CAPITOLO 21
L'ELEZIONE ETERNA CON CUI DIO HA PREDESTINATO GLI UNI ALLA SALVEZZA E GLI ALTRI ALLA DANNAZIONE

1. Il patto di grazia non è predicato a tutti in modo uguale, e anche laddove è predicato esso non è ricevuto da tutti allo stesso modo; una tal diversità rivela il mirabile segreto del piano di Dio: indubbiamente questa diversità deriva dal fatto che così gli piace. Se è evidente che per volere di Dio la salvezza è offerta agli uni mentre gli altri ne sono esclusi, da ciò nascono grandi e gravi questioni che non si possono risolvere se non insegnando ai credenti il significato dell'elezione e della predestinazione di Dio.
Molti considerano la questione assai contorta, poiché non ammettono che Dio predestini gli uni alla salvezza e gli altri alla morte. Ma la trattazione del problema dimostrerà che la loro mancanza di buon senso e di discernimento li pone in una situazione inestricabile. Inoltre, nell'oscurità che li spaventa, vedremo quanto un tale insegnamento non solo sia utile, ma anche Non saremo misericordia di Dio, finche la sua elezione eterna non ci sia anch'essa chiara; poiché essa è come un termine di paragone per valutare la grazia di Dio, in quanto egli non adotta indifferentemente tutti nella speranza della salvezza, ma dà agli uni quel che nega agli altri. Ognuno è in grado di vedere quanto l'ignorare questa verità sminuisca la gloria di Dio, e quanto allontani dalla vera umiltà il non porre tutta la causa della nostra salvezza in Dio soltanto.
Essendo necessario saperlo, osserviamo bene quanto dice san Paolo: non si conosce veramente ciò che è necessario per la salvezza se non si comprende che Dio, senza riguardo ad alcuna opera, sceglie coloro che ha decretato in sé. "Il residuo "afferma "è stato salvato in questo tempo secondo l'elezione gratuita. Se è per grazia, non è più per opere, altrimenti grazia non sarebbe più grazia. Se è per opere non è più per grazia, altrimenti l'opera non è più opera " (Ro 11.5). Se è necessario essere ricondotti all'elezione di Dio per comprendere che non otteniamo la salvezza, se non per la pura liberalità di Dio, coloro che tentano di indebolire questo insegnamento oscurano, per quanto sta in loro, come degli ingrati, quel che doveva essere celebrato e magnificato incondizionatamente, sradicando ogni umiltà. San Paolo dichiara esplicitamente che quando la salvezza del residuo del popolo è riferita all'elezione gratuita di Dio, allora appare chiaramente che Dio salva secondo il suo volere quelli che gli pare; e non è per dare una ricompensa, che non può essere dovuta. Coloro che chiudono la porta affinché non ci si possa avvicinare per assaporare un tale insegnamento, fanno torto agli uomini e a Dio poiché nulla, all'infuori di questo punto, basterà ad umiliarci come si conviene e a farci sperimentare dovutamente quanto siamo debitori a Dio. Cristo ci attesta infatti che non troviamo.
Altrove né vera certezza né fiducia. Per renderci sicuri e liberarci dal timore, in mezzo a tanti pericoli, imboscate ed assalti mortali, per renderci, insomma, invincibili, promette che tutto quel che gli è stato affidato dal Padre non perirà (Gv. 10.28). Ne dobbiamo dedurre che tutti coloro che non si riconoscono appartenenti al popolo di Dio sono in afflizione, in quanto si dibattono in continua ansia; e tutti coloro che non si curano dei tre vantaggi che abbiamo citato, e vorrebbero rovesciare questa base, si preoccupano ben poco di quel che giova a loro e a tutti i credenti.

Inoltre, è di qui che la Chiesa trae origine; essa, come dice molto bene san Bernardo, non potrebbe esser reperita né conosciuta in mezzo alle creature, in quanto è nascosta in modo ammirevole in grembo alla beata predestinazione, e sotto la massa dell'infelice dannazione degli uomini.
Ma prima di proseguire nella trattazione di questo argomento, devo premettere alcune considerazioni per due categorie di persone.
Ancorché questa discussione sulla predestinazione sia di per se un po' oscura, essa è resa ancora più intricata ed incerta, anzi pericolosa, dal fatto che la mente umana non può frenarsi né limitarsi senza perdersi in grandi giri ed elevarsi troppo in alto, desiderosa, se le fosse possibile, di non lasciare a Dio nulla di segreto, di inesplorato o di non esaminato. Molti cadono in questa audacia e presunzione, anzi parecchi che per altri aspetti non sarebbero malvagi, li dobbiamo richiamare a come si devono comportare su questo punto.
Anzitutto, dunque, si ricordino che quando si informano sulla predestinazione, entrano nel santuario della sapienza divina, e se qualcuno vi si introduce e penetra con troppa confidenza
E con troppa disinvoltura, non vi troverà mai di che saziare la sua curiosità, ma si caccia in un labirinto da dove non riuscirà ad uscire. Infatti è assurdo che le cose le quali Dio ha voluto tener nascoste e di cui si è serbata la conoscenza, siano impunemente valutate dagli uomini, e che la profondità della sua sapienza, che ha voluto fosse da noi piuttosto adorata che capita (per rendersi oggetto di ammirazione in essa ) sia assoggettata alle possibilità di indagine dell'uomo, perché questi la esplori fin nei suoi decreti eterni. I segreti della sua volontà, che ha pensato fosse opportuno comunicarci, ce li ha manifestati nella sua parola e ha ritenuto opportuno farci conoscere tutto quel che ci concerne e ci giova
2. "Siamo giunti nella via della fede "dice sant'Agostino "atteniamoci costantemente ad essa; essa ci condurrà nelle dimore del re dei cieli, dove tutti i tesori di scienza e sapienza sono nascosti. Infatti il Signor Gesù non rifiuta di dare una spiegazione ai suoi discepoli, che aveva innalzato a così grande dignità, quando dice loro: "Ho molte cose da dirvi, che non sono ancora alla vostra portata " (Gv. 16.12). Dobbiamo camminare, dobbiamo progredire, dobbiamo crescere, affinché i nostri cuori siano capaci di ricevere le cose che non possiamo ancora comprendere. Se la morte ci coglie mentre cerchiamo di progredire, sapremo fuori da questo mondo quel che non abbiamo potuto sapere qui ". Se prende corpo in noi il pensiero che la parola di Dio e la via unica che ci conduce a cercare tutto quel che è lecito sapere di Dio, che è la sola luce, che ci illumina perché vediamo quel che è lecito vedere di lui, questo pensiero potrà trattenerci e preservarci con facilità da ogni audacia. Infatti sapremo che, se usciamo dai limiti della Scrittura, siamo fuori strada e camminiamo nelle tenebre, e non potremo dunque che errare, vacillare ed inciampare ad ogni passo.
Teniamo dunque presente soprattutto questo: il desiderare altra conoscenza della predestinazione, all'infuori di quella che ci è data nella parola di Dio, è follia non minore che se qualcuno volesse camminare su rocce inaccessibili o vedere nelle tenebre.
E non vergogniamoci di ignorare qualcosa su questo argomento, in questa materia l'ignoranza è più dotta del sapere.
Guardiamoci piuttosto dal desiderare una conoscenza la cui ricerca è pazzesca e pericolosa, anzi perfino dannosa. Se la curiosità della nostra mente ci spinge, teniamo sempre presente questa affermazione, per smorzarla: "Come non fa bene mangiare molto miele, così lo scrutare la maestà di Dio non si volgerà a gloria dei curiosi " (Pr 25.27). Tratteniamoci da questa arroganza vedendo che essa non può far altro che precipitarci in rovina.
3. Ma altri, volendo rimediare a questo male, quasi si sforzano di evitare ogni riferimento alla predestinazione; per lo meno invitano a non occuparsene, come di cosa pericolosa.
Sebbene una tal modestia sia lodevole, il volere cioè che ci si avvicini ai misteri di Dio con estrema sobrietà, tuttavia questo limitarsi eccessivamente non giova allo spirito degli uomini, poiché questi non si lasciano imbrigliare così facilmente. Perciò, per attenerci ad un giusto criterio, dobbiamo tornare alla parola di Dio, in cui troviamo il criterio di un retto intendimento. La Scrittura è la scuola dello Spirito Santo, ed essa non omette nulla di quanto è necessario e utile conoscere, così come insegna ciò di cui è opportuno aver conoscenza. Dobbiamo dunque guardarci dall'impedire ai credenti di informarsi su quel che la Scrittura contiene intorno alla predestinazione, affinché non paia loro che o li vogliamo frodare del bene che Dio ha loro comunicato, oppure che vogliamo accusare lo Spirito Santo, come se avesse reso pubbliche le cose che era bene tacere.
Permettiamo dunque al cristiano di aprire le orecchie e la mente a tutto l'insegnamento che gli è rivolto da parte di Dio, a condizione che conservi sempre quella misura per cui, quando vedrà la sacra bocca di Dio chiusa, rinunci anche ad indagare. Ottimo criterio di sobrietà è, imparando, seguire Dio che sta sempre dinanzi a noi; quando, al contrario, egli metterà un termine al suo insegnamento, smettiamo di voler capire più oltre.
Il pericolo temuto da quella brava gente di cui abbiamo parlato, non è così importante da doverci far smettere di prestare ascolto a Dio in tutto quel che dice. È importante l'affermazione di Salomone secondo cui la gloria di Dio consiste nel nascondere la Parola (Pr 25.2). Ma poiché la pietà ed il buon senso indicano che essa non dev'essere genericamente intesa per tutte le cose, dobbiamo fare qualche distinzione per evitare che, Cl. Pretesto della modestia e della sobrietà, ci gloriamo e compiacciamo in una ignoranza animalesca. Mosè ci esprime questa distinzione in poche parole: "Le cose occulte appartengono al nostro Dio, ma egli ha manifestato a noi ed ai nostri figli la sua legge ", (De 29.29). Vediamo in che modo egli esorta il popolo ad applicarsi all'insegnamento contenuto nella Legge, poiché è piaciuto a Dio rivelarla. Tuttavia egli trattiene quello stesso popolo nel quadro e nei limiti dell'insegnamento che gli è dato, per il semplice motivo che non è lecito agli uomini mortali penetrare nei segreti di Dio.
4. Riconosco che i malvagi ed i bestemmiatori trovano subito, nell'argomento della predestinazione, di che accusare, cavillare, abbaiare o farsi beffe. Ma se temessimo la loro arroganza, dovremmo tacere i punti principali della nostra fede, non uno dei quali è esente dalla contaminazione delle loro bestemmie. Uno spirito ribelle persevererà nella sua insolenza sentendo dire che in una sola essenza di Dio vi sono tre persone, oppure che Dio ha previsto, creando l'uomo, quel che gli doveva capitare. Parimenti quei malvagi non tratterranno le loro ris., Quando si dirà loro che il mondo è stato creato solo cinquemila anni fa, e chiederanno come mai la potenza di Dio è stata così a lungo in ozio.
Dovremmo forse, per evitare simili sacrilegi, smettere di parlare della divinità di Cristo e dello Spirito Santo? Dovremmo tacere intorno alla creazione del mondo? Al contrario, la verità di Dio è così potente, su questi e su altri punti, che non teme la maldicenza degli iniqui. Anche sant'Agostino lo indica molto chiaramente nel libretto che ha intitolato: Il dono della perseveranza. Infatti vediamo che i falsi apostoli, biasimando e diffamando l'insegnamento di san Paolo, non sono riusciti ad ottenere che egli se ne vergogni il fatto che alcuni pensino che tutta questa discussione è pericolosa anche fra i credenti, in quanto è contraria alle esortazioni, scuote la fede, turba i cuori e li abbatte, è un'affermazione frivola. Sant'Agostino non nasconde che lo si biasimava per questi stessi motivi, in quanto predicava troppo liberamente la predestinazione; ma egli ha confutato facilmente e sufficientemente queste obiezioni. In quanto a noi, poiché si obiettano molte e svariate assurdità contro la dottrina che insegneremo, val meglio differire la soluzione di ognuna di esse nell'ordine in cui si presenterà.
Per ora, desidero far capire a tutti che non dobbiamo cercare le cose che Dio ha voluto nascondere, e non dobbiamo trascurare quelle che egli ha manifestato, per paura che, da un lato, ci condanni per troppo gran curiosità e, dall'altro, per ingratitudine. È: ottima l'affermazione di sant'Agostino, che possiamo seguire la Scrittura con sicurezza poiché essa accondiscende alla nostra debolezza, come fa una madre Cl. Suo bambino quando vuole insegnargli a camminare.
Quanto a coloro che sono così timidi o circospetti che vorrebbero abolire interamente la predestinazione per non turbare le anime deboli, sotto quale veste, vi prego, maschereranno il loro orgoglio, visto che indirettamente accusano Dio di stolta sconsideratezza, come se non avesse previsto il pericolo al quale codesti insolenti pensano rimediare con saggezza?
Pertanto, chiunque rende odiosa la dottrina della predestinazione, denigra o sparla apertamente di Dio, come se si fosse inavvertitamente lasciato sfuggire quel che non può che nuocere alla Chiesa.
5. Chiunque vorrà considerarsi uomo timorato di Dio, non oserà negare la predestinazione, per mezzo della quale Dio ha assegnato gli uni a salvezza e gli altri a condanna eterna; molti, invece, la avvolgono in svariati cavilli, in particolare coloro che la vogliono fondare sulla sua prescienza.
Diciamo sì che egli prevede tutte le cose come le dispone; ma dire che Dio elegge o respinge in quanto prevede questo o quello, significa confondere tutto. Quando attribuiamo una prescienza a Dio, vogliamo dire che tutte le cose sono sempre state e rimangono eternamente comprese nel suo sguardo, tanto che nella sua conoscenza nulla è futuro o passato, ma ogni cosa gli è presente, e talmente presente che non l'immagina come attraverso qualche apparenza, così come le cose che abbiamo nella memoria per mezzo dell'immaginazione, ma le vede e guarda nella loro verità, come se fossero davanti al suo volto. Affermiamo che una tal prescienza si estende sul mondo intero e su tutte le creature.
Definiamo Infatti non li crea tutti nella medesima condizione, ma ordina gli uni a vita eterna, gli altri all'eterna condanna. Così in base al fine per il quale l'uomo è creato, diciamo che è predestinato alla vita o alla morte.
