la propria beatitudine in qualcosa che sta al di fuori del mondo.
Per questo motivo egli suole richiamare i credenti a questa contemplazione ogniqualvolta vuole consolarli. In un altro passo, dopo aver ricordato quanto sia fragile e breve questa vita, aggiunge: "Ma la misericordia del Signore è perenne verso quelli che lo temono " (Sl. 103.17). Simile è l'affermazione di un altro passo: "Hai fondato la terra, Signore, i cieli sono opera delle tue mani. Essi periranno e tu rimani; invecchieranno come un vestito e tu li cambierai come una veste. Ma tu permani uguale e i tuoi anni non finiranno mai. I figli dei tuoi servitori avranno una dimora e la loro progenie sarà stabilita nel tuo cospetto " (Sl. 102.26-29). Se, nonostante l'annientamento del cielo e della terra, i credenti non cessano di permanere davanti a Dio, ne consegue che la loro salvezza è legata alla sua eternità.
E infatti questa speranza non può permanere se non è fondata sulla promessa esposta in Isaia: "I cieli, dice il Signore, svaniranno come un vapore, la terra si consumerà come un vestito e i suoi abitanti periranno; ma la mia salvezza rimane in eterno e la mia giustizia non verrà meno " (Is. 51.6). Qui il carattere duraturo è riferito alla salvezza e alla giustizia non in quanto risiedono in Dio ma in quanto egli le comunica agli uomini.
16. Non si possono intendere altrimenti gli accenni fatti qua e là alla beatitudine dei credenti se non riconducendoli alla manifestazione della gloria celeste. È: detto infatti: "Il Signore protegge le anime dei santi: le libererà dalla mano del peccatore. La luce si leva per il giusto e la gioia per quelli che sono retti di cuore " (Sl. 97.10-11) : "La giustizia dei buoni rimane in eterno, la loro forza sarà esaltata in gloria. I desideri dei peccatori periranno ", (Sl. 112.9-10) : "I giusti loderanno il tuo nome, gli innocenti abiteranno con te " (Sl. 140.14) : "Il giusto sarà ricordato in perpetuo " (Sl. 112.6) : "Il Signore riscatterà le anime dei suoi servi " (Sl. 34.23).
Il Signore non permette solo che i suoi servi siano tormentati dagli iniqui, ma li lascia spesso disperdere e distruggere. La scia i buoni languire nelle tenebre e nella sventura mentre gli iniqui risplendono come le stelle del cielo; e non mostra a lungo la luce del suo volto ai credenti talché ne possano ampiamente godere. Ecco perché lo stesso Davide non si nasconde che se volgiamo gli occhi alla situazione presente del mondo, saremo fortemente tentati di credere che non esista premio all'innocenza: infatti quasi sempre l'empietà prospera e fiorisce, mentre i buoni sono oppressi dall'ignominia, dalla povertà, dal disprezzo e da altre calamità!: "È: mancato poco "egli dice "che il mio piede scivolasse, che io inciampassi, vedendo il successo degli stolti e la prosperità dei malvagi ", e poi conclude: "Cercavo di comprendere queste cose ma nel mio spirito vi era perplessità, fino a che sono entrato nel santuario del Signore e ho visto la loro fine " (Sl. 73.2-3.17).
17. Da questa sola dichiarazione di Davide si può dedurre che i santi padri dell'antico Patto non hanno ignorato quanto raramente Dio realizzi in questo mondo le promesse fatte ai suoi servitori, o non le realizzi affatto; e per questo motivo hanno innalzato il loro cuore al santuario di Dio dove trovavano nascosto quanto non appariva evidente in questa vita corruttibile. Questo "santuario "era il giudizio ultimo, che aspettiamo, ed essi erano lieti di conoscerlo per fede, anche se non erano in grado di percepirlo con gli occhi. Animati da questa fiducia, qualunque cosa avvenisse nel mondo, non avevano alcun dubbio che sarebbe venuto il giorno in cui le promesse di Dio si sarebbero adempiute. Queste dichiarazioni lo dimostrano: "Contemplerò il tuo volto nella giustizia, sarò saziato dal tuo sembiante " (Sl. 17.15) : "Sarò come un olivo verde nella casa del Signore " (Sl. 52.10) : "Il giusto fiorirà come la palma, verdeggerà come il cedro del Libano. Quelli che saranno piantati nella casa del Signore, fioriranno nelle sue porte; porteranno frutto, verdeggeranno nella vecchiaia e saranno pieni di vigore " (Sl. 92.13-15)
Poco prima aveva detto: "O Signore, come sono profondi i tuoi pensieri! Quando gli iniqui fioriscono, germogliano come l'erba per poi perire per sempre " (Sl. 92.6-8). Dove si trova questa bellezza e questo vigore dei credenti se non quando la manifestazione del regno di Dio avrà sostituito questo mondo fugace? Quando contemplavano l'eternità, e tenendo in poco conto l'amarezza delle calamità presenti, che vedevano essere transitorie, traevano ardire da queste parole: "Tu non permetterai o Signore che il giusto perisca per sempre; ma sprofonderai l'iniquo nel pozzo della rovina " (Sl. 55.23-24). Dov'è pero in questo mondo il pozzo della rovina per inghiottire gli iniqui? In un altro passo è detto che essi muoiono di colpo, senza languire a lungo (Gb. 21.23). Dov'è la fermezza dei santi, che Davide stesso lamenta essere scossi e completamente abbattuti? Egli aveva dunque dinanzi agli occhi non la situazione di incertezza di questo mondo, che è come un mare agitato da molte tempeste: ma il frutto dell'opera del Signore, quando seduto in giudizio stabilirà l'ordine permanente del cielo e della terra. È detto molto bene in un altro passo: "Gli stolti si fidano della propria abbondanza e si inorgogliscono delle proprie ricchezze; e tuttavia nessuno, per grande che sia, potrà liberare dalla morte il proprio fratello né pagare a Dio il prezzo della propria redenzione " (Sl. 49.7-8). Sebbene vedano i saggi e gli stolti morire e lasciare ad altri le proprie ricchezze, immaginano di avere qui la propria dimora perpetua e cercano di acquistare fama e considerazione sulla terra. Ma l'uomo non sarà onorato, rassomiglierà piuttosto agli animali che periscono.
Questo loro pensiero è una grande follia: eppure molti lo condividono. Saranno raccolti nell'inferno come un gregge di pecore e la morte dominerà su loro. All'alba i giusti avranno il dominio su loro, la loro gloria sarà distrutta, il sepolcro sarà la loro abitazione.
Deridendo gli stolti perché si compiacciono e si confidano nei beni del mondo, che sono transitori, Davide dimostra che i saggi devono cercare una beatitudine ben diversa. Ancor più chiaramente esprime il mistero della resurrezione quando stabilisce il regno dei credenti, predicendo la rovina e la desolazione degli iniqui. L'alba del giorno, di cui parla, vuol indicare appunto una rivelazione della nuova vita, dopo la fine di quella presente.
18. I credenti di quel tempo erano soliti consolarsi e incoraggiarsi alla pazienza con il pensiero che l'ira di Dio non dura che un minuto mentre la sua misericordia dura per tutta la vita (Sl. 30.6). Quando mai vedevano sparire le proprie afflizioni in un minuto se invece erano afflitti per tutta la vita? Dove constatavano una tale durata della bontà di Dio, quando a malapena potevano assaggiarla? Sulla terra certamente non potevano trovare tutto questo, ma quando innalzavano i propri occhi al cielo si rendevano conto che le tribolazioni sopportate dai santi non sono che un soffio di vento mentre le grazie che riceveranno sono eterne. D'altra parte potevano prevedere che la rovina degli iniqui non avrebbe fine.
Donde, se non da questa coscienza, traggono origine queste affermazioni ripetute: "La memoria del giusto sarà in benedizione, la memoria degli iniqui perirà ", (Pr 10.7) "La morte dei santi e preziosa agli occhi dell'Eterno, la morte del peccatore gli è in abominio " (Sl. 116.15; 34.22) : "Il Signore proteggerà i passi dei santi; gli iniqui saranno precipitati nelle tenebre " (1 Re 2.9). Tutte queste parole dimostrano che i padri dell'antico Patto hanno saputo chiaramente che, per quanto numerosi siano i mali che i credenti debbono sopportare in questo mondo, raggiungeranno tuttavia alla fine vita e salvezza; e d'altra parte la felicità degli iniqui è una via bella è piacevole che conduce alla rovina. Per questo motivo definiscono la morte degli increduli: rovina degli incirconcisi (Ez. 28.10.31) volendo intendere che erano privati della speranza della risurrezione.
Di conseguenza la peggior maledizione che Davide ha potuto concepire contro i suoi nemici è stato di pregare che fossero cancellati dal libro della vita e non fossero iscritti come giusti (Sl. 69.29).
19. Fra tutte emerge questa dichiarazione di Giobbe: "Io so che il mio redentore vive, che nell'ultimo giorno risusciterò dalla terra e lo vedrò con il mio corpo. Questa speranza è nascosta nel mio cuore " (Gb. 19.25-27).
Coloro, che intendono mostrare il proprio acume, argomentano che queste espressioni non si debbono intendere riferite all'ultima risurrezione ma ad un tempo in cui il Signore sarebbe stato più favorevole e più premuroso secondo quanto Giobbe sperava. Quand'anche si accettasse tale interpretazione, almeno parzialmente, rimane tuttavia il fatto che, lo si voglia o no, Giobbe non sarebbe giunto a sì alta speranza se fosse stato unicamente fondato su realtà terrestri. Dobbiamo dunque riconoscere che egli alzava gli occhi all'immortalità futura, dato che si sentiva come nella tomba e attendeva il suo redentore. La morte infatti costituisce l'estrema disperazione per quanti pensano solo alla vita presente; e tuttavia essa non può sottrargli la sua speranza. "Anche se mi uccidesse "egli diceva "non cesserei di sperare in lui " (Gb. 13.15).
Se qualche ostinato sostiene che pochi sono in grado di condividere queste dichiarazioni, e di conseguenza non se ne può dedurre che siano state generalmente accettate da tutti gli Ebrei, risponderò subito che questo piccolo gruppo non ha voluto esporre con queste parole una qualche sapienza occulta, tale da essere compresa sola dagli spiriti raffinati; chi ha così parlato era stato costituito dottore del popolo dallo Spirito Santo. Di conseguenza, secondo le proprie funzioni, ha pubblicamente esposto la dottrina che doveva essere accettata da tutto il popolo.
Quando dunque ascoltiamo parole così evidenti dello Spirito Santo, con cui esso ha anticamente testimoniato presso i Giudei della vita spirituale e ne ha dato una speranza indubitabile, sarebbe assurdo voler concedere a questo popolo esclusivamente un'alleanza carnale, concernente solamente la terra e la felicità terrena.
20. Passando ai profeti che sono venuti dopo, troverò materia ancor più ampia ed esplicita per ribadire la mia tesi. Se la dimostrazione non è stata difficile con Davide, Giobbe e Samuele, essa sarà ancora più facile ora. Il Signore stesso ha voluto seguire questo ordine, dispensando l'alleanza della sua misericordia, ed ha voluto aumentare la chiarezza della sua dottrina man mano che il giorno della piena rivelazione si avvicinava. Per questo motivo quando al principio la prima promessa fu data ad Adamo, furono accese solo delle piccole scintille. Poi poco per volta la luce è cresciuta ed aumenta di giorno in giorno fino a quando il Signore Gesù Cristo, che è il sole di giustizia che dissolve le nubi, ha illuminato perfettamente il mondo. Se vogliamo valerci delle testimonianze dei profeti per confermare la nostra dottrina, non dobbiamo temere che ci manchino!
Questa materia è così ampia che dovremmo soffermarci più di quanto possiamo fare in questa sede, ci sarebbe di che riempire un grosso volume; penso inoltre di aver condotto tutti i lettori di media comprensione all'intelligenza del problema in modo che siano in grado di comprenderlo da soli. Eviterò dunque di mostrarmi prolisso, dato che non è il caso.
Invito però i lettori ad adoperare la chiave interpretativa che ho loro fornito, per trovare la soluzione del problema: ogniqualvolta i profeti menzionano la beatitudine dei credenti, di cui appare a malapena un barlume in questo mondo, occorre rifarsi a questa distinzione: i profeti, per meglio illustrare la bontà di Dio, l'hanno rappresentata mediante l'immagine dei suoi doni terreni; con questa immagine però hanno voluto innalzare i cuori al di sopra della terra, al di sopra degli elementi di questo mondo e di questo secolo corruttibile, per indurli a meditare la felicità della vita spirituale.
21. Ci limiteremo ad un esempio. Il popolo d'Israele, deportato a Babilonia, considerava il proprio esilio e la propria desolazione simili ad una morte e non poteva credere che tutte le profezie di Ez.chiele, relative alla restaurazione, non fossero altro che favole e menzogne. Il Signore, per provare che questa situazione non avrebbe impedito la realizzazione in loro della sua grazia, mostra in visione al profeta un campo pieno di ossa alle quali rende lo spirito e la vita in modo istantaneo, con la sola forza della sua parola (Ez. 37.4). Questa visione aveva bensì lo scopo di correggere l'incredulità del popolo, ma contemporaneamente essa mirava a renderlo attento al fatto che la potenza di Dio è tale da agire oltre la semplice restaurazione promessa; egli infatti, con una sola parola, poteva dare facilmente la vita ad ossami dispersi.
Dobbiamo accostare questo pensiero ad un'altro simile contenuto in Isaia, laddove è detto che i morti vivranno e risusciteranno con i loro corpi. Poi è rivolta questa esortazione: "Svegliatevi e levatevi in piedi, voi che abitate la polvere! La vostra rugiada è come la rugiada d'un campo verde, e la terra dei giganti sarà desolata. Va, o mio popolo, entra nei tuoi tabernacoli e chiudi la porta dietro a te. Nasconditi per un po' di tempo fino a quando il furore sia passato. Ecco il Signore uscirà fuori per visitare l'iniquità degli abitanti della terra; e la terra metterà allo scoperto il sangue che ha ricevuto e non nasconderà più i morti che vi sono stati seppelliti " (Is. 26.19).
22. Non voglio dire che si debbano ricondurre tutti i passi a questo schema. Ve ne sono alcuni che, senza simboli e esitazioni, affermano l'immortalità futura preparata per i credenti nel regno di Dio; ne abbiamo già menzionati alcuni. Ve ne sono altri e ne ricordo specialmente due. Uno in Isaia dove è detto: "Come i nuovi cieli e la nuova terra che ho creato sussisteranno stabili davanti a me, così sarà della vostra progenie. Un mese seguirà l'altro, un sabato seguirà ininterrottamente l'altro sabato. Ogni carne verrà a prostarsi dinanzi a me, dice il Signore. E i corpi di coloro che mi hanno disprezzato saranno messi alla gogna. Il loro verme non morirà e il loro fuoco non si estinguerà " (Is. 66.22-24).
L'altro è in Daniele: "In quel tempo "egli dice "l'arcangelo Michele che è incaricato di proteggere i figli di Dio, si leverà: e verrà un tempo di distretta, quale non c'era mai stato dalla creazione del mondo. Allora sarà salvato il popolo che è scritto nel libro. E quelli che riposano nella terra si leveranno, gli uni a vita eterna, gli altri a eterno obbrobrio " (Da 12.1-2).
23. Non consacrerò molto tempo a trattare i due altri punti, vale a dire che i padri antichi hanno avuto Cristo quale pegno e garanzia delle promesse loro fatte da Dio, e che hanno posto in lui la speranza di ogni benedizione. Sono facili a capire e non sollevano molte controversie.
Affermiamo dunque che l'antico patto, ovvero l'alleanza di Dio con il popolo d'Israele, non si limitava alle cose terrene ma includeva anche promesse di vita spirituale ed eterna, la cui speranza doveva essere impressa nel cuore di tutti quelli che erano congiunti veramente con questo patto. Questa conclusione non può essere distrutta da nessuna macchinazione del Diavolo.
Abbandoniamo dunque l'assurda e perniciosa opinione secondo cui Dio non avrebbe proposto altro ai Giudei, ed essi non avrebbero aspettato altro da lui, che di nutrire i loro ventri, di mantenerli nelle delizie carnali, nell'abbondante ricchezza, di esaltarli e glorificarli, dar loro lunga discendenza e altre cose del genere, quali sono desiderate dagli uomini terreni. Gesù Cristo oggi non promette ai suoi credenti un regno dei cieli diverso da quello in cui riposeranno con Abramo, Is.cco e Giacobbe (Mt. 8.2). San Pietro ricordava agli Ebrei del suo tempo che erano eredi della grazia evangelica in quanto successori dei profeti, inclusi nel patto fatto da Dio anticamente con Israele (At. 3.25).
E perché questo non fosse espresso solo con le parole, il Signore lo ha confermato con i fatti. Nel momento della sua risurrezione ne ha reso partecipi molti santi, che furono visti in Gerusalemme (Mt. 27.52). Con questo ha dato una sicura garanzia che quanto aveva fatto e sofferto per procurare la salvezza al genere umano concerneva i credenti dell'antico patto quanto noi. E infatti avevano lo stesso spirito che noi abbiamo, per mezzo del quale Dio rigenera i suoi in vista della vita eterna (At. 15.8). Se dunque vediamo abitare in loro quello spirito di Dio, che è per noi semenza di immortalità ed è chiamato pegno della nostra eredità, come oseremmo negare loro l'eredità della vita?
Un uomo saggio si meraviglierà che i Sadducei siano caduti nell'errore di negare l'immortalità delle anime e la resurrezione, dato che l'una e l'altra sono così chiaramente affermate nella Scrittura, l'ignoranza crassa che vediamo oggi tra gli Ebrei, i quali aspettano pazzamente un regno terrestre di Cristo, non deve meravigliarci meno; non fosse che questa punizione è stata prevista, perché hanno sprezzato Gesù Cristo e il suo Evangelo. Era giusto che Dio li colpisse con questo accecamento dato che hanno preferito le tenebre e hanno spento la luce che era loro offerta. Leggono Mosè e assiduamente meditano quello che ha scritto, ma un velo impedisce loro di contemplare la luce del suo volto (2 Co. 3.14-15). Esso rimarrà quindi coperto e nascosto fin quando non avranno imparato a volgersi a Cristo, dal quale ora si sforzano invece di allontanarsi.
CAPITOLO XI
DIFFERENZA TRA L'ANTICO ED IL NUOVO TESTAMENTO
1. Qualcuno dirà: Non c'è dunque nessuna differenza tra l'Antico ed il Nuovo Testamento? Che dire dei molti passi della Scrittura che li contrappongono come realtà molto diverse?
Accetto volentieri tutte le differenze che si trovano menzionate nella Scrittura, purché non deroghino dall'unità che vi abbiamo già riscontrato, come sarà facile vedere quando le esamineremo ordinatamente.
Dall'esame diligente della Scrittura ne ho potuto notare quattro, ma non faccio obiezioni se qualcuno volesse aggiungerne una quinta. Non esito ad affermare che esse si riferiscono non alla sostanza ma al diverso modo seguito da Dio nel dispensare il suo insegnamento. Nulla impedisce quindi che le promesse dell'Antico e del Nuovo Testamento rimangano le stesse e che Cristo sia considerato il fondamento unico delle une e delle altre.
La prima differenza è questa: sebbene Dio abbia sempre voluto volgere la mente del suo popolo alla celeste eredità, tuttavia, per meglio mantenere viva la speranza delle cose invisibili, le faceva contemplare attraverso i suoi doni terreni quasi a darne un assaggio. Ora che ha rivelato più chiaramente nell'Evangelo la grazia della vita futura, guida e conduce direttamente le nostre menti a meditarla senza ricorrere, come nel caso degli Ebrei, a strumenti pedagogici inferiori.