Ora Dio ha reso testimonianza della sua predestinazione non solo in ogni persona, ma in tutta la discendenza di Abramo, che ha posto come esempio del fatto che spetta a lui ordinare a suo piacimento quale deve essere la condizione di ogni popolo. "Quando il Sovrano divideva le nazioni "dice Mosè "e separava i figli di Adamo, ha scelto come sua porzione di eredità il popolo d'Israele " (De 32.8). L'elezione è evidente: nella persona di Abramo, come in un tronco completamente secco e morto, un popolo è scelto e separato dagli altri, i quali sono respinti. Non ne è rivelata la causa, ma Mosè abbatte ogni motivo di gloria indicando ai successori che tutta la loro dignità consiste nell'amore gratuito di Dio. Infatti dà questa spiegazione della loro redenzione: Dio ha amato i loro padri ed ha scelto la loro discendenza, dopo di loro (De 4.37).
Parla in modo più esplicito in un altro passo, dicendo: "Non perché eravate più numerosi degli altri popoli, Dio si è compiaciuto in voi per scegliervi, ma in quanto vi ha amati " (De 7.7). Questo avvertimento è da lui ripetuto varie volte: "Ecco, il cielo e la terra appartengono al Signore, al tuo Dio; tuttavia egli ha amato i tuoi padri, si è compiaciuto in loro, e ti ha scelto perché discendi da loro " (De 10.14). E altrove ordina loro di mantenersi puri in santità, poiché sono scelti quale popolo che gli appartiene in modo particolare. In un altro passo ancora, indica che Dio li protegge perché li ama (De 23.5). Anche i credenti lo riconoscono d'un cuor solo: "Egli ha scelto per noi la nostra eredità, la gloria di Giacobbe, da lui amato " (Sl. 47.5). Infatti attribuiscono a questo amore gratuito tutta la gloria di cui Dio li aveva dotati, non solo perché sapevano bene che questa non era stata procurata loro da alcun merito, ma che neanche il santo patriarca Giacobbe aveva avuto in se tale potenza da acquistare, per se e per i suoi successori, una così alta prerogativa. E per spezzare ed abbattere con maggior vigore ogni orgoglio, ricorda spesso ai Giudei che non hanno affatto meritato l'onore fatto loro da Dio, visto che sono un popolo dal collo duro e ribelle (De 9.6). Talvolta i Profeti si riferiscono all'elezione anche per far sì che gli Ebrei si vergognino del loro obbrobrio, essendo per la loro ingratitudine miseramente scaduti da essa.
Comunque, coloro che vogliono legare l'elezione di Dio alla dignità degli uomini o ai meriti delle loro opere, rispondano a questo: quando vedono che una sola stirpe è preferita a tutto il resto del mondo, e odono dalla bocca di Dio che egli non è stato mosso per alcun motivo ad essere più incline verso un gregge piccolo e disprezzato, poi malvagio e perverso, che verso gli altri, lo accuseranno perché gli è piaciuto stabilire un tale esempio della sua misericordia? Con tutti i loro mormorii ed opposizioni, non impediranno certo la sua opera; e gettando il loro dispetto contro il cielo a mo' di pietre, non colpiranno né feriranno in alcun modo la sua giustizia, ma tutto ricadrà sulla loro testa.
Il patto gratuito viene ricordato al popolo d'Israele quando è questione di render grazie a Dio o di confidare saldamente in lui per l'avvenire. "È lui "dice il Profeta "che ci ha fatti, non ci siamo fatti da soli; siamo il suo popolo e le pecore del suo pascolo " (Sl. 100.3). La negazione non è superflua, ma è aggiunta per escluderci, affinché non solo impariamo con confusione che Dio è autore di tutti i beni, che ci rendono eccellenti, ma anche che è stato indotto di per se a darceli, in quanto non avrebbe trovato in noi nulla che fosse degno di un tale onore. Indica loro anche altrove che devono tenersi nascosti all'ombra del volere di Dio, dicendo che sono il seme di Abramo, servitore di Dio, e i figli di Giacobbe, suo eletto (Sl. 105.6). E dopo aver narrato i continui benefici che avevano ricevuto come frutti della loro elezione, conclude che li ha trattati così generosamente perché si è ricordato del suo patto. A tale insegnamento risponde il cantico di tutta la Chiesa: "Signore, è la tua destra e la luce del tuo volto che hanno dato questa terra ai nostri padri, poiché li hai graditi ", (Sl. 44.4). Bisogna notare che il menzionare la terra è un pegno visibile del patto segreto di Dio, per mezzo del quale sono stati adottati. L'esortazione che Davide fa altrove tende allo stesso scopo: "Beato il popolo di cui l'Eterno è Dio, e la discendenza che egli si è scelta come eredità! " (Sl. 33.12). Samuele tende al secondo scopo dicendo: "Il vostro Dio non vi abbandonerà, a causa del suo grande nome, poiché gli è piaciuto crearvi come suo popolo " (1 Re 12.22). Davide dice lo stesso di se, poiché vedendo vacillare la sua fede, prende queste armi per resistere nella lotta: "Beato colui che tu hai scelto, Signore; egli abiterà nei tuoi cortili " (Sl. 65.5).
Poiché l'elezione, altrimenti nascosta in Dio, è stata già ratificata nella prima e nella seconda liberazione dei Giudei, e in altri benefici, il termine "eleggere "viene talvolta applicato a queste chiare testimonianze, che tuttavia sono al disotto dell'elezione. Come in Isaia: "Dio avrà pietà di Giacobbe, e sceglierà ancora Israele " (Is. 14.1). Parlando del tempo futuro dice che Dio raccoglierà il residuo del suo popolo, che aveva come diseredato, e questo sarà un segno che la sua elezione rimarrà sempre ferma e stabile, sebbene sembrasse scaduta. E dicendo altrove: "Ti ho scelto e non ti ho respinto " (Is. 41.9) , magnifica il corso continuo del suo amore paterno in tanti benefici che ne erano testimonianza. L'angelo parla ancora più chiaramente in Zaccaria: "Sceglierò ancora Gerusalemme " (Za. 2.12) come se castigandola con tanto rigore l'avesse respinta, o se la cattività avesse interrotto l'elezione del popolo, la quale invece è inviolabile, anche se i segni non ne sono sempre visibili.
6. Menzioniamo ora un secondo grado di elezione, meno esteso in larghezza, per mettere in maggior evidenza la grazia particolare di Dio; della discendenza di Abramo, Dio ne ha ripudiati alcuni, e da quella stessa ha mantenuto gli altri nella sua Chiesa, per indicare che li considerava suoi.
Inizialmente, Ismaele era pari a suo fratello Isacco, visto che il patto spirituale era stato impresso anche nel suo corpo, mediante il simbolo della circoncisione. Ismaele è tagliato fuori, poi Esaù, infine una innumerevole moltitudine e quasi tutte le dieci tribù d'Israele. La posterità è stata suscitata in Isacco; la stessa vocazione è perdurata in Giacobbe. Dio ha dato un esempio analogo riprovando Saul. Ciò è magnificato anche nel Salmo, quando è detto che Dio ha respinto la discendenza di Giuseppe, non ha eletto la discendenza di Efraim, ma ha scelto la discendenza di Giuda (Sl. 78.67.68). Questo è ripetuto varie volte nella storia sacra, per far meglio conoscere, in tale cambiamento, il segreto ammirevole della grazia di Dio.
Affermo che Ismaele, Esaù ed i loro simili sono scaduti dalla loro adozione per loro peccato e colpa, in quanto era apposta la condizione che per parte loro conservassero fedelmente l'alleanza di Dio, che hanno invece slealmente violata; tuttavia il beneficio particolare di Dio è consistito nel fatto che egli ha degnato preferirli al resto del mondo, come è detto nel Salmo. Egli infatti non ha agito così verso tutte le nazioni, e non ha manifestato loro le sue decisioni (Sl. 147.20).

Qui sottolineare due gradi. Già nell'elezione di tutto il popolo d'Israele, Dio non è costretto da alcuna legge ma si vale unicamente della sua liberalità, tant'è vero che volerlo costringere a valersene in ugual misura verso tutti, significa usurpare la sua iniziativa, poiché l'ineguaglianza dimostra che la sua bontà è veramente gratuita. Perciò Malachia, volendo render più grave l'ingratitudine dei figli di Israele, rimprovera loro che non solo sono stati scelti fra tutto il genere umano, ma essendo membri della sacra casa di Abramo, sono stati ancora scelti a parte, e tuttavia hanno vilmente disprezzato Dio, che era per loro un padre così generoso. "Esaù "dice "non era forse fratello di Giacobbe? Orbene, ho amato Giacobbe, e odiato Esaù " (Ma.1.2.3). In quel passo, Dio dà per certo che, benché i due fratelli fossero stati generati da Isacco e fossero di conseguenza eredi del patto celeste, rami, insomma, della santa radice, già in quello i figli di Giacobbe gli erano tanto e più obbligati, essendo innalzati ad una tal dignità; ma poiché respingendo Esaù, il primogenito, aveva fatto di Giacobbe loro padre il solo erede sebbene gli fosse inferiore secondo l'ordine di natura, li condanna di una duplice ingratitudine, lamentando che non hanno potuto rimanergli sottomessi, malgrado questi due legami.
7. Sebbene abbiamo già affermato abbastanza chiaramente che Dio sceglie per sua libera decisione coloro che ritiene opportuno, escludendo gli altri; tuttavia la sua scelta gratuita sarebbe esposta solo a metà, se non si considerassero gli individui singoli a cui Dio non solo offre la salvezza, ma dà anche una certezza tale, per cui la realtà non può essere incerta né dubbia. Costoro sono considerati parte dell'unica progenie di cui san Paolo fa menzione (Ro 9.8). Benché l'adozione sia stata affidata ad Abramo come in deposito, per lui e per i suoi posteri, tuttavia, poiché molti dei suoi discendenti sono stati tagliati via come membra putrefatte, per avere piena certezza dell'elezione è richiesto di risalire al Capo, per mezzo del quale il Padre celeste ha congiunto a se i suoi eletti, unendoli con un nodo indissolubile.
Così nella adozione della discendenza di Abramo è apparso chiaramente il favore generoso di Dio, che egli ha negato a tutti gli altri; ma la grazia accordata ai membri di Gesù Cristo ha ben altra preminenza di dignità, poiché essendo uniti al loro capo, non sono mai tagliati fuori dalla loro salvezza. San Paolo deduce dunque con prudenza dal passo citato di Malachia che Dio, conducendo a se un certo popolo e promettendogli la vita eterna, sceglie in modo ancora più speciale una parte di esso cosicché, di fatto, non tutti sono eletti con una grazia eguale. Le parole "ho amato Giacobbe "riguardano tutta la discendenza del patriarca, che Malachia oppone ai figli e discendenti di Esaù; ma ciò non impedisce che Dio, nella persona di un uomo, ci abbia proposto un esempio di elezione che comporta la pienezza del suo effetto. San Paolo, non senza motivo, osserva che coloro che appartengono al corpo di Gesù Cristo sono chiamati residuo, poiché l'esperienza insegna che dalla grande moltitudine che si chiama Chiesa, parecchi si allontanano e scompaiono, tant'è vero che ne rimane soltanto una piccola parte.
Se si chiede perché l'elezione generale del popolo non è sempre stabile né effettiva, la ragione è chiara: Dio non dà lo Spirito di rigenerazione a tutti coloro ai quali offre la sua Parola come strumento di alleanza con lui. Pertanto, benché istradati esteriormente, non hanno la forza di perseverare fino alla fine. Questa vocazione esterna, senza l'efficacia segreta dello Spirito Santo, è dunque come una grazia intermedia fra la reiezione del genere umano e l'elezione dei credenti, che sono veramente figli di Dio. L'intero popolo di Israele è stato chiamato "eredità di Dio "e tuttavia ce ne furono molti di estranei. Dio non aveva promesso invano di essere loro padre e redentore e ha considerato, dando loro questo appellativo, più il suo favore gratuito che la vile slealtà degli apostati, che si rivoltano senza però abolire la sua verità; conservandosi un qualche residuo, ha infatti dimostrato che la sua scelta è senza pentimento. Raccogliendo la sua Chiesa fra i figli di Abramo, anziché fra le nazioni profane, non ha dimenticato il suo patto. E benché l'abbia ristretto a poche persone, poiché la maggior parte non sapeva riceverlo a causa della sua incredulità, egli ha provveduto a che non venisse meno.
In breve, l'adozione di tutta la discendenza di Abramo è stata come una immagine visibile di un bene più grande ed eccelso, proprio e caratteristico dei veri eletti. Questo il motivo per il quale san Paolo distingue con tanta cura coloro che, secondo la carne, sono figli di Abramo, da coloro che lo sono secondo lo Spirito e che sono stati chiamati sull'esempio di Isacco. Non che l'esser figli di Abramo sia stata cosa vana ed inutile (e non lo si può affermare senza fare ingiuria al patto di salvezza di cui erano eredi quanto alla promessa ) , ma la decisione immutabile di Dio, in base alla quale egli predestina chi gli pare, ha messo in atto la sua potenza per la salvezza di coloro che sono chiamati spirituali.
Ora prego ed esorto i lettori a non preoccuparsi dell'una o dell'altra opinione finché, udite le testimonianze della Scrittura che produrrò, conoscano quel che ne dovranno pensare.
Affermiamo dunque, come dimostra chiaramente la Scrittura, che Dio ha inizialmente dato, con la sua decisione eterna e immutabile, quali voleva scegliere a salvezza e quali voleva votare alla perdizione.
Affermiamo che una tal determinazione, quanto agli eletti, e fondata sulla sua misericordia senza alcun riguardo alla dignità umana; che, al contrario, l'entrata nella vita è preclusa a tutti coloro che vuole condannare; ciò avviene secondo il giudizio occulto ed incomprensibile, ma giusto.
Insegniamo inoltre che la chiamata degli eletti è come un indice e una testimonianza della loro elezione. Parimenti, che la loro giustificazione ne è un altro segno, fino a che giungeranno alla gloria in cui risiede il compimento di questa chiamata. Ora, come il Signore mette un segno su coloro che ha scelti, chiamandoli e giustificandoli, al contrario, privando i reprobi della conoscenza della sua Parola o della santificazione data dal suo Spirito, indica in tal modo quale sarà la loro fine e qual giudizio è loro preparato.