Chi non pone mente a questa intenzionalità divina, crede che l'antico popolo non sia mai andato oltre una speranza relativa al benessere corporale. Constatano che la terra di Canaan è spesso considerata il supremo premio per compensare chi obbedisce alla legge di Dio, e d'altra parte la più grave minaccia di Dio agli Ebrei è di cacciarli dalla terra, che aveva loro dato e disperderli tra i popoli stranieri. Constatano anche che le benedizioni e le maledizioni di Mosè si riferiscono quasi sempre a questa realtà. Ne deducono, senza esitazioni, che Dio aveva messo a parte gli Ebrei rispetto agli altri popoli non per loro vantaggio ma per il nostro affinché la Chiesa cristiana avesse un'immagine Ma questo è semplicistico ed anzi sciocco: ricordiamo che secondo la Scrittura Dio con tutte le promesse terrene voleva condurli come per mano alla speranza delle grazie celesti.
Questo è il punto che deve essere discusso con costoro: affermano che la terra di Canaan, dal popolo di Israele considerata sommo dono, ha per noi unicamente il valore di un simbolo della celeste eredità. Affermiamo invece che in questo possesso terreno, di cui godeva, anche il popolo eletto ebraico ha contemplato l'eredità futura preparatagli in cielo.
2. Questo è chiarito dal paragone esposto da san Paolo nella lettera ai Galati. Paragona il popolo ebraico ad un erede che è ancora fanciullo ed essendo incapace di governarsi è guidato da un tutore o da un pedagogo (Ga 4.1). È vero che si parla qui specialmente dei riti: ma questo non impedisce di applicare l'affermazione alla nostra questione. Vediamo dunque che è loro stata assegnata la stessa eredità che a noi, ma che non sono stati in grado di goderne pienamente. Vi fu tra loro la stessa Chiesa che vi è tra noi: ma essa era in età infantile.
Il Signore li ha dunque guidati con questo sistema pedagogico: non presentare chiaramente le promesse spirituali, ma offrirne una qualche immagine e un simbolo per mezzo delle promesse terrene. Volendo accogliere Abramo, Is.cco e Giacobbe e tutta la loro stirpe nella speranza dell'immortalità, prometteva loro in eredità la terra di Canaan: non perché l'animo loro vi si attaccasse ma perché contemplandola fossero confermati nella certa speranza della autentica eredità ancora nascosta. E perché non si sbagliassero, aggiungeva anche una promessa più alta, per mostrar loro che non era questo il dono supremo e ultimo che voleva elargire.
Così Abramo, ricevendo questa promessa del possesso della terra di Canaan, non si ferma a ciò che vede ma è guidato verso l'alto dalla promessa che l'accompagna, vale a dire: "Abramo, io sono il tuo protettore e colui che ti premia generosamente " (Ge 15.1). Il coronamento della sua ricompensa è situato in Dio, onde non si aspetti una ricompensa provvisoria in questo mondo, bensì una incorruttibile in cielo, e il possesso della terra di Canaan gli è promesso quale segno della benevolenza di Dio e immagine dell'eredità celeste.
Le dichiarazione dei credenti dimostrano che essi hanno condiviso questa convinzione. Davide era spinto dalle benedizioni temporali di Dio a riflettere alla sua grazia sovrana e diceva: "Il mio cuore ed il mio corpo languiscono per il desiderio di vederti, o Signore. Il Signore è la mia eredità perenne " (Sl. 84.3) : "Il Signore è la mia parte di eredità e tutto il mio bene " (Sl. 16.55) : "Ho gridato al Signore dicendo: Sei la mia speranza e la mia eredità nella terra dei viventi " (Sl. 142.6). Chi osa parlare in questo modo, dimostra di guardare oltre questo mondo e tutte le cose presenti.
Anche i profeti descrivono frequentemente la felicità del secolo futuro ricorrendo a immagini e simboli tratti dalle realtà ricevute da Dio. In questo senso dobbiamo intendere le frasi in cui si dice che i giusti possederanno la terra in eredità e gli iniqui ne saranno sterminati (Sl. 37.9; Gb. 18.17; Pr 2.21-22) , Gerusalemme sarà arricchita di beni e Sion sarà sovrabbondante (vari passi di Isaia). Ovviamente questo non si riferisce alla vita mortale, che è come un pellegrinaggio, né alla città terrena di Gerusalemme; ma si riferisce più propriamente alla vera patria dei credenti, alla città celeste, in cui Dio ha preparato benedizione e vita imperitura (Sl. 133.3).
3. Per questa ragione i santi nell'Antico Testamento hanno valutato questa vita mortale più di quanto dobbiamo fare noi oggi. Pur essendo consci di non doverla considerare fine ultimo, tuttavia, sapendo che Dio raffigurava in essa la sua grazia per confermarli nella speranza, nonostante le loro indegnità, vi ponevano un interesse maggiore che se l'avessero considerata soltanto in se stessa. Come il Signore, mostrando il suo amore per i credenti, presentava loro con doni terreni la beatitudine spirituale cui dovevano tendere, così inversamente le pene corporali che impartiva ai malfattori erano segni del suo futuro giudizio contro i reprobi. Come i doni di Dio risultavano allora più evidenti nelle cose temporali, così lo erano le punizioni.
Gli ignoranti non considerando l'analogia intercorrente tra le pene e i doni di quel tempo si stupiscono che vi sia stato un tale cambiamento di atteggiamento da parte di Dio: nel passato si dimostrava pronto a punire rigorosamente gli uomini non appena l'avessero offeso, mentre invece ora punisce più debolmente e meno frequentemente, come se avesse calmato la propria collera. E poco manca che immaginino divinità diverse nell'Antico e nel Nuovo Testamento, come appunto hanno fatto i Manichei.
Sarà facile districarci da tutte queste incertezze tenendo presente la dispensazione effettuata da Dio che abbiamo già notato: nel periodo in cui ha presentato al popolo d'Israele il patto parzialmente velato, intendeva rappresentare per mezzo dei doni terreni la felicità eterna promessa e per mezzo delle pene corporali l'orribile condanna incombente sugli iniqui.
4. La seconda differenza tra l'Antico ed il Nuovo Testamento è da cercare nelle immagini: l'Antico Testamento rappresentava la verità, ancora assente, mediante immagini; invece del corpo, aveva l'ombra. Il Nuovo invece contiene la verità e la sostanza. A questa differenza devono essere riferiti tutti i passi in cui l'Antico Testamento viene contrapposto al Nuovo.
Questo è trattato nel modo più esauriente nella epistola agli Ebrei. L'Apostolo vi polemizza contro chi riteneva che abolendo i riti di Mosè sarebbe crollata ogni religione. Per refutare questo errore, menziona in primo luogo quanto il Profeta aveva detto riguardo al sacrificio di Gesù Cristo. Se il Padre l'ha costituito eterno sacerdote ciò significa che senza dubbio è abolito il sacerdozio levitico che si tramandava da una persona all'altra. Che questo nuovo sacerdozio sia superiore all'altro è dimostrato dal fatto che è stabilito con un giuramento. Successivamente aggiunge che con questo trasferimento del sacerdozio, vi è stato anche trasferimento di patto. Insiste anzi che questo era necessario, data la impotenza della Legge a condurre alla perfezione. In seguito illustra queste limitazioni: si trattava di giustizie esterne che non potevano rendere perfetti secondo coscienza quanti le osservavano, dato che il sangue degli animali bruti non può cancellare i peccati, né produrre vera santità. Ne conclude quindi che nella Legge vi era l'ombra dei beni futuri, non la loro presenza viva che ci è data nell'Evangelo (Sl. 110.4; Eb. 7.11-19; 9.9; 10.1).
Dobbiamo considerare in che modo egli contrappone il patto della Legge e il patto dell'Evangelo, il ministero di Mosè e quello di Cristo. Se questa contrapposizione si riferisse alla sostanza delle promesse, vi sarebbe una grande divergenza tra i due Testamenti. Ma vediamo che l'Apostolo ha un altro fine e dobbiamo cogliere la sua intenzione per giungere alla verità.
Il fatto centrale da considerare è dunque il patto di Dio, fatto una volta per tutte per durare in eterno. Il suggello, per il quale è ratificato e confermato, è Gesù Cristo. Quando bisognava aspettarlo, il Signore ha prescritto, per bocca di Mosè, dei riti che ne fossero segni simbolici. La controversia verteva su questo punto: se le cerimonie prescritte dalla Legge dovessero cessare per lasciare il posto a Gesù Cristo.
Sebbene esse non siano che accidenti o accessori dell'Antico Testamento, tuttavia erano strumenti con cui Dio manteneva il popolo nella dottrina di questo Testamento e di conseguenza ne portano il nome; così come la Scrittura usa attribuire ai sacramenti il nome di quello che rappresentano. Ecco perché qui è definita "Antico Testamento "la maniera solenne in cui il patto del Signore era ribadito agli Ebrei per mezzo di sacrifici ed altre cerimonie.
In queste cerimonie non vi è nulla di sicuro e di definitivo, occorre andare oltre, di conseguenza l'Apostolo sostiene che esse dovevano prendere fine ed essere abrogate per essere sostituite da Gesù Cristo, che è garante e mediatore di un patto migliore (Eb. 7.22); il quale ha procurato agli eletti, una volta per tutte, una eterna santificazione e ha abolito le trasgressioni che permanevano nell'Antico Testamento.
Se qualcuno preferisce, possiamo arrischiare una definizione: l'Antico Testamento è stata la dottrina data da Dio al popolo giudaico, espressa nell'osservanza di cerimonie prive di efficacia e di durevolezza. Perciò è stato limitato nel tempo, essendo provvisorio, in attesa di essere garantito dal proprio adempimento e confermato nella propria sostanza; ma è stato fatto nuovo ed eterno allorché è stato consacrato e stabilito dal sangue di Cristo.