Tralascerò qui parecchie fantasticherie che molti pazzi hanno elaborato per contestare la predestinazione; mi limiterò a considerare i problemi che sono dibattuti fra i dotti, o che possono far nascere qualche scrupolo fra i semplici, oppure che hanno qualche parvenza per far credere che Dio non sia giusto, se le cose stanno come affermiamo.
CAPITOLO 22
TESTIMONIANZE DELLA SCRITTURA CHE CONFERMANO QUESTA DOTTRINA
1. Le cose dette sin qui, e soprattutto l'elezione gratuita dei credenti, sono contestate da molti. Infatti pensano che Dio scelga fra gli uomini questo o quello, in base alla previsione dei meriti di ognuno. Perciò egli adotterebbe coloro che prevede non saranno indegni della sua grazia, lasciando coloro che sa essere, inclini alla cattiveria e all'empietà nella loro condanna. Orbene, tali persone rendono la prescienza di Dio simile ad un velo che non solo oscura la sua elezione, ma fa credere che essa tragga altrove la sua origine. È un'opinione comunemente diffusa, non solo in mezzo al popolo ma anche fra coloro che si ritengono molto dotti; in ogni tempo ci sono state persone famose che l'hanno seguita. E lo riconosco apertamente affinché non si creda, citando il loro nome, di aver tratto un gran vantaggio contro la verità, che su questo punto è così certa, da non poter essere oscurata dall'autorità degli uomini.
Altri, privi di conoscenza scritturale, non sono degni di credito né considerazione alcuna; sono però tanto più arditi e temerari nel diffamare un insegnamento che è loro sconosciuto: perciò non v'è ragione di sopportare la loro arroganza. Costoro intentano un processo a Dio per il fatto che, eleggendo gli uni secondo la sua volontà, lascia da parte gli altri. Ma poiché è noto che la cosa sta in questi termini, che cosa guadagneranno a biasimare e a mormorare contro Dio? Non diciamo nulla che non sia provato dall'esperienza: Dio è sempre stato libero di far grazia a chi gli pareva.
Non chiederò loro come e perché la stirpe di Abramo è stata preferita fra tutte le nazioni, benché sia chiaro che ciò è avvenuto per un privilegio la cui motivazione risiede in Dio solo. Ma lasciando questo, mi dicano perché essi stessi sono uomini anziché buoi o asini; infatti, benché fosse nel potere di Dio di crearli cani, li ha invece formati a sua immagine. Concederanno forse agli animali il diritto di lamentarsi della loro condizione, accusando Dio come se si fosse comportato crudelmente verso di loro? Certo, il motivo per cui godono di una prerogativa ottenuta senza alcun merito, di essere cioè degli uomini, non differisce dal fatto che è permesso a Dio di distribuire in modo diverso i suoi doni, secondo il metro del suo giudizio.
In quanto alle persone, la cui ineguaglianza dispiace loro maggiormente, dovranno per lo meno tremare quando sarà messo loro innanzi l'esempio di Gesù Cristo e frenarsi un po', per non cianciare in modo così ardito di quel grande mistero. Si tratta di un uomo mortale concepito dal seme di Davide; per quali virtù diranno che abbia meritato, fin dal ventre della vergine, sua madre, di essere capo degli angeli, figlio unico di Dio, immagine e gloria del Padre, luce, giustizia e salvezza del mondo? Sant'Agostino ha considerato con saggezza un tal mistero: nel capo della Chiesa abbiamo un chiaro esempio dell'elezione gratuita, affinché essa non ci sembri strana nelle membra; il Signor Gesù non è stato fatto figlio di Dio vivendo con rettitudine, ma un tale onore gli è stato dato perché rendesse partecipi gli altri dei suoi doni. Se uno chiedesse perché gli altri non sono quello che egli è, perché una così lunga distanza ci separa da lui, perché siamo corrotti mentre lui è puro, rivelerebbe, con quelle domande, la sua demenza e la sua spudoratezza. Se quelle canaglie continuano a voler togliere a Dio la libertà di scegliere o di respingere chi gli piace, comincino a privare Gesù Cristo di quel che gli è stato dato.
Ora è necessario ascoltare con attenzione quanto la Scrittura dice di ognuno. Certo san Paolo, insegnando che siamo stati eletti in Cristo prima della creazione del mondo (Ef. 1.4) , toglie ogni riguardo alla nostra dignità, poiché è come se dicesse: dato che in tutta la discendenza di Adamo il Padre celeste non trovava nulla che fosse degno della sua elezione, ha rivolto gli occhi verso il suo Cristo, per eleggere quali membra del suo corpo coloro che voleva accogliere nella vita. Sia dunque chiaro ai credenti che Dio ci ha adottati in Cristo affinché fossimo suoi eredi, poiché non eravamo capaci da per noi stessi di eccellere tanto. San Paolo lo sottolinea pure in un altro passo, quando esorta i Colossesi a render grazie a Dio del fatto che egli li aveva resi atti a partecipare all'eredità dei santi (Cl. 1.12). Se l'elezione di Dio precede la grazia per mezzo della quale ci rende atti ad ottenere la gloria della vita futura, che cosa troverà in noi che lo spinga ad eleggerci?
Quanto intendo dire sarà espresso meglio ancora da un'altra affermazione: "Dio ci ha scelti "dice "prima di gettare le fondamenta del mondo, secondo quanto piaceva alla sua volontà, affinché fossimo santi, immacolati ed irreprensibili al suo cospetto " (Ef. 1.4). Egli contrappone quel che piace a Dio a tutti i meriti possibili.
2. Perché la prova sia più certa, è opportuno discutere più dettagliatamente questo passo, i cui elementi, ben raccolti, non lasciano dubbi.
Parlando degli eletti, è certo che egli rivolge le sue parole ai credenti, come dichiara subito dopo. Perciò coloro che interpretano questa affermazione, nel senso che san Paolo magnificherebbe la grazia fatta in generale al secolo in cui l'Evangelo è stato predicato, ne distorcono il senso con un'esegesi grossolana.
Inoltre, dicendo che i credenti sono stati scelti prima della creazione del mondo, san Paolo stronca ogni considerazione di dignità. Infatti, quale motivo di diversità ci sarebbe in coloro che non erano ancora nati, e che per nascita dovevano essere simili in Adamo?
Aggiunge che sono stati eletti in Cristo; di conseguenza ciascuno è eletto al di fuori di se stesso, e gli uni sono separati dagli altri: è chiaro infatti che non tutti sono membra di Gesù Cristo.
Il seguito del passo, cioè che sono stati eletti per essere santi, abbatte l'errore cui abbiamo accennato: che l'elezione derivi dalla prescienza. Queste parole lo contraddicono esplicitamente, sottolineando che tutto quel che vi è di bene e di buono negli uomini, è frutto ed effetto dell'elezione.
Se si cerca qualche causa più profonda del perché sono eletti gli uni anziché gli altri, san Paolo risponde che Dio li ha predestinati a suo piacimento. Con queste parole annulla tutti i mezzi che ogni uomo pensa aver avuto in se per essere eletto; infatti dichiara che tutti i beni che Dio ci concede per la vita spirituale sgorgano da questa sola fonte: egli ha scelto quelli che ha voluto e, prima che fossero nati, ha preparato e riservato la grazia che voleva dare loro.
3. Laddove regna questo volere di Dio, nessuna opera è presa in considerazione. È: vero che non lo afferma nel passo citato, ma bisogna comprendere il paragone come lo spiega altrove. "Ci ha chiamati "dice "nella sua santa vocazione, non secondo le nostre opere ma secondo il suo volere e la sua grazia, che ci è stata data in Cristo da ogni eternità " (2Ti 1.9). Ho già detto che le parole che seguono: affinché fossimo santi ed immacolati ci liberano da ogni scrupolo. Poiché se diciamo che ci ha scelti in quanto prevedeva che saremmo santi, rovesciamo l'ordine di san Paolo.
Possiamo dunque affermare con certezza che ci ha eletti affinché fossimo santi, non in quanto prevedeva che dovessimo esser tali; infatti sono cose opposte, che i credenti abbiano la loro santità dall'elezione e che per questa santità siano stati eletti.
Il cavillo a cui ricorrono sempre, qui non vale: se Dio non retribuisce i meriti che precedono la grazia dell'elezione, tuttavia la conferisce per i meriti futuri. Non vale perché quando è detto che i credenti sono stati eletti affinché fossero santi, ciò implica che tutta la loro santità inizia dall'elezione. E come sarà possibile che quanto è prodotto dall'elezione ne sia la causa? L'Apostolo conferma inoltre quel che aveva detto, aggiungendo che Dio ci ha eletti secondo il decreto della sua volontà, che aveva determinato in se stesso (Ef. 1.5). È come se dicesse che non ha preso in considerazione nulla all'infuori di se stesso, nulla a cui abbia avuto riguardo nel prendere una tal decisione. Subito dopo aggiunge che il centro della nostra elezione deve tendere allo scopo di lodare la grazia di Dio (Ef. 1.6). Certo, la grazia di Dio non meriterebbe di essere lei sola esaltata nella nostra elezione, se questa elezione non fosse gratuita. Orbene essa non è gratuita se Dio, eleggendo i suoi, considera quali saranno le opere di ciascuno.
Ciò che Cristo diceva ai suoi discepoli vale per tutti i credenti: "Non mi avete scelti voi, ma io vi ho scelti " (Gv. 15.16). E con questo non solo esclude tutti i meriti precedenti, ma intende dire che non avevano nulla in se per essere eletti, se non il fatto che li ha prevenuti con la sua misericordia. In questo senso bisogna intendere anche l'affermazione di san Paolo: "Chi gli ha dato per il primo, e gli sarà contraccambiato? " (Ro 11.35). Vuole infatti indicare che la bontà di Dio previene gli uomini, senza trovare nulla in loro, né per il passato né per il futuro, da cui possa essere condizionata.
4. Inoltre, nell'epistola ai Romani, dove esamina più a fondo questo argomento, afferma che non tutti coloro che sono nati i da Israele sono Israeliti (Ro 9.6). Infatti, benché fossero tutti benedetti per diritto ereditario, non tutti sono giunti in egual misura alla successione.
La polemica che egli qui conduce proveniva dall'orgoglio e dalla millanteria del popolo ebraico; attribuendosi il nome di Chiesa, volevano che ci si fermasse a loro, e che non si credesse all'evangelo se non Cl. Loro consenso. Oggi ancora, i papisti si sostituirebbero volentieri a Dio, protetti da quell'ombra del nome di Chiesa, dietro cui si nascondono.
San Paolo, sebbene ammetta che la stirpe di Abramo è santa a causa del Patto, sostiene tuttavia che molti sono estranei ad esso, non solo in quanto si sono imbastarditi rispetto ai loro padri ma perché l'elezione particolare di Dio è al di sopra, e lei sola ratifica l'adozione. Se gli uni fossero ammessi alla speranza della salvezza per la loro pietà, e gli altri ne fossero respinti per la loro sola ingratitudine e rivolta, san Paolo si esprimerebbe impropriamente e stoltamente con l'indirizzare i lettori all'elezione segreta, che non giungerebbe a proposito. Ma se la volontà di Dio, la cui causa non è visibile all'infuori di lui, e che non è lecito cercare altrove, distingue gli uni dagli altri i figli di Israele, è assurdo immaginare che la condizione di ognuno tragga origine da quel che hanno in loro stessi.
San Paolo prosegue facendo l'esempio di Esaù e di Giacobbe. Benché fossero entrambi discendenti di Abramo, ed in quel tempo rinchiusi nel ventre della loro madre, il trasferire a Giacobbe l'onore della primogenitura è stato un cambiamento quasi prodigioso, da cui, afferma san Paolo, è stata attestata l'elezione dell'uno e la riprovazione dell'altro.
Quando si cerca l'origine e la causa di questa decisione, gli esperti di prescienza la vedono nei vizi e nelle virtù: infatti ritengono sia per loro un buon espediente l'affermare che Dio ha fatto vedere, nella persona di Giacobbe, che elegge coloro che sono degni della sua grazia e, nella persona di Esaù, che respinge quanti ne sono indegni. Ecco quel che asserisce quella gente ardita e sicura.
Consideriamo invece quel che dice san Paolo: "Prima che fossero nati, e che avessero compiuto alcunché di bene o di male, onde rimanesse fermo il proponimento dell'elezione di Dio che dipende non dalle opere ma dalla volontà di colui che chiama, fu detto: il maggiore servirà al minore; poiché è scritto: ho amato Giacobbe, ho odiato Esaù " (Ro 9.2.13). Se la prescienza servisse a qualcosa per distinguerli fra loro, a che scopo sarebbe fatta menzione del tempo? Poniamo il caso che Giacobbe sia stato eletto in quanto una tal dignità gli è stata acquisita dalle sue virtù future, che motivo avrebbe avuto san Paolo di dire che non era ancora nato? Anche l'aggiunta che né l'uno né l'altro avevano agito in bene o in male sarebbe fuori luogo, poiché la risposta sarebbe a portata di mano; che nulla è nascosto a Dio e che la pietà di Giacobbe gli è stata sempre presente. Se le opere meritano ricompensa, è certo che Dio le apprezza prima della nascita come nella vecchiaia.
Ma l'Apostolo, proseguendo, scioglie benissimo questo nodo: Riguardo a e opere, non mischia né il passato né il futuro; e opponendole in modo preciso alla vocazione di Dio, è chiaro che con l'una distrugge le altre, come se dicesse: dobbiamo considerare quale è stata la libera volontà di Dio, non quello che gli uomini hanno portato da per se stessi. Infine, è certo che con i termini "elezione "e "piano, "ha voluto respingere, su questo punto, tutte le cause che gli uomini si creano all'infuori del volere segreto di Dio.
5. Che pretesto prenderanno, per oscurare queste parole, coloro che danno qualche importanza alle opere precedenti o future, in riferimento alla nostra elezione? Significa capovolgere completamente l'affermazione dell'apostolo, secondo cui la differenza fra i due fratelli non dipende affatto dalle loro opere ma dalla pura vocazione di Dio, poiché Dio ha deciso quel che ne doveva fare prima che nascessero. La sottigliezza di cui si valgono i sofisti non sarebbe sfuggita a san Paolo, se avesse avuto qualche fondamento. Ma, che consiste nel causa ed origine. Molte parole dell'apostolo ci dicono che la salvezza dei credenti è fondata sulla libera decisione dell'elezione di Dio, e che un tal favore non è loro procurato da alcuna opera, ma deriva loro dalla sua bontà gratuita. Abbiamo anche uno specchio o un dipinto, per raffigurarci questo, in Esaù e Giacobbe: sono fratelli gemelli generati dagli stessi genitori. Quando erano ancora nel ventre della loro madre, prima di nascere, ogni cosa era simile in loro; tuttavia il giudizio di Dio li distingue, poiché ne sceglie uno e respinge l'altro. C'era solo la primogenitura a far sì che l'uno fosse preferito all'altro; ma anche quella è tralasciata e viene dato all'ultimo quel che è negato al primo.