Per questo motivo Cristo definisce il calice che offriva ai discepoli durante la Cena: "calice del nuovo patto " (Mt. 26.28) , per significare che quando il patto di Dio era suggellato dal suo sangue, la verità era adempiuta e così il Patto era rinnovato e reso eterno.
5. Siamo così in grado di comprendere in che senso san Paolo dica che gli Ebrei sono stati condotti a Cristo dalla pedagogia della Legge, prima che egli fosse manifestato nella carne (Ga 3.24; 4.1). Riconosce che sono stati figli ed eredi di Dio: ma essendo ancora nell'infanzia erano affidati ad un pedagogo. Prima che il sole di giustizia sorgesse, non poteva logicamente esservi chiarezza di rivelazione né di intelligenza. Il Signore ha dunque dato loro la luce della sua Parola in modo che la vedessero solo da lontano e in modo oscuro.
San Paolo per esprimere questa limitatezza della comprensione ha adoperato il termine "pedagogia "dicendo che il Signore, in quell'epoca, ha voluto istruirli per mezzo delle cerimonie come di strumenti adatti all'età infantile, fino a quando la manifestazione di Cristo accrescesse la loro conoscenza e li maturasse, per farli uscire dall'infanzia.
Gesù Cristo stesso ha posto questa distinzione affermando che la Legge ed i Profeti sono stati in vigore fino a Giovanni Battista (Mt. 11.13); e successivamente il regno di Dio è stato manifestato. Cos'hanno insegnato Mosè ed i profeti, nel loro tempo? Hanno fatto gustare parzialmente il sapore della sapienza che doveva un giorno essere rivelata e l'hanno indicata da lontano. Ma il regno di Dio è rivelato quando Gesù Cristo può essere mostrato a dito. In lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza (Cl. 2.3) per farci salire quasi al punto più alto del cielo.
6. Questo non è contraddetto dal fatto che difficilmente si troverebbe qualcuno degno di essere paragonato ad Abramo nella Chiesa cristiana riguardo a fermezza di fede: o dal fatto che i profeti hanno avuto una intelligenza spirituale tale da poter illuminare ancor oggi gli altri. Noi non stiamo ora considerando le grazie conferite ad alcuni dal Signore, ma la regola generale a cui si è attenuto allora. Essa manifesta anche nell'insegnamento dei profeti, che pure avevano ricevuto dei privilegi speciali in confronto agli altri. Infatti la loro predicazione è oscura, come sfocata, ed è espressa in immagini.
Inoltre, nonostante le rivelazioni ricevute, erano anch'essi compresi nel numero dei fanciulli, perché era necessario che anch'essi fossero sottomessi alla pedagogia comune a tutto il popolo. La conoscenza di quei tempi, per quanto viva fosse, risentiva in qualche modo l'oscurità di quel tempo di preparazione. Per questo motivo Gesù Cristo diceva: "Molti re e profeti hanno desiderato vedere le cose che voi vedete, senza poterle vedere; di udire le cose che udite, senza poterle udire. Beati i vostri occhi che le vedono e le vostre orecchie che le odono " (Mt. 13.17; Lu 10.24). La presenza di Gesù Cristo ha avuto la prerogativa di portare nel mondo una intelligenza più ampia che nel passato dei misteri celesti. A questo si riferisce anche la citazione già ricordata della prima epistola di san Pietro (1 Pi. 1.6.10-12) : è stato loro comunicato che la loro fatica era fruttuosa essenzialmente in vista del nostro tempo.
7. Veniamo adesso alla terza differenza che deduciamo dalle parole di Geremia: "Ecco il giorno viene "dice il Signore "che farò un nuovo patto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda; non come quello che ho fatto con i vostri padri, quando li presi per mano per trarli fuori dalla terra d'Egitto; patto che essi violarono e distrussero benché io fossi il Signore. Ma questo sarà il patto che farò con la casa d'Israele: Scriverò la mia Legge nel loro intimo e la scolpirò nei loro cuori e sarò disposto a rimettere le loro offese. E non insegneranno più al proprio compagno, perché tutti mi conosceranno, dal più grande al più piccolo " (Gr. 31.31).
San Paolo ha preso lo spunto da questo passo per operare il paragone tra la Legge e l'Evangelo; definisce la Legge: dottrina letterale, predicazione di morte e di condanna scritta su tavole di pietra; l'Evangelo invece dottrina spirituale di vita e di giustizia scolpita nei cuori; afferma inoltre che la Legge deve essere abolita e che l'Evangelo permane (2 Co. 3.6).
Essendo intenzione di san Paolo commentare le parole del Profeta, basterà esaminare le affermazioni dell'uno per comprenderli ambedue, sebbene differiscano un poco l'uno dall'altro. L'Apostolo infatti considera la Legge più severamente del Profeta.
E questo non semplicemente perché consideri la natura di essa, ma perché alcuni confusionari, impegnandosi con zelo inopportuno nell'osservanza delle cerimonie si sforzano di oscurare la luce dell'Evangelo, egli è costretto a polemizzare con i loro folli errori. Bisogna dunque tener presente questa particolarità nel caso dell'Apostolo.
Per quanto riguarda la contrapposizione dell'Antico al Nuovo Testamento, comune anche a Geremia, essi considerano nella Legge solo quanto le è specifico. Esempio: la Legge contiene qua e là le promesse della misericordia di Dio; ma dato che esse hanno altrove la loro origine, non sono da prendere in considerazione quando si esamini la natura della Legge. Essi le attribuiscono solo il compito di fissare quanto è buono e giusto, proibire ogni malvagità, promettere remunerazione a chi osservi la giustizia, minacciare i peccatori della vendetta di Dio: senza che essa possa cambiare o correggere la malvagità presente nella natura di ogni uomo.
8. Esaminiamo ora punto per punto il paragone proposto dall'Apostolo. L'Antico Testamento, egli dice, è "letterale perché è stato promulgato senza l'efficacia dello Spirito Santo; il Nuovo è "spirituale "perché il Signore lo ha scolpito nel cuore dei suoi. La seconda contrapposizione ha dunque il fine di spiegare la prima: cioè che l'Antico Testamento è mortale perché non può che includere nella maledizione tutto il genere umano mentre il Nuovo è strumento di vita perché liberandoci dalla maledizione ci affida alla grazia di Dio.
Allo stesso fine tende la successiva asserzione: il primo costituisce un "ministero di condanna "perché rivela tutti i figli di Adamo essere colpevoli di iniquità; il secondo è "un ministero di giustizia "perché ci rivela la misericordia di Dio, per la quale siamo giustificati. Il secondo elemento deve essere riferito alle cerimonie, che essendo immagini di cose assenti dovevano dileguarsi con il tempo; mentre la realtà dell'Evangelo permane in eterno perché contiene la sostanza.
Anche Geremia definisce la Legge morale un patto debole e fragile, ma per un altro motivo: perché essa è stata rotta e spezzata dall'ingratitudine del popolo. Ma questa violazione trae la sua origine da un vizio esterno e non può essere attribuita alla Legge stessa. Inoltre, dato che le cerimonie sono state abrogate alla venuta di Cristo per la loro debolezza, esse contenevano in se la causa dell'abrogazione.
La differenza tra lettera e Spirito non deve essere intesa nel senso che il Signore abbia dato, nel passato, la Legge agli Ebrei senza alcun frutto né utilità, senza convertire nessuno a se; ma deve questo paragone servire a magnificare maggiormente l'abbondanza della grazia; di cui lo stesso Legislatore ha voluto arricchire la predicazione dell'Evangelo, quasi fosse divenuto un'altro, per onorare il regno del suo Cristo. Se consideriamo la moltitudine che ha raccolto da molte nazioni attraverso la predicazione dell'Evangelo e ha rigenerato con il suo Spirito, vediamo che il numero di coloro che avevano allora ricevuto con autentica convinzione interiore la dottrina della Legge era davvero esiguo: per quanto, i veri credenti siano stati molti, se si guarda al popolo d'Israele senza fare il paragone con la Chiesa cristiana.
9. La quarta differenza è una conseguenza della terza. La Scrittura definisce l'Antico Testamento un "patto di servitù ", perché genera timore e terrore nel cuore degli uomini; il Nuovo, "patto di libertà "perché li conferma nella sicurezza e nella fiducia.
In questo modo si esprime san Paolo nell'epistola ai Romani: "Non avete ricevuto di nuovo lo spirito di servitù per ricadere nella paura, ma lo spirito di adozione, per il quale gridiamo: Abbà, Padre! " (Ro 8.15). Lo stesso vuole significare l'autore dell'epistola agli Ebrei allorché dice che i credenti non sono venuti come il popolo d'Israele al monte visibile del Sinai dove si vede fuoco, tuono, tempesta, lampi (e tanto spaventevole e impressionante era lo spettacolo che Mosè stesso ne fu spaventato) e Dio non parla più a loro con voce terribile, come faceva allora: "ma sono venuti alla montagna celeste di Sion e a Gerusalemme, città dell'Iddio vivente, per essere in compagnia degli angeli " (Eb. 12.18).
Questa affermazione appena accennata nell'epistola ai Romani, viene sviluppata più ampiamente nell'epistola ai Galati, dove san Paolo utilizza la vicenda dei due figli di Abramo in forma allegorica: Agar la serva è simbolo del monte Sinai dove il popolo d'Israele ha ricevuto la Legge; Sara, la moglie è simbolo di Gerusalemme, da cui procede l'Evangelo. Mentre la discendenza di Agar è schiava e non può raccogliere l'eredità, la discendenza di Sara è libera e avrà l'eredità. La Legge dunque non può che generare servitù in noi e solo l'Evangelo ci rigenera nella libertà (Ga 4.22, ).
Riassumendo: l'Antico Testamento ha avuto il compito di atterrire le coscienze mentre il Nuovo porta gioia e letizia; il primo ha tenuto le coscienze vincolate e sotto il giogo della servitù, il secondo le libera e le affranca nella libertà.