Anche in molti altri sembra che Dio abbia deliberatamente vilipeso la primogenitura, onde togliere alla carne ogni motivo di gloria. Respingendo Ismaele, dà il suo cuore a Isacco; abbassando Manasse, preferisce Efraim (Ge 48.20).
6. Se qualcuno controbatte che non bisogna decidere della vita eterna con simili argomenti inferiori e di poco peso, e che è una beffa dedurre che colui che è stato esaltato dall'onore della primogenitura sia stato accolto nell'eredità celeste (come molti che non risparmiano neanche san Paolo, dicendo che ha abusato delle testimonianze della Scrittura applicandole a questo argomento ) , rispondo, come già ho fatto, che l'Apostolo non ha parlato in modo sconsiderato né ha voluto distorcere le testimonianze della Scrittura. Ma vedeva ciò che quella gente non può capire: che Dio ha voluto, mediante un segno corporeo, render palese l'elezione spirituale di Giacobbe, che altrimenti sarebbe rimasta nascosta nel suo piano segreto. Infatti, se non riferiamo alla vita futura la primogenitura che è stata data a Giacobbe, la benedizione che egli ricevette sarebbe alquanto ridicola, visto che non ne ha ricavato altro che miseria e calamità, ed è stato cacciato dal paese di nascita ed ha sofferto grande angoscia. San Paolo dunque, vedendo che quella benedizione esteriore di Dio ne attestava una permanente e non caduca, preparata nel regno dei cieli per il suo servitore, non ha esitato a considerare la primogenitura ricevuta da Giacobbe come prova dell'elezione di Dio. Dobbiamo altresì ricordare che la terra di Canaan è stata un pegno dell'eredità celeste. Non dobbiamo dunque dubitare che Giacobbe sia stato incorporato in Gesù Cristo, per essere compagno degli angeli in una medesima vita. Giacobbe dunque è eletto ed Esaù respinto: essi sono discriminati dall'elezione di Dio, quantunque non differiscano riguardo ai meriti.
Se se ne chiede il motivo, san Paolo lo spiega con quanto è stato detto a Mosè: "Avrò pietà di colui di cui avrò pietà, e farò misericordia a colui al quale farò misericordia " (Ro 9.15). E che cosa significa ciò? Certo, il Signore afferma chiaramente che non trova in noi alcun motivo che lo spinga a farci del bene; ma che trae tutto dalla sua misericordia, poiché la salvezza dei suoi è opera sua. Se Dio collocala salvezza che ci dà soltanto in se stesso, perché scenderesti fino a te? E se indica la sua sola misericordia come causa di tutto, perché ti volgeresti verso i tuoi meriti? Se vuol fissare tutto il tuo pensiero nella sua sola bontà, perché lo volgerai in parte a considerare le tue opere?
Perciò bisogna giungere a quella piccola frazione del popolo, della quale san Paolo dice in un altro passo che è stata preconosciuta da Dio (Ro 11.2); non già come immaginano quegli imbroglioni, che Dio prevede pur rimanendo ozioso e senza immischiarsi di nulla: ma nel senso in cui questo termine è spesso utilizzato nella Scrittura. Infatti quando san Pietro dice, negli Atti, che Gesù Cristo è stato mandato a morte per il Dio (At. 2.23) non parla di Dio come di uno che se ne sta fantasticando in ozio, ma come autore della nostra salvezza Ne consegue che la sua prescienza implica un impegno. Lo stesso apostolo, dicendo che i credenti, ai quali scrive, sono eletti da Dio secondo la sua prescienza (1 Pi. 1.2) , esprime con questo termine la predestinazione per mezzo della quale Dio si è scelti i figli che ha voluto. Aggiungendo il termine "proponimento "come sinonimo, non c'è dubbio che egli voglia dire che Dio non cerca fuori di se la causa della nostra salvezza, visto che questo termine esprime una decisione certa. Nello stesso senso afferma, in quel capitolo, che Gesù Cristo è l'agnello che è stato preconosciuto prima della creazione del mondo (1 Pi. 1.19); nulla infatti sarebbe più insipido o più freddo dell'affermare che Dio si è limitato a guardare dall'alto, da dove la salvezza doveva giungere al genere umano. Pertanto il popolo preconosciuto equivale ad una piccola porzione, mescolata ad un gran numero di gente che si fregia a torto del nome di Dio.
Anche san Paolo, in un altro passo, per annullare il vanto di coloro che si ricoprono del titolo esteriore, come di una maschera, per usurpare un posto onorevole nella Chiesa, dice che Dio conosce i suoi (2Ti 2.19). Con questa espressione egli indica due popoli: uno è rappresentato da tutta la discendenza di Abramo, l'altro, dalla parte che ne è estratta, e che Dio si riserva come un tesoro nascosto, tanto che essa non è esposta alla vista degli uomini. E senza dubbio egli ha preso questo da Mosè, il quale afferma che Dio farà misericordia a chi vorrà, anche in mezzo al popolo eletto, quantunque la loro condizione sia apparentemente uguale. È come se dicesse che, malgrado l'adozione sia comune a tutto il popolo, tuttavia Dio si è riservato una grazia particolare come tesoro singolare verso coloro a cui gli piace darla, e che il patto comune non impedisce che egli tragga dalla schiera comune un piccolo numero di eletti. E volendosi proclamare signore e dispensatore in tutta libertà, afferma precis.mente che non farà misericordia a questo piuttosto che a quello, se non in quanto gli piacerà agire così. Se la misericordia si presenta solo a coloro che la cercano, è vero che essi non ne sono respinti, ma prevengono o acquistano in parte il favore di cui Dio si riserva la lode.
7. Ascoltiamo ora quel che, su tutta la questione, afferma il maestro e giudice sovrano. Vedendo una così grande insensibilità nei suoi uditori, che ostacolava il suo insegnamento, rendendolo quasi inutile, per rimediare allo scandalo che i deboli nella fede avrebbero potuto riceverne, esclama: "Tutto quel che il Padre mi affida verrà a me; infatti la volontà del Padre è che io non perda nulla di tutto quel che mi avrà dato " (Gv. 6.37). Notate bene che il nostro essere affidati alla protezione del nostro Signor Gesù deriva dal dono del Padre, e questo è il punto di partenza.
Qualcuno forse rovescerà la situazione, replicando che Dio riconosce nel numero dei suoi coloro che si danno a lui di buon grado, per fede. Ma Gesù Cristo insiste su questo punto soltanto: che cioè quando tutto il mondo fosse scosso da infinite rivolte, la decisione di Dio riguardo all'elezione rimane stabile, anzi più stabile dei cieli. È detto che gli eletti appartenevano al Padre celeste prima che questi li desse al suo unico figlio. Bisogna sapere se ciò accade per natura. Al contrario, egli rende suoi sudditi coloro che gli erano estranei, attirandoli a sé. Le parole che seguono sono troppo chiare per poterle travisare, tergiversando in qualche modo: "Nessuno "dice "può venire a me se il Padre non ve lo attira; ma colui che ha udito il Padre e imparato da lui, viene a me " (Gv. 6.44). Se tutti piegassero indifferentemente il ginocchio dinanzi a Gesù Cristo, l'elezione sarebbe comune; ma si manifesta una gran diversità nel piccolo numero dei credenti.
Perciò Gesù Cristo stesso, dopo aver detto che i discepoli che gli sono stati dati sono possesso di suo Padre, aggiunge poco oltre: "Io non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dati, poiché sono tuoi " (Gv. 17.6.9). Da questo deriva che non tutto il mondo appartiene al suo Creatore, se non nella misura in cui la grazia allontana dalla maledizione e dall'ira di Dio un piccolo nucleo di persone che altrimenti sarebbe perito, e lascia il mondo nella perdizione a cui è destinato. Del resto, per quanto Cristo si metta come in mezzo fra il Padre e noi, continua ad attribuirsi anche il diritto di eleggere in comune Cl. Padre: "Non parlo di tutti "dice "so quali ho eletto" (Gv. 13.18). Se si vuol sapere da dove li ha scelti, risponde: "Dal mondo " (Gv. 15.19) , che esclude dalle sue preghiere quando raccomanda al Padre i suoi discepoli. Notiamo tuttavia che dicendo di conoscere quelli che ha scelto, delimita una parte del genere umano, e non la distingue dagli altri in base alle virtù che avrebbero in loro, ma in quanto è messa a parte da un decreto celeste; ne deriva che tutti gli eletti, di cui Gesù Cristo si fa autore, non eccellono al disopra degli altri per loro iniziativa.
Quando, in un altro passo, mette Giuda nel numero degli eletti (Gv. 6.70) malgrado fosse un figlio di perdizione, si riferisce soltanto all'ufficio di apostolo; e benché un simile ufficio sia come uno specchio del favore di Dio, come san Paolo lo riconosce spesso nella sua persona, non porta con se la speranza della salvezza eterna. Giuda, dunque, comportandosi slealmente nella sua carica, ha potuto essere peggio di un diavolo; o, non permetterà che (Gv. 10.28) , -visto che per attuare la loro salvezza spiegherà la potenza di Dio, che, secondo la promessa, è più forte di ogni cosa. Quanto a quel che dice altrove: "Padre, nulla di quel che tu mi hai dato è perito, se non il figlio di perdizione " (Gv. 17.12) , sebbene sia un'espressione impropria, non contiene alcuna ambiguità.
Il punto centrale è che Dio crea per adozione gratuita coloro che vuole avere come figli; e che la causa intrinseca, come si suol dire, dell'elezione, risiede in lui, visto che prende in considerazione soltanto quanto gli piace.
8. Ma qualcuno mi obietterà che sant'Ambrogio, Girolamo, Origene, hanno scritto che Dio distribuisce la sua grazia fra gli uomini nella misura in cui sa che ciascuno ne farà buon uso. Aggiungerò, anzi, che sant'Agostino è stato dello stesso parere; ma dopo aver meglio approfondito la conoscenza della Scrittura, non solo ritratta una tale opinione come falsa, ma la confuta con fermezza. Rimproverando i Pelagiani che persistevano in questo errore, dice testualmente: Chi non si meraviglierebbe che sì grande intelligenza sia mancata all'apostolo? "Poiché, avendo messo avanti il caso, molto strano, concernente Esaù e Giacobbe, ed essendosi chiesto: "C'è forse iniquità in Dio? "Avrebbe dovuto rispondere che Dio aveva previsto i meriti dell'uno e dell'altro, se avesse voluto cavarsela rapidamente. Invece non fa una affermazione del genere, ma riferisce tutto al giudizio e alla misericordia di Dio". E in un altro passo, dopo aver affermato che l'uomo non ha alcun merito dinanzi all'elezione, dice: "l'argomento della prescienza di Dio, che alcuni mettono avanti contro la sua grazia, è qui abbattuto come inconsistente. Affermano che siamo eletti prima della creazione del mondo, poiché Dio ha previsto che saremmo buoni, e non che ci farebbe tali. Ma egli non afferma questo, quando dice: "Non mi avete scelto, ma io ho scelto voi " (Gv. 15.16; infatti se ci avesse scelti in quanto prevedeva che saremmo buoni, avrebbe anche previsto che l'avremmo scelto ".
La testimonianza di sant'Agostino sia dunque presa in considerazione da coloro che si basano volentieri sull'autorità dei Padri! Tanto più che sant'Agostino non tollera di essere disgiunto dagli altri antichi dottori, e afferma che i Pelagiani gli facevano torto accusandolo di essere il solo di quella opinione. Cita dunque, nel libro Sulla Predestinazione dei Santi, cap. 19, l'affermazione di sant'Ambrogio, che Gesù Cristo chiama coloro ai quali vuol fare grazia. E ancora: "Se Dio avesse voluto, avrebbe reso devoti coloro che non lo erano; ma egli chiama chi gli pare, e converte chi vuole "Si potrebbe comporre un intero volume con citazioni di sant'Agostino su questo punto; ma non voglio affliggere i lettori con una simile prolissità.
Ma immaginiamo che né sant'Agostino né sant'Ambrogio parlino, e consideriamo la cosa in se. San Paolo aveva posto un problema molto difficile, cioè se Dio agisce con giustizia facendo grazia soltanto a chi gli pare. Poteva risolverlo rapidamente, presumendo che Dio consideri le opere. Perché dunque non lo fece? Perché insiste talmente nella sua affermazione da lasciarci nella stessa difficoltà? L'unica ragione è che così doveva fare; poiché lo Spirito Santo, che parlava per bocca sua, non avrebbe omesso nulla per dimenticanza. Risponde dunque senza tergiversare che Dio accetta per grazia i suoi eletti perché così gli piace; che fa loro misericordia perché così gli piace. La testimonianza di Mosè che egli cita: "Avrò pietà di colui di cui avrò pietà, e faro misericordia a colui al quale farò misericordia " (Es. 33.19) , vale come se egli dicesse che Dio non è mosso a pietà e bontà se non perché lo vuole.
Quel che sant'Agostino dice in un altro passo rimane dunque vero: la grazia di Dio non trova nessuno che essa debba eleggere, ma rende gli uomini atti ad essere scelti.
9. E non mi preoccupo affatto di questa sottigliezza di Tommaso d Aquino: benché dalla parte di Dio la preconoscenza dei meriti non possa essere definita causa della predestinazione, la possiamo chiamare così da parte nostra; come quando è detto che Dio ha predestinato i suoi eletti a ricevere gloria per i loro meriti, perché ha voluto dar loro la grazia per mezzo della quale meritano questa gloria. Al contrario, poiché Dio non vuole che consideriamo altro, nella nostra elezione, all'infuori della sua pura bontà, è ambizione perversa il voler considerare qualcosa di più. Se volessi imboccare la via delle sottigliezze avrei ampiamente di che controbattere questa trovata di Tommaso. Egli deduce che la gloria e in qualche modo preordinata agli eletti per i loro meriti, poiché Dio dà loro in primo luogo la grazia per meri. Tarla. Ma che accadrà se, al contrario, replico che la grazia dello Spirito Santo che il Signore dà ai suoi, serve alla loro elezione, e la segue anziché precederla, visto che è conferita a coloro ai quali l'eredità della vita era già assegnata? Infatti, giustificare dopo aver eletto, è l'ordine voluto da Dio. Da ciò deriverà che la predestinazione di Dio, per mezzo della quale egli delibera di chiamare i suoi alla salvezza, è la causa del suo proposito di giustificarli, piuttosto che il contrario.
Tralasciamo questi dibattiti, poiché sono superflui a coloro che ritengono di trovare abbastanza sapienza nella parola di Dio. Molto bene si è espresso un antico dottore: coloro che ripongono nei meriti la causa dell'elezione, vogliono sapere più di quanto sia opportuno.
10. Taluni obiettano che Dio si contraddirebbe se, chiamando in generale tutti gli uomini a se, accogliesse solo pochi eletti. Se si vuol credere loro, l'universalità delle promesse annulla la grazia speciale, affinché tutti siano in condizione di parità. Ammetto che alcuni dotti di spirito moderato parlano in questi termini, non tanto per offuscare la verità, quanto per evitare questioni contorte e porre un freno alla curiosità di molti. In questo il loro intento è lodevole, ma non buono, in quanto le scappatoie non sono mai scusabili.
Quanto a coloro che oltrepassano i limiti abbaiando come cani mastini, i loro cavilli, che ho citato, sono frivoli, oppure grossolani errori.
Come la Scrittura concili queste due cose, che cioè tutti sono chiamati al pentimento ed alla fede per mezzo della predicazione esteriore, e che tuttavia lo spirito di pentimento e di fede non è dato a tutti, l'ho già spiegato altrove, e dovrò ancora ribadire qualcosa.
Non accetto la loro tesi poiché, in effetti, la considero falsa sotto un duplice aspetto. Dio, minacciando di far piovere su una città e di mandare siccità all'altra, e predicendo che altrove vi sarà fame della sua parola (Am 4.7; 8.2) , non si attiene alla norma precis. Di chiamare tutti indistintamente. Proibendo a San Paolo di predicare in Asia e distogliendolo dalla Bitinia per trarlo in Macedonia (At. 16.6.8) , dimostra di esser libero di distribuire il tesoro della salvezza a chi gli pare. Dichiara ancor più apertamente per bocca di Isaia in qual modo particolare assegna le promesse di salvezza ai suoi eletti; infatti è di loro che dice che saranno suoi discepoli, e non di tutto il genere umano (Is. 8.16). Perciò sbagliano in modo grossolano coloro che vogliono che la dottrina della salvezza giovi a tutti senza eccezioni, visto che il frutto ne è riservato ai figli della Chiesa. Ci basti questo per ora: quando Dio chiama tutti ad ubbidirgli, questa generalità non impedisce che il dono della fede sia ben raro.
Isaia ne vede il motivo nel fatto che il braccio di Dio non è rivelato a tutti (Is. 53.1). Se dicesse che l'Evangelo è malamente vilipeso, in quanto molti vi resistono con ostinata ribellione, coloro che sostengono che la salvezza è comune a tutti ne avrebbero qualche motivo; ma è escluso. È vero che il Profeta non intende minimizzare la colpa degli uomini, dicendo che la fonte del loro accecamento è che Dio non ha manifestato loro la sua potenza; soltanto avverte, in quanto la fede è un dono singolare di Dio, che le orecchie sono colpite invano dalla sola predicazione esterna.
Vorrei proprio sapere da questi bravi dottori se a renderci figli di Dio è la sola Parola predicata oppure la fede. Certo, quando è detto, nel primo capitolo di san Giovanni, che tutti coloro che credono in Gesù Cristo sono resi anche figli di Dio, non si raggruppano in modo confuso tutti gli uditori, ma viene assegnato un posto particolare ai credenti, i quali cioè non sono nati da sangue né da volontà di carne né da volontà d'uomo, ma da Dio (Gv. 1.12).
Se obiettano che c'è correlazione fra la Parola e la fede, rispondo che questo è vero, quando c'è la fede. Ma non è una novità che il seme cada fra le spine o sulle pietre, non solo perché la maggior parte degli uomini è ribelle a Dio e si dimostra in effetti tale, ma in quanto non tutti hanno gli occhi per vedere e le orecchie per udire.
Se chiedono che motivo c'è che Dio chiami a se coloro che sa che non verranno, sant'Agostino risponda loro per me: "Vuoi forse"dice "discutere con me di questo argomento? Piuttosto, meravigliati con me ed esclama: oh quale altezza! Meravigliamoci entrambi, per non perire nell'errore ".
Inoltre, se l'elezione è madre della fede, come san Paolo attesta, la loro argomentazione si ritorce contro di loro: la fede non è generale, in quanto l'elezione da cui proviene è particolare. Infatti, quando san Paolo dice che i credenti sono ripieni di ogni benedizione spirituale, poiché Dio li aveva eletti prima della creazione del mondo (Ef. 1.3) , è facile concludere, secondo la logica della causa e del suo effetto, che tali ricchezze non sono comuni a tutti, poiché Dio ha eletto solo chi ha voluto. Ecco perché in un altro passo parla esplicitamente della fede degli eletti (Tt 1.1) , affinché non paia che ciascuno si procura la fede di sua iniziativa, ma che in Dio risiede la gloria che coloro, i quali ha eletti, sono da lui gratuitamente illuminati. E san Bernardo dice molto giustamente che coloro che egli considera suoi amici l'odono a parte, e si rivolge a loro in maniera particolare dicendo: "Non temete, piccolo gregge, poiché vi è dato conoscere il mistero del regno dei cieli " (Lu 12.32; Mt. 13.2). In seguito domanda chi sono costoro, cioè quelli che egli ha conosciuti e predestinati ad esser resi conformi all'immagine del suo figlio. Ecco una decisione profonda e ammirevole che ci è stata resa nota: Dio solo conosce i suoi; ma ciò che gli era noto è stato manifestato agli uomini; ed egli non ammette alla conoscenza di un tale mistero se non coloro che ha predestinati. Su questo conclude: "La misericordia di Dio d'eternità in eternità su quelli che lo temono. D'eternità, a causa della predestinazione. In eternità, a causa della beatitudine che sperano. L'una non ha principio; l'altra non ha fine ".
Ma perché cito san Bernardo come testimone, visto che udiamo dalla bocca del Maestro che solo coloro che sono da Dio possono vedere? (Gv. 6.46). Con questo intende dire che chi non è rigenerato dall'alto, è abbagliato e stordito dallo splendore del suo volto. È vero che la fede può ben essere unita all'elezione, a condizione che essa sia collocata ad un posto più basso, secondo l'ordine che ci è espresso in un altro passo, in cui Gesù Cristo dice: "É il volere di mio Padre che io non perda nulla di quello che mi ha dato; poiché la sua volontà è che chiunque crede al Figlio non perisca " (Gv. 6.39). Certo, se Dio volesse che tutti siano salvati, darebbe a tutti Gesù Cristo come custode, e li unirebbe tutti al corpo di lui per mezzo del vincolo della fede. È: chiaro che la fede è un pegno singolare del suo amore paterno, pegno che è come nascosto e riservato ai figli che ha adottato. Perciò Gesù Cristo afferma altrove che le pecore seguono il loro pastore, poiché conoscono la sua voce; esse non seguono un estraneo, poiché non conoscono la voce degli estranei (Gv. 10.4). Donde viene un tal discernimento, se non dal fatto che le orecchie sono raggiunte dallo Spirito Santo? Nessuno infatti si fa pecora, ma è formato e preparato ad esserlo per grazia celeste. Perciò il nostro Signor Gesù dice che la nostra salvezza e assicurata, e per sempre fuori pericolo, in quanto è custodita dalla potenza invincibile di Dio (Gv. 10.29). Da ciò conclude che gli increduli non sono inclusi fra le sue pecore (Gv. 10.26) , poiché non sono nel numero di coloro ai quali Dio ha promesso per bocca di Isaia di farli suoi discepoli.
Del resto, poiché nelle testimonianze che ho citato è menzionata in modo chiaro la perseveranza, ciò dimostra che l'elezione e costante e ferma, senza variare affatto.
2. Trattiamo ora dei reprobi, di cui san Paolo parla pure in quel passo. Come Giacobbe è accolto per grazia senza aver nulla meritato per mezzo delle sue buone opere, anche Esaù è respinto da Dio senza averlo offeso in nulla (Ro 9.13). Se volgiamo il nostro pensiero alle opere, accusiamo l'Apostolo, di non aver visto quello che a noi è evidente. Che non l'abbia visto, è chiaro, poiché sottolinea espressamente che sebbene non avessero fatto né bene né male, l'uno è stato eletto, l'altro respinto; da ciò conclude che il fondamento della predestinazione non risiede nelle opere.
Inoltre, avendo sollevato il problema se Dio è ingiusto, non afferma che Dio ha ripagato Esaù secondo la sua malvagità (quella sarebbe stata la difesa più evidente e chiara della giustizia di Dio) ma dà una soluzione del tutto diversa: Dio suscita i reprobi, per esaltare in loro la sua gloria. Infine conclude che Dio fa misericordia a chi gli pare, e indura chi gli pare (Ro 9.18).
Vediamo così che riconduce l'uno e l'altro al buon volere di Dio. Se non possiamo dunque stabilire altra ragione per la quale Dio accetta i suoi eletti, se non perché così gli piace, non avremo parimenti altra ragione del suo respingere gli altri, all'infuori della sua volontà. Poiché quando è detto che Dio indurisce i cuori o fa misericordia secondo quanto gli piace, è per ammonirci a non cercare alcuna spiegazione all'infuori della sua volontà.
CAPITOLO 23
CONFUTAZIONE DELLE CALUNNIE CON CUI, A TORTO, SI È SEMPRE DEPREZZATA QUESTA DOTTRINA
1. Quando la mente umana ode questi discorsi non riesce, nella sua intemperanza, a dominare turbamenti ed emozioni, come se una tromba avesse dato il segnale dell'assalto.
Parecchi, fingendo di tutelare l'onore di Dio, perché non sia a torto calpestato, ammettono sì l'elezione, ma negano l'esistenza dei reprobi: tesi sciocca e puerile, visto che l'elezione non esisterebbe se non si trovasse all'opposto della reiezione. È detto che Dio separa quelli che adotta per salvarli; é dunque sciocchezza eccessiva l'affermare che coloro, che non sono eletti, ottengono fortuitamente o acquistano con la loro iniziativa quel che è dato dall'alto soltanto a poche persone. Pertanto, quelli che Dio lascia da parte scegliendo gli altri, li respinge, e per il solo motivo che li vuole escludere dall'eredità che ha predestinato ai suoi figli.
Del resto, l'arroganza degli uomini non è sopportabile, quando non accetta di essere imbrigliata dalla parola di Dio, trattandosi della sua decisione incomprensibile, che perfino gli angeli adorano. Orbene, abbiamo poco fa udito 2che anche l'induramento, come la misericordia, deriva dalla decisione e dalla libertà di Dio. Infatti abbiamo anche visto che san Paolo non si preoccupa, come quei teorici, di giustificare Dio mediante la menzogna. Si limita ad affermare che non è lecito ad un vaso di terra argomentare contro chi lo ha plasmato (Ro 9.20).
Inoltre, coloro che non possono tollerare che Dio ne riprovi alcuni, come si libereranno dall'affermazione di Cristo: "Ogni albero che il Padre mio non avrà piantato, sarà sradicato "? (Mt. 15.13). Odono che tutti coloro che il Padre non si è degnato di piantare nel suo campo come alberi sacri, sono apertamente destinati a perdizione. Se negano che questo sia segno di reprobazione, non vi sarà niente di così chiaro che per loro non sia oscuro.
Anche se costoro non smettono di abbaiare o di mormorare, la nostra fede si attenga sobriamente all'avvertimento di san Paolo: che non c'è di che argomentare contro Dio se, da un lato, volendo mostrare la sua collera e manifestare la sua potenza, egli sopporta con grande pazienza e dolcezza gli strumenti di ira destinati a perdizione; e, d'altro lato, mostra le ricchezze della sua gloria verso gli strumenti di misericordia, che ha preparati per la gloria (Ro 9.22). Notiamo bene che san Paolo, per tagliar corto ad ogni maldicenza e mormorio, assegna alla collera e alla potenza di Dio un potere sovrano, essendo troppo sragionevole chieder conto dei giudizi profondi di Dio, i quali sommergono tutti i nostri sensi.
La risposta che danno è futile: Dio cioè non respinge del tutto coloro che indurisce con dolcezza, ma sospende il suo amore verso di loro, per vedere se per avventura si pentiranno. Come se san Paolo attribuisse a Dio una pazienza grazie alla quale aspetti la conversione di coloro che dice destinati a morire. E sant'Agostino, commentando questo passo, afferma con saggezza che quando la pazienza di Dio è unita alla sua potenza, non solo permette, ma governa realmente
3. I nostri contraddittori replicano: san Paolo, dicendo che gli strumenti di collera sono destinati a perdizione, aggiunge che Dio ha destinato a salvezza gli strumenti di misericordia, come se, con queste parole, intendesse dire che Dio è autore della salvezza dei credenti, e che la lode spetta a lui, ma che coloro che periscono vi si accingono da soli e con il loro libero arbitrio, senza essere riprovati da lui. Pur concedendo loro che san Paolo ha voluto, con queste parole, addolcire quanto poteva parere duro di primo acchito, tuttavia non c'è motivo di leggervi che i reprobi sarebbero destinati a perire per un motivo diverso dal volere segreto di Dio. San Paolo lo aveva già affermato in quello stesso passo, dicendo che Dio ha suscitato Faraone e che indura chi vuole; ne consegue che il volere incomprensibile di Dio è causa dell'indurimento.
Questo punto è comune con sant'Agostino e mi servirò delle sue parole per esprimerlo: Dio, facendo diventare pecore i lupi, li forma di nuovo con una grazia più forte, per domare la loro durezza; allo stesso modo gli ostinati non si convertono, perché Dio non spiega nei loro confronti una simile grazia, di cui pure non è privo, se volesse servirsene.
2. Questo basterà a tutti coloro che temono Dio con modestia, e che si ricordano di essere uomini; ma poiché quei cani che mormorano contro Dio vomitano varie specie di bestemmie, dovremo rispondere ad ognuno. Gli uomini che agiscono secondo la carne, pieni di follia argomentano su questo punto in vari modi contro Dio, come se potessero sottometterlo alle loro recriminazioni.