Se si obbietta che i padri dell'Antico Testamento, avendo il nostro stesso spirito di fede, erano partecipi della stessa libertà gioiosa, risponderò che non l'hanno avuta grazie alla Legge: ma piuttosto perché, vedendosi tenuti prigionieri da essa con la coscienza confusa, hanno fatto ricorso all'Evangelo. Ne risulta che sono stati liberi da questa miseria solo per merito speciale del Nuovo Testamento.
Contesto inoltre che essi abbiano avuto tanta libertà e sicurezza da non sentire il timore e la servitù della Legge; sebbene gioissero del privilegio ottenuto dall'Evangelo, erano tuttavia soggetti, come tutti gli altri, ai vincoli, ai pesi ed ai legami allora validi. Se dunque erano costretti ad osservare i riti, che erano strumenti di quella pedagogia che san Paolo considera simile alla servitù, vale a dire atti di condanna con cui si riconoscevano colpevoli davanti a Dio senza liberarsi dei propri debiti, a buon diritto devono essere definiti, in confronto a noi, sotto il Patto di servitù, considerando la linea di condotta tenuta allora dal Signore verso il popolo d'Israele.
10. I tre ultimi confronti che abbiamo fatti sono tra la Legge e l'Evangelo. In essi dunque sotto il nome di Antico Testamento dobbiamo intendere la Legge, così per Nuovo Testamento dobbiamo intendere l'Evangelo. Il primo confronto invece aveva una portata più vasta perché comprendeva anche la situazione dei padri antichi che vissero prima della Legge.
Sant'Agostino ha ragione di negare che le promesse di quel tempo siano da intendersi come parte dell'Antico Testamento 6. Egli intendeva dire esattamente ciò che noi insegniamo: egli teneva presenti i passi di Geremia e di san Paolo che abbiamo citato, nei quali l'Antico Testamento è contrapposto alla dottrina di grazia e di misericordia. Giustamente egli aggiunge anche che tutti i credenti rigenerati da Dio dal principio del mondo e che hanno seguito la sua volontà con fede e carità, appartengono al Nuovo Testamento e non hanno radicato la loro speranza in beni carnali, terreni e temporali, ma in quelli spirituali, celesti ed eterni. Hanno creduto nel mediatore e perciò non dubitavano che lo Spirito Santo fosse stato dato loro per vivere rettamente e che avrebbero ottenuto il perdono ogni volta che avessero peccato.
È quanto ho voluto sostenere: tutti i santi di cui leggiamo nella Scrittura che sono stati eletti fin dalla fondazione del mondo, sono stati partecipi con noi delle stesse benedizioni in vista della vita eterna. Tra la mia posizione e quella di sant'Agostino vi è una sola differenza: ho fatto la distinzione tra la luce dell'Evangelo e l'oscurità che la precedeva, attenendomi alla asserzione di Cristo, secondo cui la Legge ed i Profeti hanno operato fino a Giovanni Battista e successivamente il Regno di Dio ha incominciato ad essere predicato (Mt. 11.13). Agostino si è accontentato di distinguere tra la debolezza della Legge e la stabilità dell'Evangelo.
Bisogna anche notare che gli antichi padri hanno vissuto sotto l'Antico Testamento senza però ridursi nei suoi limiti e hanno sempre desiderato il nuovo, anzi ne sono stati partecipi Cl. cuore. Coloro che accontentandosi delle raffigurazioni esteriori non innalzarono a Cristo la loro mente, sono considerati ciechi e maledetti dall'Apostolo. Ed infatti non si potrebbe immaginare un accecamento maggiore di quello di chi pensa ottenere la purificazione dei propri peccati mediante la morte di un animale! O di chi cerca purificazione della propria anima nell'aspersione corporea di acqua! O di chi vuole placare Dio con cerimonie futili, come se egli vi prendesse molto piacere! Per non tacere di molte altre simili considerazioni. Cadono in queste assurdità tutti coloro che perdono tempo nelle pratiche esteriori della Legge senza mirare a Cristo.
11. La quinta differenza che si può aggiungere, come abbiamo detto, risiede nel fatto che fino alla venuta di Cristo, Dio aveva messo da parte un popolo cui aveva affidato il patto della sua grazia. "Quando l'Iddio onnipotente divise i popoli "dice Mosè "quando divise i figli di Adamo, il suo popolo gli è toccato nella spartizione: Giacobbe è stato la sua eredità " (De 32.8-9). In un altro passo si rivolge al popolo: "Ecco, il cielo, la terra e tutto quel che contengono appartiene al tuo Dio. E tuttavia egli pose affezione ai tuoi padri e li amò, per eleggere poi la loro progenie dopo di loro, tra tutti gli altri popoli " (De 10.14-15)
Il nostro Signore ha concesso dunque solo a questo popolo l'onore di farsi conoscere, quasi gli appartenesse più che gli altri. Gli ha concesso il suo Patto; ha manifestato nel suo seno la presenza della sua divinità e l'ha onorato con molti altri privilegi. Tralasciando gli altri doni, che gli ha concesso, accontentiamoci di quello in argomento: comunicandogli la sua parola si è unito ad esso per essere chiamato e considerato suo Dio.
Nel frattempo lasciava che tutte le altre nazioni camminassero nella futilità e nell'errore, come se non avesse relazione alcuna con esse (At. 14.16e non offriva loro il rimedio che poteva aiutarle: vale a dire la predicazione della sua parola. Per questo Israele era definito allora "figlio prediletto di Dio ", mentre gli altri erano considerati estranei. Era conosciuto da Dio e da lui protetto, mentre gli altri erano lasciati a se stessi nelle tenebre. Era consacrato a Dio, mentre gli altri erano profani. Era onorato dalla presenza di Dio mentre gli altri ne erano esclusi.
Ma quando è venuta la pienezza dei tempi in cui tutto doveva essere restaurato (Ga 4.4) : quando, dico, il mediatore tra Dio e gli uomini è stato rivelato, ha abbattuto il muro che per lungo tempo aveva limitato la misericordia di Dio ad un solo popolo ed ha fatto sì che la pace fosse annunciata a quanti erano lontani come a quanti erano vicini; onde, essendo tutti quanti riconciliati con Dio, fossero uniti in un solo corpo (Ef. 2.14). Di conseguenza non v'è più distinzione tra Ebreo o Greco, tra circoncisione o incirconcisione, ma Cristo è ogni cosa in tutti (Ga 6.15; Cl. 3.2). A lui sono stati dati in eredità tutti i popoli della terra e i confini della terra quale possesso (Sl. 2.8) affinché domini da un mare all'altro, dall'oriente all'occidente (Sl. 72.8e altrove).
12. La vocazione dei pagani di conseguenza costituisce ancora un segno di rilievo per dimostrare l'eccellenza del Nuovo Testamento rispetto all'Antico. Essa era stata preannunziata anticamente da molte profezie, ma in modo tale che l'adempimento ne era rimandato alla venuta del Messia. Neanche Gesù Cristo, all'inizio della sua predicazione, ha voluto aprire la porta ai pagani ma ha differito la loro chiamata fino a quando non avesse attuato la nostra redenzione e trascorso il periodo della sua umiliazione, avesse ricevuto dal Padre un nome che è al di sopra di ogni nome, onde ogni ginocchio si piegasse dinanzi a lui (Fl. 2.9).
Per questo motivo egli diceva alla donna cananea di essere venuto solo per le pecore perdute della casa d'Israele (Mt. 15.24); e quando mandò i discepoli per la prima volta, vietò loro di oltrepassare questi limiti: "Non andate dai pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; andate piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele " (Mt. 10.5-6) perché non era ancora venuta l'epoca che abbiam menzionato.
Anzi, sebbene la vocazione dei pagani fosse stata prevista da tante testimonianze, tuttavia, quando si è dovuta attuare, sembrò così nuova agli Apostoli che ne ebbero paura come di cosa incredibile. Vi si sono impegnati con molte esitazioni, e non c'è da stupirsi perché sembrava irragionevole che Dio, dopo aver per lungo tempo messo da parte Israele rispetto agli altri popoli, improvvisamente annullasse questa distinzione, quasi avesse mutato parere. Questo fatto era stato bensì predetto dai Profeti, ma la loro intelligenza delle profezie non era tale da far sì che questa novità non li turbasse. Gli esempi, dati precedentemente da Dio per mostrare quanto avrebbe fatto, non erano sufficienti a liberarli dai dubbi. Aveva chiamato solo pochi pagani nella sua Chiesa, e, per di più, chiamandoli li aveva incorporati nel popolo di Israele mediante la circoncisione, talché si potevano considerare appartenenti alla famiglia di Abramo.
Ora con la vocazione pubblica dei pagani, avvenuta dopo l'Ascensione di Gesù Cristo, non solo sono stati posti sullo stesso piano degli Ebrei, ma, anzi, hanno preso il loro posto. C'è di più: gli stranieri integrati non erano mai stati eguali agli Ebrei. San Paolo, dunque, non senza ragione loda questo mistero che dice essere rimasto nascosto attraverso i secoli e lo considera motivo di stupore per gli angeli stessi (Cl. 1.26).
13. Credo di avere correttamente e fedelmente riassunto in questi quattro o cinque punti la differenza tra Antico e Nuovo Testamento, in modo da offrirne una spiegazione semplice e genuina.
Alcuni però considerano del tutto assurda l'esistenza di una diversità tra il governo della Chiesa cristiana e quello della Chiesa d'Israele, il diverso insegnamento e il cambiamento delle cerimonie. Bisogna dunque rispondere loro prima di andare avanti. Si può farlo brevemente perché le loro obbiezioni non sono fondate né ragionate al punto da causare preoccupazioni.
Non è possibile, essi dicono, che Dio, il quale deve essere sempre simile a se stesso, abbia cambiato idea in questo modo; che abbia condannato quanto aveva precedentemente ordinato.