Anzitutto, chiedono perché Dio si adira contro le sue creature, che non l'hanno provocato con nessuna offesa. Poiché il perdere e mandare in rovina quelli che gli pare, è cosa che si addice meglio alla crudeltà di un tiranno che alla dirittura di un giudice. Perciò pare loro che gli uomini abbiano giustificato motivo di lamentarsi di Dio se, per suo volere, senza loro merito, sono predestinati alla morte eterna.
Se tali pensieri vengono talvolta in mente ai credenti, essi saranno sufficientemente armati per respingerli, se solo considereranno quale temerità sia l'indagare le cause della volontà di Dio, visto che essa è, e a buon diritto deve essere la causa di tutte le cose che accadono. Ma se essa ha qualche causa, bisogna che quella causa preceda, e che essa vi sia come legata, cosa che non è lecito immaginare. La volontà di Dio è a tal punto regola suprema e sovrana di giustizia, che tutto quel che egli vuole, bisogna considerarlo giusto per il fatto che egli lo vuole. È Quando dunque si chiede: perché Dio ha fatto così? Bisogna rispondere: perché lo ha voluto. Se si va oltre e si chiede: perché lo ha voluto? Questo significa chiedere una cosa più grande e più alta della volontà di Dio, che non si può indagare. La temerità umana si moderi dunque, e non cerchi quel che non c'è, per paura di non trovare quello che c'è. Questa briglia sarà opportuna per trattenere tutti coloro che vorranno meditare i segreti di Dio con rispetto. Dagli iniqui, che non hanno paura di maledire Dio apertamente, il Signore si difenderà lui stesso, con la sua giustizia, senza che gli facciamo da avvocati: toglierà alle loro coscienze ogni scappatoia, le incalzerà e le convincerà, senza che possano sfuggire.
Con questo però non approviamo le fantasticherie dei teologi papisti, concernenti la potenza assoluta di Dio; poiché quel che ne blaterano è profano, e perciò lo dobbiamo detestare. E neppure immaginiamo un Dio che non abbia legge alcuna, visto che egli è legge a se stesso. Infatti, come dice Platone, gli uomini, soggetti a cattive cupidigie, hanno bisogno di legge; ma la volontà di Dio, essendo pura da ogni peccato e regola sovrana di perfezione, e la legge di tutte le leggi. Insistiamo nel dire che Dio non deve renderci conto di quello che fa. E d'altra parte non siamo giudici idonei né competenti per pronunciarci su questo argomento secondo il nostro modo di sentire. Pertanto, se andiamo oltre quel che ci è lecito, dobbiamo temere la minaccia del Salmo, che dice che Dio rimarrà vincitore quando sarà giudicato dagli uomini mortali (Sl. 51.6).
3. Ecco in che modo Dio può reprimere i suoi nemici, tacendo; ma affinché non tolleriamo che essi si facciano beffe del suo nome, ci dà delle armi nella sua parola, per resistere ai loro assalti.
Di conseguenza, se qualcuno ci assale chiedendoci perché Dio ne ha predestinati alcuni alla condanna, i quali non l'avevano meritata visto che non esistevano ancora, gli chiederemo, d'altra parte, in che cosa ritenga che Dio sia debitore all'uomo, se lo considera nella sua natura. Poiché siamo tutti corrotti e contaminati da peccati, Dio non può che averci in odio, e non per crudeltà tirannica, ma per ragionevole giustizia. Dato che ogni uomo, per sua condizione naturale, è colpevole di condanna mortale, di quale iniquità, vi prego, si lamenteranno coloro che Dio ha predestinati a morte? Si facciano avanti tutti i figli di Adamo per contestare e discutere Cl. Loro Creatore il fatto che per sua eterna provvidenza sono stati destinati, prima di nascere, ad una calamità perpetua; ma quando Dio li avrà condotti a riconoscersi, che cosa potranno mormorare contro ciò? Se fanno tutti parte di una massa corrotta, non fa meraviglia che siano soggetti a condanna. Non accusino dunque Dio di iniquità, se per suo eterno giudizio sono destinati ad una condanna a cui la loro stessa natura li conduce; e lo sentono, per quanto malvolentieri. Da ciò appare quanto sia perversa la loro inclinazione a rivoltarsi, visto che coscientemente sopprimono quel che sono costretti a riconoscere: che cioè trovano la causa della loro condanna in loro stessi. Perciò, per quanto cerchino di giustificare, non possono essere assolti.
Anche quando avrò affermato loro cento volte la verità, che cioè Dio è autore della loro condanna, non per questo cancelleranno la loro colpa, che è incisa nella loro coscienza e viene loro del continuo dinanzi agli occhi.
4. Replicano daccapo, chiedendosi se non erano stati predestinati dal volere di Dio alla corruzione che noi diciamo causa della loro rovina. Se è così, il perire nella loro corruzione altro non è se non lo scontare la pena della calamità in cui Adamo è caduto per volere di Dio, ed in cui ha trascinato tutti i suoi successori. Dio non sarebbe dunque ingiusto, prendendosi gioco così crudelmente delle sue creature?
In risposta, ammetto che è stato per volere di Dio che tutti i figli di Adamo sono caduti in quella miseria in cui si trovano ora ad essere detenuti. Ed è quel che dicevo all'inizio, che bisogna sempre tornare al solo volere di Dio, di cui egli tiene la causa nascosta in se stesso; ma non ne deriva che si possa denigrare così Dio perché, con san Paolo, preverremo una tal accusa dicendo: "O uomo, chi sei, che tu possa contestare Dio? Il vaso chiederà forse al vasaio perché lo ha plasmato così? Il vasaio non ha forse il potere di fare di una stessa massa di terra un vaso onorevole e l'altro spregevole "? (Ro 9.20). Diranno che, così, la giustizia di Dio non è rettamente difesa, ma che è un sotterfugio caro a coloro che non hanno argomenti validi; infatti sembra poco, dire che la potenza di Dio non può essere impedita di fare tutto quel che le piace.
Dico che si tratta di ben altro. Quale argomentazione più ferma e più solida possiamo dare, se non ammonirci a considerare chi è Dio? Colui che è giudice del mondo potrebbe forse commettere qualche iniquità? Se il far giustizia è la caratteristica della sua natura, egli ama per natura la giustizia, e odia l'iniquità. Di conseguenza, l'Apostolo non ha cercato sotterfugi, come se fosse stato sorpreso senza via d'uscita; ma ha voluto far vedere che la giustizia di Dio è così alta ed eccelsa da non poter essere ridotta alla misura umana, o essere compresa nella piccolezza della mente umana. Riconosco che i giudizi di Dio hanno una profondità che inghiotte, come un abisso, la capacità di intendere degli uomini, quando ardiscono inoltrarvisi. Non è però sragionevole voler vituperare le opere di Dio quando non sappiamo capirne la ragione?
C'è a questo proposito una affermazione degna di nota in Salomone, che pochi capiscono: "Il Creatore di tutti "dice "è grande: darà ai pazzi ed ai trasgressori la loro ricompensa " (Pr 26.10). Esclama, stupito per la grandezza di Dio, che e in suo potere punire i pazzi ed i trasgressori, non avendoli resi partecipi del suo Spirito. Infatti è un desiderio pazzesco degli uomini, pretendere rinchiudere quel che è infinito ed incomprensibile in una misura così piccola come la loro mente.
San Paolo chiama "eletti "gli angeli che hanno conservato la loro integrità (1 Ti. 5.21). Se la loro costanza e fermezza è stata fondata sul volere di Dio, la rivolta dei demoni indica che non sono stati trattenuti, ma piuttosto lasciati andare: e di questo non si può dare altra giustificazione che la riprovazione, nascosta nel segreto volere di Dio.
5. Si faccia dunque avanti qualcuno dei manichei, o dei celestini, o qualche altro eretico, per calunniare la provvidenza di Dio: dico con san Paolo che non è necessario renderne ragione, dato che con la sua grandezza essa sorpassa interamente la nostra intelligenza. Che assurdità c'è in questo? Vorranno forse che la potenza di Dio sia tanto limitata da non poter fare altro all'infuori di quel che il nostro spirito potrà capire? Ripeto con sant'Agostino, che Dio ne ha creati molti, per i quali prevedeva la condanna eterna; e ciò è stato fatto perché egli lo ha voluto. E perché lo abbia voluto, non tocca a noi chiederne la ragione, visto che non possiamo capirla d'altra parte non conviene che discutiamo se la volontà di Dio è giusta o no, poiché quando se ne parla bisogna intendere con questo nome una regola infallibile di giustizia. Perché ci si chiede con dubbio se c'è iniquità laddove la giustizia appare chiaramente? Non vergogniamoci dunque di chiudere la bocca agli iniqui, come fa san Paolo, e di replicare loro, ogniqualvolta oseranno abbaiare come cani: chi siete voi, poveri miserabili, che accusate Dio senza ragione, solo perché non ha abbassato la grandezza delle sue opere al livello della vostra ignoranza, quasi il suo operare fosse iniquo perché ci è nascosto? L'altezza sconfinata dei giudizi di Dio vi deve essere abbastanza nota in base alle definizioni che ce ne dà. Sapete che sono detti: abisso profondo (Sl. 36.7); valutate ora la vostra piccolezza, per sapere se essa comprenderà quel che Dio ha decretato in se stesso. A che vi giova ingolfarvi con rabbiosa curiosità in quell'abisso che, a ragione, prevedete vi debba essere mortale? Come mai, quel che è scritto intorno alla incomprensibile sapienza di Dio e alla sua potenza, per noi spaventevole, tanto nella storia di Giobbe quanto nei Profeti, non vi trattiene incutendovi un po' di paura e timore? Se i vostri spiriti si dibattono in qualche problema, seguite senza vergognarvene l'affermazione di sant'Agostino: "o uomo "dice "aspetti tu risposta da me? Ma anch'io sono uomo; perciò ascoltiamo entrambi colui che ci dice: "O uomo, chi sei tu? "Certo, l'ignoranza di chi crede è preferibile ad una conoscenza temeraria. Cerca dei meriti, non troverai che punizione. Quale altezza! Pietro rinnega Gesù Cristo: il brigante crede in lui. Quale altezza! Vuoi cercare la ragione di queste cose? Io, invece, mi meraviglierei della loro grandezza. Tu, cerca pure finché vuoi, io, invece, mi meraviglierò. Discuti, da parte tua, e io crederò. Vedo l'altezza di tali cose: non riesco a raggiungere la loro profondità. Paolo ha trovato il modo di riposarsi, mettendosi in ammirazione. Afferma che i giudizi di Dio sono al di fuori di ogni conoscenza, e tu li vuoi sondare! Dice che le sue vie non si possono scrutare, e tu vuoi seguirne il tracciato!".
È inutile insistere, perché non soddisferemo la loro petulanza. E d'altra parte, Dio non ha bisogno di altra difesa all'infuori di quella di cui si è valso per mezzo del suo Spirito, parlando per bocca di san Paolo; inoltre, quando non parliamo secondo Dio, disimpariamo a parlare rettamente.
6. Vi è un'altra obiezione fatta dagli empi, la quale tende non tanto a biasimare Dio quanto a scusare il peccatore, sebbene a dire il vero il peccatore non si possa giustificare senza ignominia del giudice. Tuttavia, vediamo di che si tratta.
Perché, dicono, Dio imputerebbe a peccato agli uomini le cose di cui ha imposto loro la necessità attraverso la sua predestinazione? Infatti, che altro potrebbero fare? Potrebbero resistere ai suoi decreti? Sarebbe invano, anzi non potrebbero neppur farlo. Dio non ha dunque diritto di punire le cose la cui causa prima risiede nella sua predestinazione.
Non utilizzerò qui l'argomento di cui si valgono abitualmente i dottori della Chiesa: che, cioè, la preconoscenza di Dio non impedisce che l'uomo debba essere ritenuto peccatore riguardo ai peccati che commette lui, non Dio, che solo li prevede. La gente in cerca di cavilli non si accontenterebbe di questa risposta, ma andrebbe oltre, dicendo che Dio, se avesse voluto, avrebbe potuto ovviare ai mali che ha previsti; se non lo ha fatto, è perché ha deliberatamente creato l'uomo onde si comportasse in quel modo. Se l'uomo è stato messo in una condizione tale da dover fare tutto quel che fa, non gli si possono imputare a colpa le cose che non può evitare e a cui è costretto dal volere di Dio. Vediamo dunque come risolvere questa difficoltà.
Anzitutto, dobbiamo tener per certo quel che dice Salomone, che Dio ha creato tutte le cose a motivo di se stesso, anzi, l'iniquo per il giorno della sua perdizione (Pr 16.4). Pertanto, poiché Dio dispone di ogni cosa e può mandare la vita o la morte a suo piacimento, dispensa e ordina per suo volere che taluni, fin dal seno materno, siano con certezza destinati a morte eterna, onde glorificare il suo nome nella loro perdizione.
Se qualcuno, per scusare Dio, afferma che la sua prescienza non impone loro alcuna necessità ma che, vedendo di quale malvagità saranno, li crea in quella condizione, costui dirà sì qualcosa, ma non tutto. Gli antichi dottori si valevano talvolta di questa soluzione, ma è un po' come dubitare. Quelli della Sorbona vi si attengono del tutto, come se non vi fossero obiezioni possibili .
Per parte mia, ammetterò che la prescienza, da sola, non ha carattere di necessità per le creature, sebbene non tutti lo ammettano, poiché vi sono persone che la considerano causa di ogni cosa. Ma mi pare che Lorenzo Valla, per altro uomo non molto esperto nella Scrittura, abbia fatto una distinzione più sottile. Dimostra che questa disputa è vana, in quanto la vita e la morte sono azioni della volontà di Dio piuttosto che della sua prescienza. Se Dio si limitasse a prevedere quel che accade agli uomini, senza disporlo e ordinarlo come gli piace, sorgerebbe il problema di sapere quale necessità la prescienza di Dio imporrebbe agli uomini. Ma poiché egli vede le cose future unicamente perché ha deciso che avvengano, è follia disputare e discutere quel che fa la sua prescienza, quando è chiaro che tutto accade per suo ordine e disposizione.
7. Gli avversari sostengono che non c'è dichiarazione testuale riguardo ad una decisione di Dio perché Adamo dovesse cadere in rovina mortale. Ma la Scrittura ci attesta che egli fa tutte le cose che vuole, perciò è impensabile che abbia creato la più nobile di tutte le sue creature senza prevedere a quale fine e a quale condizione la creava.
Dicono che Adamo è stato creato Cl. Suo libero arbitrio, per darsi la sorte che voleva, e che Dio non aveva deciso nulla a suo riguardo, se non di trattarlo secondo i suoi meriti. Se si accetta una così misera soluzione, dove andrà a finire la potenza infinita di Dio, per mezzo della quale egli dispone tutte le cose in base alla sua volontà segreta, la quale dipende soltanto da lui?
Malgrado la loro opposizione accanita la predestinazione di Dio si rivela in tutta la discendenza di Adamo, poiché non è accaduto per via naturale che tutti scadano dalla loro salvezza per colpa di uno solo. Che cosa impedisce loro di riconoscere per il primo uomo quel che, loro malgrado, sono costretti ad ammettere per tutto il genere umano? Perché affaticarsi a trovar scuse? La Scrittura dice chiaramente che tutte le creature mortali sono state asservite alla morte nella persona di un solo uomo. Ciò non può essere attribuito alla natura, bisogna dunque che sia derivato dalla decisione mirabile di Dio. Gravissimo abbaglio per quegli avvocati preoccupati di difendere la giustizia di Dio il fermarsi di botto dinanzi ad una pagliuzza e saltare al di sopra di grosse travi. Chiedo loro di nuovo come mai la caduta di Adamo ha coinvolto tanti popoli con i loro figli, e senza alcun rimedio, se non perché così è piaciuto a Dio. Bisogna che quelle lingue così abili a cianciare si facciano mute, su questo punto. Riconosco che un tal decreto ci deve spaventare, tuttavia non si può negare che Dio abbia previsto, prima di creare l'uomo, la meta cui sarebbe pervenuto; e che l'abbia previsto perché così aveva voluto nella sua decisione.
Se qualcuno accusa qui la prescienza di Dio, lo fa temerariamente. Infatti, con che criterio si biasimerà il giudice celeste di non aver ignorato le cose che dovevano accadere? Se dunque vi è critica, giusta o di qualche consistenza, si rivolge piuttosto a quel che Dio ha disposto. Quello che dico, dunque, non deve sembrare strano: Dio non solo ha previsto la caduta del primo uomo, e in essa la rovina di tutta la sua posterità, ma ha voluto che così fosse. Infatti, come è caratteristico della sua sapienza conoscere in anticipo tutte le cose future, così appartiene alla sua potenza il reggere e governare tutto con la sua mano. Sant'Agostino decide e risolve molto bene questo problema, come molti altri: "Noi confessiamo che la nostra salvezza poggia su quel che crediamo rettamente, che Dio, signore e padrone di tutte le cose, le ha tutte create buone, sapendo che il male proverrebbe dal bene, e che era in potere della sua bontà la capacità di volgere il male in bene; piuttosto che di non permettere che esistesse il male, ha disposto la vita degli angeli e degli uomini in modo da mostrare in primo luogo quel che il libero arbitrio poteva, e in seguito quel che potevano il beneficio della sua grazia ed il suo giusto giudizio ".
8. Alcuni ricorrono qui alla distinzione fra volontà e permesso, affermando che gli iniqui periscono perché Dio lo permette, non perché lo vuole. Ma perché dovrebbe permetterlo, se non perché lo vuole? Non è verosimile che l'uomo si sia acquistato la condanna solo perché Dio lo ha permesso e non perché lo ha voluto, come se Dio non avesse ordinato quale voleva che fosse la condizione della sua creatura più nobile ed importante. Non esito dunque a riconoscere semplicemente, con sant'Agostino, che la volontà di Dio è la ragione necessaria di ogni cosa, e che necessariamente bisogna che quel che ha ordinato e voluto accada, così come certamente accadrà tutto quel che ha previsto.
Se i Pelagiani o i Manichei o gli Anabattisti o gli Epicurei (poiché trattando di questo argomento abbiamo a che fare con queste sette ) ricorrono, per scusarsi, al carattere necessitante della predestinazione di Dio, non giovano alla loro causa. Se la predestinazione altro non è che l'ordine e la manifestazione della giustizia divina, irreprensibile benché occulta, essendo chiaro che erano meritevoli di una tal condanna, è altrettanto evidente che la rovina in cui cadono per la predestinazione di Dio è giusta ed equa. La loro perdizione è così connessa con la predestinazione di Dio, di modo che la causa e il motivo si devono cercare in loro stessi. Il primo uomo è caduto, perché Dio aveva giudicato questo opportuno. Ma il motivo del suo giudizio ci è sconosciuto. È comunque certo che lo ha deciso perché ciò contribuiva alla gloria del suo nome Quando menzioniamo la gloria di Dio, pensiamo anche alla sua giustizia, poiché bisogna che quel che merita lode risulti giusto.
L'uomo dunque cade secondo quel che era stato preordinato da Dio: ma cade per sua colpa. Il Signore aveva affermato poco prima che tutte le cose da lui create erano molto buone (Ge 1.31); da dove deriva dunque la perversità dell'uomo, se non dall'essersi allontanato dal suo Dio? Onde non si pensasse che derivava dalla sua creazione, il Signore aveva approvato con la sua testimonianza tutto quel che aveva messo nell'uomo. Questi dunque ha corrotto con la sua malizia la natura buona che aveva ricevuto dal Signore. E così, con la sua caduta, ha trascinato con se nella rovina tutta la sua discendenza.
Contempliamo pertanto nella natura corrotta dell'uomo la causa, evidente, della sua condanna, piuttosto che cercarla nella predestinazione di Dio, dove è nascosta e totalmente incomprensibile. E non ci dispiaccia sottomettere il nostro intelletto all'infinita sapienza di Dio, affidandoci a lui in molte cose, che per noi sono incomprensibili. Quanto alle cose che non è possibile né lecito sapere, l'ignoranza è dotta; il desiderio di conoscerle è follia.
9. Qualcuno dirà che non ho ancora avanzato una ragione valida per demolire la tesi blasfema che condanno. Questo è impossibile perché l'empietà mormora e schernisce sempre: tuttavia mi pare di aver detto abbastanza per togliere all'uomo non solo ogni motivo di mormorare, ma anche ogni scusa.
I reprobi vogliono essere considerati degni di scusa anche se peccano, perché non possono sfuggire alla necessità di peccare, soprattutto poiché essa procede dall'ordine e dal volere di Dio. Nego, al contrario, che ciò li possa scusare, in quanto l'ordine di Dio del quale si lamentano è un ordine equo. Benché il motivo di tale equità ci sia sconosciuto, essa è tuttavia indubbia; perciò concludiamo che le pene che sopportano sono loro imposte dal giustissimo giudizio di Dio.
Insegniamo anche che è atteggiamento perverso, da parte loro, voler comprendere i segreti di Dio, che sono impenetrabili, per cercare l'origine della loro condanna, lasciando da parte la corruzione della loro natura, da cui invece essa deriva. Che questa corruzione non debba essere imputata a Dio, appare dal fatto che egli ha riconosciuta per buona la sua creazione. Benché l'uomo sia stato creato dalla provvidenza eterna di Dio per poi arrivare alla condizione di miseria in cui si trova, egli ne ha tuttavia tratto da se stesso la sostanza, e non da Dio. Infatti è perito unicamente perché, dalla pura natura che Dio gli aveva dato, è degenerato in una condizione di perversità.
10. Gli avversari di Dio si valgono ancora di un'altra assurdità per diffamare la sua predestinazione. Quantunque parlando di coloro che il nostro Signore ritrae dalla condizione universale degli uomini per farli eredi del suo Regno, non attribuiamo ciò ad altra causa all'infuori del suo volere, essi deducono che vi è dunque preferenza di persone da parte di Dio, cosa che la Scrittura nega sempre; di conseguenza bisogna dire che o la Scrittura si contraddice, o che Dio guarda ai meriti di coloro che sceglie
Anzitutto, quel che la Scrittura dice, che cioè Dio non ha preferenza di persone, è da intendere in un senso diverso da come loro lo intendono. Infatti con il vocabolo "persone "essa non intende l'uomo, ma le cose che, nell'uomo, danno nell'occhio per acquistargli favore, grazia, dignità, o al contrario odio, disprezzo o vergogna, come le ricchezze, la considerazione, la nobiltà, le cariche che conferiscono prestigio, il paese, la bellezza fisica e simili; oppure la povertà, l'essere di oscuri natali o privo di considerazione e di onori ecc. . .
In tal senso san Pietro e san Paolo indicano che Dio non ha riguardi personali (At. 10.34; Ro 2.10) , poiché non fa distinzione fra il Greco ed il Giudeo (Ga 3.28) per gradire l'uno e respingere l'altro soltanto in base alla nazione. San Giacomo si vale delle stesse parole quando dice che Dio, nel suo giudizio, non tiene conto delle ricchezze (Gm. 2.5). San Paolo se ne vale anche in un altro passo, volendo indicare che Dio non fa differenza fra padrone e servitore, dovendo giudicare l'uno e l'altro (Cl. 3.25; Ef. 6.9). Perciò non esiterò a dire che Dio elegge chi gli pare secondo il suo piacere, senza alcun merito da parte degli eletti, mentre respinge e riprova gli altri.
Tuttavia, per dare più completa soddisfazione esporrò così la cosa. Essi chiedono come mai, fra due uomini, che non differiscono in nulla in quanto a meriti, Dio ne sceglie uno e lascia indietro l'altro. Chiedo loro per parte mia se pensano vi sia in chi è eletto qualcosa che possa inclinare il cuore di Dio ad amarlo. Se riconoscono che non vi è nulla, e non possono fare altrimenti, ne deriverà che Dio non considera l'uomo, ma attinge nella sua propria bontà il motivo per fargli del bene. Che Dio ne scelga uno respingendo l'altro, non deriva dal fatto che Dio prende in considerazione l'uomo. Ma dalla sua sola misericordia, in base alla quale egli è libero di rivelarsi dove e quando gli pare opportuno. Abbiamo anzi già visto che, inizialmente, Dio non ha eletto molti nobili, saggi, ricchi ed eccellenti (1 Co. 1.26) , per umiliare l'orgoglio della carne, poiché il suo favore è lungi dal badare a certe apparenze.
11. Alcuni accusano dunque falsamente e malvagiamente Dio di non essere equo nella sua giustizia, per il fatto che nella sua predestinazione non tratta allo stesso modo tutti gli uomini. Se Dio, dicono, trova tutti gli uomini colpevoli, li punisca tutti allo stesso modo; se li trova innocenti, li assolva tutti.
Ma trattano Dio come se gli fosse proibito usare misericordia; oppure, se la vuol fare, come se fosse costretto a rinunciare interamente al suo giudizio. Infatti che altro chiedono, quando vogliono che se tutti hanno offeso tutti siano ugualmente puniti? Riconosciamo che l'offesa è universale, ma diciamo che la misericordia di Dio viene in aiuto ad alcuni. Venga dunque in aiuto a tutti, dicono. Ma noi replichiamo che è più che motivato il suo dimostrarsi anche giusto giudice, Cl. Punire. Con la loro intolleranza, non si sforzano forse di togliere a Dio il diritto di usare misericordia, oppure di concederglielo a condizione che rinunci al giudizio?
Queste affermazioni di sant'Agostino sono particolarmente calzanti: "Benché la massa universale del genere umano sia, in Adamo, incorsa nella condanna, gli uomini scelti per essere posti in onore non sono strumenti della loro giustizia, ma della misericordia di Dio. Altri, sono considerati degni di obbrobrio unicamente per suo giudizio, senza che per questo noi lo tacciamo di iniquità ". E "Il fatto che Dio renda a coloro che ha riprovati la punizione loro dovuta, e che dia a coloro che ha eletti la grazia che non era loro dovuta può essere indicato come giusto ed irreprensibile dal paragone con un creditore, cui piace rimettere il debito all'uno e richiederlo all'altro. Il Signore, dunque, può far grazia a chi vuole perché è misericordioso, e non farla a tutti perché è giusto giudice. Cl. Dare ad alcuni quel che non meritano, può dimostrare la sua grazia gratuita; col non darla a tutti, può dimostrare quel che tutti meritano ". E San Paolo, scrivendo che Dio ha incluso tutti gli uomini sotto il peccato al fine di far misericordia a tutti (Ro 11.32) , non manca di aggiungere immediatamente che egli non deve nulla a nessuno, poiché nessuno gli ha portato qualcosa di cui chiedergli ricompensa.
12. Gli avversari della verità ricorrono ancora ad un'altra calunnia per contestare la predestinazione: quando essa è stabilita, verrebbe meno ogni preoccupazione e sollecitudine a vivere bene. Infatti, dicono, chi sarà colui il quale udendo che morte o la vita gli è già stata decretata dall'immutabile consiglio di Dio, non pensi subito che il suo modo di vivere non ha importanza, visto che egli non può, con le sue opere impedire, o far avanzare la Predestinazione di Dio? Pertanto ciascuno si abbandonerà e si lascerà trasportare disordinatamente ovunque la sua cupidigia lo conduca.
Una tale affermazione non è falsa del tutto, poiché vi sono certi porci che infangando la dottrina della predestinazione di Dio con simili bestemmie, e si fanno beffe di ogni ammonimento e rimostranza. Dio, dicono, sa bene quel che ha una volta per tutte, deciso di fare di noi: se ha deciso di salvarci, ci condurrà a suo tempo alla salvezza, se ha deciso di perdonarci, ci tormenteremmo invano per salvarci.
Ma la Scrittura, indicando con quanta riverenza e timore dobbiamo pensare a questo mistero, educargli di Dio ad un sentimento ben diverso e condanna la presunzione e la violenza di questa gente. Infatti essa non ci parla di predestinazione per renderci gonfi di temerarietà o per incitarci a penetrare con un ardimento illecito i segreti inaccessibili di Dio; ma piuttosto perché in umiltà e modestia noi impariamo a temere il suo giudizio e a magnificare la sua misericordia. Tutti i credenti si impegneranno dunque a far questo.