Rispondo che non bisogna considerare Dio mutevole perché ha adattato forme diverse a tempi diversi, secondo quanto sapeva esserci utile. Se un contadino prescrive ai suoi servi dei lavori diversi d'inverno o d'estate, non lo accuseremo di incostanza e non diremo che abbia abbandonato il modo giusto di coltivare, che dipende dal perenne ordine di natura. Parimenti se un padre istruisce, educa e tratta i suoi figli durante la gioventù in modo diverso che durante la fanciullezza: e poi cambia ancora sistema quando sono giunti all'età adulta, non diremo che sia incostante o cambi facilmente opinione. Potremmo dunque accusare Dio di incostanza perché ha caratterizzato i diversi tempi con segni caratteristici che sapeva essere appropriati?
La seconda similitudine deve soddisfarci. San Paolo considera gli Ebrei simili a piccoli fanciulli e i cristiani simili a giovanetti. Quale inconveniente c'è nel fatto che Dio abbia educato gli Ebrei con mezzi adatti al loro tempo, tempo di infanzia, e che ora ci istruisca in una dottrina più alta e più virile?
La immutabilità di Dio si manifesta quindi nel fatto che ha stabilito una identica dottrina per tutti i secoli. Il servizio che ha richiesto al principio, continua a richiederlo ora. Né si dimostra soggetto a cambiamenti per il fatto di aver cambiato le forme ed i modi esterni, perché ha voluto solamente adattarsi alla capacità degli uomini che è mutevole.
14. Replicano ancora: questa diversità non esisterebbe se Dio non l'avesse voluta. Non avrebbe forse potuto, tanto prima quanto dopo la venuta di Cristo, rivelare la vita eterna per mezzo di parole chiare e senza simboli? Non poteva istruire i suoi con sacramenti chiari? Non poteva elargire abbondantemente lo Spirito Santo? Non poteva spandere su tutti la sua grazia?
Porre queste domande è come rimproverare Dio per aver creato il mondo così tardi mentre avrebbe potuto farlo fin dall'inizio; per aver stabilito nell'anno differenti stagioni quali inverno ed estate, e il giorno e la notte.
Per conto nostro assumiamo l'atteggiamento che deve essere di ogni credente: non dubitiamo che quanto Dio fa, è fatto saggiamente, anche se non ne vediamo la causa. Sarebbe folle arroganza da parte nostra non concedere a Dio la conoscenza delle ragioni della sua opera che ci sfuggono.
Stupisce il fatto, dicono, che Dio respinga oggi quei sacrifici di animali e tutta la solennità del sacerdozio levitico che allora gradiva. Come se Dio si dilettasse di cose esterne e caduche, o come se vi avesse mai dato peso! Abbiamo già detto 7che tutto questo non lo ha stabilito per se stesso ma per la salvezza degli uomini. Se un dottore adoperasse un rimedio per guarire un giovane e poi, dovendolo curare nella sua vecchiaia ne adoperasse un altro, diremmo forse che rinnega il trattamento seguito in precedenza? Egli dirà di aver seguito sempre lo stesso metodo terapeutico ma di averlo adattato all'età. Similmente è stato utile che Gesù Cristo, ancora lontano, fosse rappresentato da molti segni che preannunciavano la sua venuta diversi dai segni che ci ricordano ora che è venuto.
Considerando poi la vocazione di Dio e la grazia che è stata elargita più ampiamente che per l'innanzi; e il patto di salvezza stipulato con tutti mentre precedentemente era riservata al popolo d'Israele, vi domando, chi potrà negare a Dio di dispensare liberamente le sue grazie secondo il suo piacimento? Di illuminare i popoli che vuole? Di far predicare la sua parola dove gli sembra bene? Di farne uscire il frutto, grande o piccolo, che gli pare opportuno? Di darsi a conoscere al mondo, quando voglia farlo, per mezzo della sua misericordia, e di ritirare la conoscenza che ne aveva dato, per colpa dell'ingratitudine umana?
Vediamo dunque che si tratta di calunnie: sono tutte obbiezioni adoperate dagli empi per turbare i semplici, allo scopo di porre in dubbio la giustizia di Dio o la verità della Scrittura.
CAPITOLO XII
PER COMPIERE L'UFFICIO DI MEDIATORE GESÙ CRISTO HA DOVUTO DIVENTARE UOMO
1. Colui che doveva essere il nostro mediatore doveva necessariamente essere vero Dio e vero uomo. Questa necessità non è implicita e assoluta, come si dice: se ne deve cercare la causa nel decreto eterno di Dio, dal quale dipende la salvezza umana.
Il Padre clemente e buono ha stabilito quanto sapeva esserci più utile. Le nostre iniquità avevano gettato una nube tra lui e noi impedendoci di giungere a lui, allontanandoci completamente dal regno dei cieli, non poteva esserci, di conseguenza, alcun modo di riconciliarci che non venisse da lui stesso. Chi avrebbe potuto avvicinarsi? Qualcuno dei figli di Adamo forse? Tutti avevano orrore della sua alta maestà, come il loro progenitore. Qualche angelo? Ma anch'essi avevano bisogno di un Capo per mezzo del quale potessero essere confermati nell'alleanza eterna con Dio. Non vi era dunque alcun rimedio alla situazione disperata, se la maestà stessa di Dio non fosse discesa a noi: non essendo in nostro potere salire a lui.
Per questo è stato necessario che il figlio di Dio divenisse Emanuele, vale a dire: "Dio con noi "; a condizione che la sua divinità e la natura umana fossero unite insieme, altrimenti non vi sarebbe stata unità sufficiente né affinità bastante per farci sperare che Dio abitasse con noi. La distanza era troppo grande tra il nostro peccato e la sua purezza. Quand'anche l'uomo fosse rimasto integro, la sua condizione era troppo inferiore per potersi innalzare fino a Dio; tanto meno poteva farlo dopo essersi immerso nella rovina mortale dell'inferno! Dopo essersi macchiato di tante colpe, avvelenato nella propria corruzione e sprofondato nell'abisso della maledizione!
Non è dunque senza motivo che san Paolo, volendo additare Gesù Cristo quale mediatore, lo definisce "uomo ": "Vi è un mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, che è uomo ", (1 Ti. 2.5). Poteva chiamarlo Dio oppure omettere l'una e l'altra definizione. Ma lo Spirito Santo che parla per bocca sua, conoscendo la nostra debolezza, adopera questa definizione per porvi rimedio: ci presenta il figlio di Dio nella nostra stessa condizione per farci sentire familiari con lui. Affinché nessuno si tormenti nella ricerca di questo mediatore e si preoccupi di dove possa trovarlo, lo chiama uomo al fine di avvertirci della sua vicinanza: non potrebbe essere maggiormente vicino a noi, dato che è nostra carne.
In sostanza, l'Apostolo fa riferimento a quanto è spiegato più diffusamente altrove: abbiamo un sacerdote che può aver compassione delle nostre infermità dato che è stato tentato come gli uomini lo sono; ma non ha alcuna macchia di peccato (Eb. 4.15).
2. Questo risulterà ancor più chiaro se consideriamo l'importanza della funzione del Mediatore: egli ci riconduce alla grazia di Dio di sorta che diventiamo suoi figli ed eredi del suo regno: mentre dovremmo essere eredi del fuoco infernale come discendenti maledetti di Adamo. Chi avrebbe potuto realizzare questo, se il figlio di Dio stesso non fosse diventato uomo e non avesse accettato ciò che è nostro per poterci dare ciò che è suo, facendo nostro per grazia quanto era suo per natura?
Con questo pegno, colui che è figlio di Dio per natura ha assunto un corpo simile al nostro ed è stato fatto carne della nostra carne ed ossa delle nostre ossa, abbiamo la sicura certezza di essere figli di Dio suo padre: egli non ha disdegnato di assumere quanto ci era proprio e in questo modo di essere insieme con noi figlio di Dio e figlio dell'uomo. Qui sta l'origine della santa fraternità che egli ci annunzia dicendo: "Io salgo al padre mio e padre vostro, all'Iddio mio e all'Iddio vostro " (Gv. 20.17). Da questo pensiero riceviamo assicurazione dell'eredità celeste: il figlio unigenito di Dio, cui appartiene l'eredità universale, ci ha adottati quali fratelli e di conseguenza ci ha fatti eredi con lui (Ro 8.17).
Inoltre era massimamente utile che il nostro futuro redentore fosse vero Dio e vero uomo, dovendo sconfiggere la morte; e chi avrebbe potuto riuscirci, se non colui che è la vita stessa? Doveva vincere il peccato; e chi avrebbe potuto farlo, se non colui che è la giustizia? Toccava a lui distruggere le potenze del mondo e dell'aria; e chi avrebbe potuto ottenere questa vittoria se non colui che è potenza superiore ad ogni autorità? Dove risiedono la vita, la giustizia e l'imperio del cielo se non in Dio? È: lui dunque che per la sua infinita clemenza si è fatto nostro redentore nella persona del suo figlio unigenito, per poterci riscattare.
3. L'altro aspetto della nostra riconciliazione con Dio è questo: l'uomo rovinato e perduto a motivo della propria disobbedienza, avrebbe dovuto, come rimedio, realizzare un'obbedienza tale da soddisfare il giudizio di Dio, pagando il dovuto per il suo peccato. Così il Signore Gesù è apparso in veste di Adamo, ne ha preso il nome mettendosi al suo posto al fine di obbedire al Padre, presentare il proprio corpo quale prezzo di soddisfazione del suo giusto giudizio e sopportare la pena che noi avevamo meritata nella carne in cui la colpa era stata commessa.
Insomma, dato che solo Dio non poteva subire la morte in se stesso e l'uomo non la poteva vincere, ha unito la natura umana a quella divina per sottomettere la debolezza della prima alla morte e così purificarci e liberarci dai nostri misfatti; e per acquistarci vittoria in virtù della seconda, sostenendo per noi la lotta con la morte.
Per questo motivo chi sottrae a Gesù Cristo la sua divinità o la sua umanità, ne sminuisce la maestà e la gloria, ne oscura la bontà e la grazia; e d'altra parte ferisce ugualmente l'uomo, distruggendone la fede, che non può mantenersi se non poggia su questo fondamento.
C'è di più: è stato necessario che i credenti aspettassero come loro redentore questo figlio di Abramo e di Davide, che Dio aveva loro promesso nella Legge e nei Profeti. Le anime fedeli ne traggono ancora un frutto: risalendo all'origine, condotti fino a Davide ed Abramo, essi hanno modo di conoscere meglio e più chiaramente che il nostro Signore Gesù è quel Cristo di cui tanto avevano parlato i profeti.
Teniamo a mente soprattutto quanto ho detto dinanzi, vale a dire che il figlio di Dio ci ha dato un pegno valido del legame che abbiamo con lui attraverso la natura che ha in comune con noi; e che, vestito della nostra carne, ha sconfitto la morte e il peccato affinché la vittoria ed il trionfo fossero nostri; ed ha offerto in sacrificio questa carne che aveva presa da noi affinché, avendo purificato i peccati, cancellasse la nostra condanna e placasse l'ira di Dio suo padre.
4. Chi esaminerà tutto questo con la dovuta attenzione non darà peso alcuno alle stravaganti speculazioni da cui si lasciano trasportare alcuni spiriti incostanti ed assetati di novità. Alcuni di essi sollevano la seguente questione: anche se il genere umano non avesse avuto alcun bisogno di essere riscattato, Gesù Cristo sarebbe egualmente divenuto uomo.
Riconosco che nella condizione originaria della creazione, nell'integrità della natura, egli già era stabilito quale capo sugli uomini e sugli angeli; per questo motivo san Paolo lo definisce primogenito di tutte le creature (Cl. 1.15). Ma la Scrittura dichiara con ogni chiarezza che è stato rivestito della nostra carne per divenire redentore: è dunque una supposizione temeraria immaginare altra causa o altro scopo della sua incarnazione.
La ragione per cui è stato promesso fin dal principio è chiara: per restaurare il mondo che era caduto in rovina e soccorrere gli uomini che erano perduti. Per questo motivo nei sacrifici sotto la Legge era raffigurata la sua immagine affinché i credenti sperassero nella misericordia di Dio e fossero riconciliati con lui mediante l'espiazione dei peccati.
Certo in tutti i secoli, anche prima della promulgazione della Legge, la promessa del mediatore è stata associata sempre al sangue: dobbiamo dedurne che era destinato dalla volontà eterna di Dio a purificare le colpe umane, dato che spargere il sangue è un segno di riparazione dell'offesa. Nello stesso modo i profeti hanno parlato di lui, promettendo che verrebbe a riconciliare Dio e gli uomini. Per ora ci basti la testimonianza di Isaia particolarmente solenne: dice che sarà colpito dalla mano di Dio per i delitti del popolo, che il castigo per cui abbiamo pace sarà su lui, che sarà sacerdote per offrirsi quale vittima, che ci guarirà con le sue piaghe, che tutti si sono smarriti come pecore erranti, che è piaciuto a Dio di affliggerlo perché portasse le iniquità di tutti (Is. 53.4-5). Ci vien detto che Gesù Cristo è stato stabilito dal decreto inviolabile del cielo per soccorrere i peccatori; ne dobbiamo concludere che chi va al di là di queste affermazioni, toglie ogni freno alla propria folle curiosità.
Egli stesso, apparso nel mondo, ha dichiarato che lo scopo della sua venuta era di trarci dalla morte alla vita riconciliandoci con Dio. Gli apostoli si sono espressi nello stesso senso. San Giovanni, prima di dire che la Parola è stata fatta carne, parla della rivolta e della caduta dell'uomo (Gv. 1.9.10.14). Ma la cosa migliore e ascoltare Gesù Cristo stesso che descrive il proprio ufficio "Dio ha tanto amato il mondo che non ha risparmiato il proprio figlio unigenito ma l'ha dato alla morte onde tutti quelli che credono in lui non periscano ma abbiano vita eterna " (Gv. 3.16; "L'ora è venuta e i morti udranno la voce del figlio di Dio e quelli che l'avranno udita vivranno " (Gv. 5.25); "Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me anche se muoia vivrà " (Gv. 11.25); "Il figlio dell'Uomo è venuto per salvare quel che era perito " (Mt. 18.2); "I sani non hanno bisogno del medico " (Mt. 9.12). Non finiremmo mai se volessimo raccogliere tutti i passi che si esprimono in questo senso. Gli apostoli sostengono unanimemente questa tesi.
Infatti, se non fosse venuto per riconciliarci con Dio, la sua dignità sacerdotale cadrebbe, dato che il sacerdote è interposto tra Dio e gli uomini per ottenere il perdono dei peccati (Eb. 5.1); non rappresenterebbe la nostra giustizia, dato che è stato fatto vittima al posto nostro onde Dio non ci imputasse i nostri errori (2 Co. 5.19); in breve, sarebbe spogliato di tutti i titoli con cui la Scrittura lo onora. Sarebbe anche contraddetta l'affermazione di san Paolo che Dio ha mandato suo figlio per compiere quanto era impossibile alla Legge, portare cioè i nostri peccati in carne simile a peccato (Ro 8.3). Né sussisterebbe quanto dice in un altro passo: la grande bontà di Dio ed il suo amore verso gli uomini sono diventati noti quando ci ha dato suo figlio quale redentore (Tt. 2.14).
Insomma la Scrittura attribuisce all'incarnazione di Cristo e alla sua venuta quale inviato di Dio, il solo fine di essere sacrificio di soddisfazione per placare la giustizia divina. Così è stato scritto e così Gesù Cristo ha dovuto soffrire perché si potesse predicare il pentimento in suo nome, dice san Luca (Lu 24.26-46). Lo stesso in san Giovanni: "Il padre mi ama perché metto la mia vita per le mie pecore. Il Padre me l'ha ordinato " (Gv. 10.17); "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il figlio dell'Uomo sia innalzato " (Gv. 3.14); "Padre, salvami da quest'ora! Ma è per questo che sono venuto. Padre glorifica tuo figlio " (Gv. 12.27-28). In questi passi mette in rilievo specialmente il fine per cui ha rivestito la carne umana: essere fatto sacrificio e soddisfazione per abolire i peccati. Per lo stesso motivo Zaccaria dice, nel suo cantico, che egli è venuto secondo la promessa data ai padri per illuminare quelli che si trovano nelle tenebre della morte (Lu 1.79).
Ricordiamoci che tutte queste cose sono insegnate dal figlio di Dio, nel quale, dice san Paolo, sono nascosti tutti i tesori della sapienza e dell'intelligenza (Cl. 2.3) : e l'Apostolo si vanta di non conoscere nulla all'infuori di lui (1 Co. 2.2).
5. Qualcuno può obiettare che questo non impedisce che Gesù Cristo, il quale ha riscattato i dannati, avrebbe potuto anche dimostrare il suo amore verso quanti erano rimasti sani ed integri rivestendone la natura; la risposta è semplice. Lo Spirito Santo dichiara che per volontà di Dio queste due cose sono collegate insieme: egli doveva essere nostro redentore e partecipare alla nostra natura. Non è lecito domandarsi di più. Se qualcuno, insoddisfatto dal decreto immutabile di Dio, è mosso dal desiderio di saperne di più, dimostra così facendo di non accontentarsi di Gesù Cristo, datoci quale prezzo di redenzione.
San Paolo non dice solo perché Cristo ci è stato inviato: ma trattando il grande mistero della predestinazione, mette la briglia ai desideri folli e alla tracotanza dello spirito umano affermando che il Padre ci ha eletti prima della creazione del mondo per adottarci quali suoi figli, secondo il proposito della sua volontà; e ci ha accettati nel nome del suo figlio prediletto, nel cui sangue abbiamo la redenzione (Ef. 1.4-5). Non presuppone qui che la caduta di Adamo sia stata anteriore nel tempo ma espone la determinazione presa da Dio prima di tutti i secoli per rimediare all'infermità del genere umano.
Qualcuno ancora obbietta che questa decisione di Dio è stata originata dalla caduta dell'uomo che egli prevedeva. Quanti si concedono il lusso di cercare in Cristo più di quanto Dio vi abbia predestinato nel suo segreto proposito, si arrischiano a inventare un nuovo Cristo seguendo la propria sfrenata pazzia! San Paolo, dopo aver parlato del vero ufficio di Gesù Cristo, prega giustamente perché sia dato spirito d'intelligenza ai credenti per comprendere la lunghezza, l'altezza, la larghezza e la profondità della carità di Cristo, che supera ogni conoscenza (Ef. 3.16-18) : Egli sembra, di proposito, imbrigliare la nostra mente con delle remore per impedirle di allontanarsi da una parte o dall'altra quando si fa menzione del Cristo, e per invitarla ad attenersi alla grazia della riconciliazione che egli ci ha portato. Avendo lo stesso Apostolo detto altrove essere certo e indubitabile che Gesù Cristo è venuto per salvare i peccatori (1 Ti. 1.15) , accolgo volentieri questa parola. Insegna anche che la grazia manifestataci nell'Evangelo ci è stata data in Gesù Cristo prima di tutti i tempi e di tutti i secoli (2Ti 1.9) : ne concludo che dobbiamo attenerci ad essa fino alla fine.
Osiandro non si attiene a questi limiti. Il problema era stato sollevato da alcuni nel passato ma egli ha infelicemente ripreso la questione fino a sconvolgere la Chiesa.
Egli accusa di presunzione quanti dichiarano che se Adamo non fosse caduto, il figlio di Dio non sarebbe apparso incarnato, perché, a suo giudizio, non vi sarebbero affermazioni certe della Scrittura al riguardo. E invece san Paolo ha posto un freno a questa perversa curiosità allorché, dopo aver parlato della redenzione operata da Gesù Cristo, ordina di fuggire ogni questione assurda (Tt. 3.9).
La frenesia di alcuni è giunta al punto da porsi l'interrogativo se il figlio di Dio avrebbe potuto prendere la natura di un asino, spinti com'erano dall'ossessione di essere considerati sottili ragionatori! Osiandro giustifica la domanda (che ogni persona che abbia timor di Dio sente con orrore) e la giustifica Cl. pretesto che essa non è esplicitamente condannata; io gli obbietto che san Paolo, non desiderando conoscere altro che Gesù Cristo crocifisso (1 Co. 2.2) , Si guarderebbe bene dall'accettare un asino quale autore della salvezza. Altrove l'Apostolo insegna che Gesù Cristo è stato stabilito dalla volontà eterna di Dio quale capo per raccogliere tutte le cose (Ef. 1.22) : per lo stesso motivo non riconoscerà mai un Cristo che non abbia avuto il compito di riscattare.
6. Il principio su cui Osiandro fonda la sua sicurezza è frivolo: l'uomo è stato creato ad immagine di Dio, egli dice, perché è stato formato sul modello del Cristo onde egli fosse raffigurato in quella natura umana di cui il Padre aveva decretato rivestirlo. Egli ne deduce che anche qualora Adamo non fosse mai decaduto dalla sua situazione originale, Cristo non avrebbe per questo mancato di diventar uomo. Ogni persona di buon senso vede quanto l'affermazione sia futile, contorta, tirata per i capelli, come si dice.
Quest'uomo pieno d'orgoglio crede di essere il primo ad aver capito cosa sia l'immagine di Dio ed afferma che non solo la gloria di Dio risplendeva in Adamo, nei doni eccellenti di cui era ornato, ma anche che Dio abitava sostanzialmente in lui. Riconosco che Adamo portava l'immagine di Dio in quanto era congiunto con lui, questo costituisce la vera e sovrana perfezione della sua dignità, ma affermo che l'immagine di Dio deve essere cercata nei segni della eccellenza che nobilitavano Adamo a differenza di tutti gli animali. immagine di Dio e che di conseguenza da lui proveniva quanto di eccellente vi era in Adamo, egli si avvicinava alla gloria del suo Creatore per mezzo del Figlio unigenito. L'uomo è stato creato ad immagine di colui che l'ha formato (Ge 1.27); di conseguenza è come uno specchio in cui splende la gloria di Dio. {i stato innalzato dalla gloria del Figlio a questo alto onore.
Ma bisogna aggiungere nel contempo che questo Figlio è stato capo sia degli angeli che degli uomini, tanto che la dignità data all'uomo era la stessa che apparteneva anche agli angeli. Se la scrittura li chiama "figli di Dio ", non si può negare che abbiano impressi dei segni che fan sì che rappresentano il padre loro.
Se dunque Dio ha voluto mostrare la sua gloria negli angeli come negli uomini ed ha voluto renderla evidente in ambedue le nature, Osiandro sbaglia scioccamente dimenticando gli angeli come se non portassero l'immagine di Gesù Cristo. Se non gli fossero simili non godrebbero in continuità della sua presenza e del suo sguardo. San Paolo insegna che gli uomini sono rinnovati ad immagine di Dio per essere simili agli angeli e uniti a loro sotto lo stesso capo. Insomma, se prestiamo fede a Gesù Cristo, la nostra suprema felicità consisterà nell'essere uguali agli angeli, dopo essere stati accolti in cielo. Se si accetta la tesi di Osiandro, secondo cui il primo e principale modello dell'immagine di Dio è stato rappresentato da quella natura umana che Gesù Cristo doveva assumere, se ne potrà anche dedurre, al contrario, che egli doveva prendere anche la forma angelica, dato che anch'essa contiene impressa l'immagine di Dio.
7. Osiandro non tema dunque che Dio venga accusato di menzogna qualora non abbia avuto in mente l'immutabile e definitivo proposito di dare al figlio suo corpo umano. Anche se la condizione umana non fosse stata distrutta, Cristo non avrebbe per questo mancato di essere simile a Dio insieme agli angeli; senza che tuttavia fosse necessario per il figlio di Dio divenire uomo oppure angelo.
Ingiustificato è anche il suo timore che qualora la volontà immutabile di Dio non avesse deliberato, prima della creazione di Adamo, che Gesù Cristo doveva nascere uomo, non come redentore ma come primo uomo, il suo onore ne sarebbe stato sminuito, dato che solo per accidente sarebbe nato in vista di restaurare il genere umano perduto, e sarebbe stato così creato ad immagine di Adamo. Perché dovrebbe temere quello che la Scrittura insegna apertamente, vale a dire che Cristo è stato fatto del tutto simile a noi salvo nel peccato (Eb. 4.15) ? San Luca non ha nessuna difficoltà a chiamarlo nella sua genealogia figlio di Adamo (Lu 3.38).
Vorrei anche sapere perché san Paolo lo chiamerebbe il secondo Adamo (1 Co. 15.45) se non perché il Padre lo ha assoggettato alla situazione umana per salvare i successori di Adamo dalla rovina in cui erano precipitati. Se la volontà divina di dargli forma umana avesse preceduto la creazione, dovrebbe essere chiamato il primo Adamo. Osiandro afferma che siccome Gesù Cristo era predestinato dalla mente di Dio a divenire uomo, tutti sono stati formati su quel modello. San Paolo al contrario chiamando Gesù Cristo secondo Adamo pone, tra l'origine e la restaurazione ottenutaci da Cristo, la rovina e la confusione che sono intervenute, fondando la venuta di Gesù Cristo sulla necessità di ricostituirci nella nostra situazione. Ne deduco che questa è stata la causa dell'incarnazione del figlio di Dio.
Osiandro afferma anche scioccamente che se Adamo si fosse mantenuto nella sua integrità sarebbe stato immagine di se stesso e non di Gesù Cristo. Anche se il figlio di Dio non fosse mai divenuto carne, l'immagine di Dio non avrebbe cessato di splendere nei nostri corpi e nelle nostre anime e attraverso i raggi di questa immagine sarebbe sempre apparso che Gesù Cristo è veramente il capo, avendo la preminenza su tutti gli uomini.
In questo modo è risolto anche un altro futile cavillo: gli angeli, egli dice, sarebbero rimasti privi di questo capo se Dio non avesse determinato in se stesso di far uomo suo figlio, senza che il peccato di Adamo lo richiedesse. Egli considera evidente ciò che nessuna persona di buon senso gli concede: vale a dire che Gesù Cristo ha preminenza sugli angeli solo in quanto è uomo.
Al contrario è facile dedurre dalle parole di san Paolo che, in quanto è Parola eterna di Dio, egli è anche il primogenito di ogni creatura (Cl. 1.15); non che sia stato creato o che debba essere considerato tra le creature, ma in quanto il mondo, nella sua perfezione iniziale, non ha avuto altro principio. In quanto è stato fatto uomo, è chiamato "primogenito dai morti " (Cl. 1.18). L'Apostolo riassume l'una e l'altra affermazione quando dice che tutte le cose sono state create mediante il figlio, affinché dominasse sugli angeli, ed è stato fatto uomo onde poter svolgere la funzione di redentore.
Un'altra sciocchezza di Osiandro consiste nell'affermare che gli uomini non avrebbero avuto Gesù Cristo quale re se non fosse stato uomo. Forse non si potrebbe parlare di un regno e un dominio di Dio qualora il Figlio unico, anche senza aver rivestito la carne umana, avesse raccolto sotto di se gli uomini e gli angeli, dominandoli con la propria gloria? Si fuorvia sempre di nuovo o meglio rimane incantato nella fantasticheria che la Chiesa sarebbe stata priva di testa se Gesù Cristo non fosse apparso in carne. Come se non avesse potuto avere la preminenza sugli uomini grazie alla propria potenza divina, dando loro vigore con la forza invisibile del suo Spirito, così come si dimostra capo degli angeli!
Osiandro considera le sciocchezze sin qui refutate come oracoli infallibili, essendosi abituato a costruire i suoi trionfi inebrianti sul nulla. Alla fine si vanta di avere un argomento invincibile e definitivo nella profezia di Adamo il quale, vedendo Eva sua moglie, dice: "Ecco finalmente le ossa delle mie ossa, la carne della mia carne " (Ge 2.23). Ma come può provare trattarsi di una profezia? Risponderà forse che in san Matteo Gesù Cristo attribuisce la frase a Dio. Come se tutto quello che Dio dichiara attraverso gli uomini contenesse una profezia relativa al futuro. In questo modo ogni precetto della Legge dovrebbe contenere una profezia, dato che sono stati tutti dati da Dio! Vi sarebbe di peggio, se volessimo credere a queste fantasticherie: Gesù Cristo sarebbe stato un commentatore umano soddisfatto del senso letterale, infatti non fa riferimento all'unione mistica che lo lega alla Chiesa ma menziona il passo per mostrare quale fede e quale lealtà il marito debba alla propria moglie, dato che Dio ha dichiarato che uomo e donna sarebbero una sola creatura; e in questo modo dimostra non essere lecito rompere questo legame indissolubile con il divorzio. Se Osiandro disprezza questo significato semplice, rimproveri anche a Gesù Cristo di non aver nutrito i discepoli con questa bella allegoria, che egli propone, e di non aver quindi interpretato con sufficiente acume le parole del Padre!
Né le citazioni di san Paolo giovano alla sua tesi. San Paolo dopo aver detto che siamo carne di Cristo, esclama: "questo è un grande mistero " (Ef. 5.30). Non vuol spiegare in qual senso Adamo abbia pronunciato la frase: ma con il paragone del matrimonio vuole spingerci a considerare l'unione sacra che ci congiunge a Gesù Cristo. Anche le parole lo dimostrano: dichiarando di parlare di Cristo e della Chiesa l'Apostolo pone un avvertimento perché si distingua il matrimonio dall'unione spirituale di Gesù Cristo con la Chiesa. E così il ciarlare di Osiandro svanisce da solo.
Né sarà necessario valutare tutti questi argomenti, dato che questa breve refutazione ne ha sufficientemente sottolineato la futilità. Comunque sia, i figli di Dio si accontenteranno della sobria affermazione che quando la pienezza dei tempi è venuta, egli ha mandato il suo figliuolo, nato di donna, sottoposto alla Legge, per riscattare quanti erano sotto la Legge (Ga 4.4).