Il grugnito di quei porci è messo a tacere da san Paolo. Essi affermano che possono benissimo vivere in maniera dissoluta perché, se sono nel numero degli eletti, i loro peccati non li impediranno di giungere alla salvezza; al contrario, san Paolo insegna che il fine della nostra elezione è che conduciamo una vita santa ed irreprensibile (Ef. 1.4). Se lo scopo della nostra elezione è di vivere santamente, essa ci deve piuttosto spingere e stimolare a meditare la santità che a cercare pretesto di indifferenza. Non sono forse alquanto diverse queste due cose: non preoccuparsi di compiere il bene perché l'elezione basta alla salvezza, e l'uomo è eletto per darsi al bene? Come sopporteremo dunque simili bestemmie che rovesciano così malvagiamente tutto l'ordine della predestinazione?
Quanto all'altra obiezione, che cioè il riprovato da Dio si affaticherebbe invano cercando di vivere puramente e con tutta innocenza, devono convincersi che si tratta di menzogna spudorata. Infatti, da dove deriverebbe un simile tentativo, se non dall'elezione di Dio? Poiché tutti coloro che sono nel numero dei reprobi, essendo strumenti di obbrobrio, non cessano di provocare la collera di Dio con infiniti misfatti, e di confermare con segni evidenti il giudizio di Dio decretato contro di loro: altro che resistervi invano!
13. Altri ancora calunniano malignamente ed impudentemente questa dottrina, come se essa annullasse tutte le esortazioni a vivere bene e santamente. Accusa di cui sant'Agostino è stato vittima a suo tempo; ma se ne è molto ben liberato nel libro a Valentino, intitolato Correzione e grazia, la cui lettura potrà tranquillizzare tutti coloro che temono Dio. Accennerò qui ad una parte di esso, e questo soddisferà gli spiriti sobri e non litigiosi.
Abbiamo già visto quale araldo sia stato san Paolo per annunciare ad alta voce l'elezione gratuita di Dio; è stato forse da ciò raffreddato al punto da non poter ammonire né esortare? Questa brava gente, piena di zelo, paragoni la sua vivacità a quella dell'apostolo; non si troverà che ghiaccio, in loro, a confronto dell'ammirevole ardore che è in lui. Di fatto, le affermazioni che non siamo chiamati ad impurità (1 Ts. 4.7) ma a che ciascuno abbia in onore il suo corpo, e che siamo opera di Dio, creati per le buone opere che egli ha preparate per farci camminare in esse (Ef. 2.10) , tolgono ogni dubbio. Insomma, chiunque abbia una certa dimestichezza con san Paolo, capirà come egli accordi le cose che quegli imbroglioni vogliono far credere
Contraddittorie. Gesù Cristo ordina che si creda in lui; tuttavia quando dice che nessuno può arrivarvi se non gli è dato dal Padre (Gv. 6.65) , non dice nulla che non sia vero.
La predicazione prosegua dunque secondo il suo corso per condurre gli uomini alla fede, radicarli in essa e farveli perseverare; non impedisca però che la predestinazione sia conosciuta, affinché coloro che ubbidiscono all'evangelo non si inorgogliscano, come se ciò venisse da loro, ma si gloriino in Dio. Non senza ragione Gesù Cristo afferma: "Chi ha orecchie per udire, oda " (Mt. 13.9). Così quando predichiamo ed esortiamo, coloro che hanno orecchie ubbidiscono volentieri; in quanto agli altri, si compie in loro quel che dice Isaia che, udendo, non odono (Is. 6.9). "E perché gli uni hanno orecchie "dice sant'Agostino "e gli altri no? Chi conosce la decisione del Signore? Bisogna dunque negare quel che è manifesto, quando non si può capire quel che è occulto? ".
Queste affermazioni sono tratte fedelmente da sant'Agostino; ma poiché le sue testuali parole avranno maggiore autorità delle mie, le citerò secondo le necessità. "Se alcuni "dice "divengono noncuranti e vili Cl. Pretesto della predestinazione, e si lasciano andare alle loro concupiscenze secondo la loro inclinazione, bisogna forse ritenere che quel che si afferma intorno alla predestinazione è falso? Se Dio ha previsto che saranno buoni, lo saranno, a qualunque malvagità siano ora dediti; e se ha previsto che saranno malvagi lo saranno, qualunque sia la bontà in cui oggi camminano. Bisogna dunque negare o nascondere quel che veramente ha da esser detto intorno alla prescienza di Dio, soprattutto quando, tacendo, si dà occasione ad altri errori? "E "Il sopprimere quel che è vero è cosa diversa dalla necessità di delucidarlo. Sarebbe lungo cercare tutti i motivi per tacerci la verità. Ve n'è uno fra gli altri: è affinché coloro che non odono non peggiorino, quando desideriamo istruire coloro che possono esserlo. Quelle persone, quando parleremo della predestinazione, non ne saranno rese più edotte, ma neanche peggioreranno. Posto il caso che la verità comporti che, quando la annunciamo, colui che non la può capire peggiori e che, se la teniamo sepolta, colui che la potrebbe capire ne abbia un danno, che cosa pensiamo si debba fare? Non bisognerà piuttosto dire quel che è vero, affinché coloro dai quali potrà essere inteso lo capiscano, piuttosto che tacere lasciando entrambi all'oscuro, e lasciare che chi è più in grado di capire peggiori a causa del nostro silenzio mentre, se ricevesse insegnamento, parecchi altri imparerebbero da lui? Rifiutiamo forse di dire quel che la Scrittura attesta essere lecito, Cl. Pretesto che temiamo che colui il quale non è in grado di avvantaggiarsene ne sia danneggiato? Ma non temiamo che colui il quale potrebbe capirlo cada in uno stato di falsità per colpa del nostro silenzio? ".
In seguito egli conferma con maggior chiarezza il suo dire con una breve conclusione: "Se gli Apostoli, dice, e i Dottori della Chiesa che li hanno seguiti hanno entrambi raccomandato di esporre chiaramente l'elezione eterna di Dio e di mantenere i credenti in una norma di vita santa, perché questi nuovi Dottori, costretti e convinti dalla forza invincibile della verità, affermano che non bisogna predicare al popolo la predestinazione, anche se quel che se ne dice è vero? Ma bisogna predicarla a qualunque costo, affinché coloro che hanno orecchie per udire odano. E chi le avrà, se non le riceve da colui che ha promesso di darle? Perciò colui che non ha ricevuto un tal dono respinga la buona dottrina, a condizione che colui che lo ha ricevuto l'accetti e ne beva, ne beva per viverne. Infatti, come bisogna predicare le buone opere affinché Dio sia servito come si conviene così bisogna predicare la predestinazione affinché colui che ha orecchie per udire si glorii in Dio e non in se ".
14. Tuttavia, questo santo dottore che aveva un singolare desiderio di edificare, avverte che è bene moderare alquanto il modo di insegnare la verità, onde guardarsi, per quanto possibile, dallo scandalizzare. Fa notare che quel che si dice in tutta verità, può ben essere conforme all'utilità: "Se taluno si rivolgesse al popolo in questi termini: "Se non credete, è perché siete predestinati a perire "non solo alimenterebbe la pigrizia, ma lusingherebbe anche la malvagità. Se poi andasse oltre, dicendo che se non crederanno neanche in futuro dimostreranno di esser riprovati, sarebbe un maledire anziché un insegnare ". Così sant'Agostino ammette che quelle persone siano da respingere come prive di idee e come motivo di turbamento per i semplici: tuttavia afferma che nessuno si avvantaggia nella correzione, se colui che può far avvantaggiare anche senza correzione non viene in aiuto con la sua compassione. In quanto al perché aiuta l'uno e non l'altro, non è argomento di cui l'argilla possa giudicare sostituendosi al vasaio. Aggiunge subito dopo: "Quando gli uomini, per mezzo della predicazione, vengono o tornano nella via della giustizia, chi opera nei loro cuori per dar loro salvezza, se non colui che fa crescere quando i ministri piantano o innaffiano? Orbene, se gli piace salvare, non c'è nessun libero arbitrio che gli resista. Perciò non vi è dubbio che le volontà degli uomini non possono resistere a quella di Dio, il quale fa tutto quel che vuole in cielo e in terra, e che anzi ha fatto quel che deve ancora venire, visto che fa quel che gli pare delle volontà degli uomini ". E ancora: "Quando vuole condurre gli uomini, forse li lega con dei legami corporei? Anzi, tiene i cuori dall'interno, li spinge e li tira per mezzo delle loro volontà, che egli ha formate in loro ".
Ma non bisogna dimenticare quel che aggiunge: "Poiché non sappiamo chi appartiene o no al numero e alla compagnia dei predestinati, dobbiamo essere inclini ad augurare la salvezza di tutti. Se le cose stanno così, cercheremo di rendere partecipi della nostra pace tutti coloro che incontriamo. Per il resto, essa non riposerà che su coloro che sono figli di pace. In breve, per quanto sta in noi, dobbiamo usare, come medicina, una correzione salubre e severa verso tutti, affinché non periscano o perdano gli altri; ma spetta a Dio rendere la nostra correzione utile a coloro che Egli ha predestinato ".
CAPITOLO 24
L'ELEZIONE È CONFERMATA DALLA VOCAZIONE DI DIO; AL CONTRARIO, I REPROBI ATTIRANO SU DI SÉ LA GIUSTA PERDIZIONE CUI SONO DESTINATI
1. Per meglio chiarire la cosa, gioverà trattare qui sia della vocazione degli eletti sia dell'accecamento e dell'induramento dei reprobi. Ho già affrontato il primo punto confutando l'errore di coloro che, Cl. Pretesto della generalità delle promesse, vorrebbero livellare tutto il genere umano. Ma Dio mantiene il suo ordine, rendendo finalmente chiara con la sua vocazione la grazia che prima teneva nascosta in sé. Si può dunque dire che, chiamando, egli attesta la sua elezione. Infatti ha preordinato coloro che aveva preconosciuti, perché siano conformi all'immagine di suo figlio. Ma coloro che ha preordinati li ha pure chiamati, e coloro che ha chiamati li ha giustificati per glorificarli (Ro 8.29).
Benché il Signore, eleggendo i suoi, li abbia adottati come suoi figli, vediamo che essi vengono in possesso di un così gran bene solo quando egli li chiama. D'altra parte, essendo chiamati, godono già in qualche modo della loro elezione. Per questo motivo san Paolo chiama lo Spirito che ricevono "Spirito di adozione " (Ro 8.15) , e ancora "sigillo e pegno dell'eredità futura " (Ef. 1.13) , in quanto, con la sua testimonianza, conferma e sigilla nei loro cuori la certezza di una tale adozione. Sebbene la predicazione dell'evangelo sgorghi dall'elezione, essendo comune anche ai reprobi essa non ne sarebbe, di per se, una prova abbastanza certa. Ma Dio istruisce i suoi eletti con efficacia, per attirarli alla fede, come abbiamo detto precedentemente: "Colui che è da Dio, e non un altro, ha visto il Padre ", (Gv. 6.463. E: "Ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati " (Gv. 17.6); infatti dice altrove: "Nessuno può venire a me, se non è attirato dal Padre " (Gv. 6.44). Passo che sant'Agostino interpreta esattamente quando dice: "Se, come attesta la verità dell'evangelo, colui che ha imparato dal Padre viene, chiunque non viene, non ha imparato dal Padre. Non ne deriva dunque che colui che può venire venga di fatto, se non lo vuole e non lo fa. Ma chiunque ha ricevuto l'insegnamento del Padre non solo può venire, ma viene di fatto. E allora concorrono l'avanzare della possibilità, la disposizione della volontà e l'effetto dell'azione ". Parla ancora più chiaramente in un altro passo: "Che cosa significa: chiunque ha udito da mio Padre ed ha imparato viene a me, se non che nessuno ode e impara dal Padre senza venire a Gesù Cristo? Infatti se tutti coloro che odono e imparano vengono, chiunque non viene non ha udito né appreso; poiché se avesse udito e appreso, verrebbe. Questa scuola in cui il Padre insegna ed è ascoltato, e conduce a suo figlio, è molto lontana dai sensi della carne ". Poco oltre aggiunge: "Quella grazia, data segretamente ai cuori degli uomini, non è ricevuta da un cuore indurito, poiché essa è data affinché la durezza del cuore sia vinta. Perciò quando il Padre è udito interiormente, toglie il cuore di pietra e ne dà uno di carne. Ed ecco come crea i figli della promessa e gli strumenti di misericordia che ha preparati per la gloria. Perché dunque non istruisce tutti gli uomini per farli venire a Cristo, se non perché l'istruire gli uni è un suo atto di misericordia, e il non istruire gli altri un suo atto di giudizio, in quanto egli ha pietà di chi gli pare, e indura coloro che vuole indurare? ".
Il Signore dunque sceglie per figli suoi quelli che elegge, e decide di essere un padre per loro; chiamandoli li introduce nella sua famiglia, e si congiunge ed unisce ad essi, perché diventino come una sola persona. Ora la Scrittura, congiungendo in tal modo la vocazione con l'elezione, dimostra che non bisogna cercare ad essa altra spiegazione all'infuori della misericordia gratuita di Dio. Se chiediamo chi egli chiama e per quale motivo, essa risponde: coloro che ha scelti. Quando si considera l'elezione, vi appare in ogni punto la sola misericordia, secondo quanto affermano le parole di san Paolo, che non dipende né da chi vuole, né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia (Ro 9.16).
E non bisogna intendere ciò come si fa di solito, associando la grazia di Dio, la volontà e l'impegno dell'uomo. Poiché si afferma che né il desiderio né lo sforzo dell'uomo possono qualcosa, se la grazia di Dio non li fa prosperare; ma se Dio aggiunge il suo aiuto, l'uno e l'altro hanno qualche significato per acquistare salvezza. Preferisco confutare un simile cavillo con le parole di sant'Agostino che con le mie: "Se l'Apostolo ha voluto semplicemente dire che ciò non risiede nella facoltà di chi vuole o di chi corre, se il Signore non aiuta con la sua misericordia, potremo ritorcere e dire che ciò non risiede nella sola misericordia di Dio, se essa non è aiutata dalla volontà e dal correre dell'uomo. Se è chiaro che questa è una cattiva interpretazione, non bisogna dubitare che l'Apostolo abbia voluto assegnare tutto alla misericordia di Dio, senza lasciare nulla alla nostra volontà o iniziativa ". Ecco le parole di quel sant'uomo.
Non do alcun valore alla sottigliezza che mettono avanti quando dicono che san Paolo non avrebbe parlato così, se non ci fosse in noi un qualche sforzo di volontà. Egli infatti non ha considerato quel che è nell'uomo; ma vedendo che taluni assegnavano in parte la salvezza degli uomini al loro sforzo, nella prima parte del suo discorso egli semplicemente condanna il loro errore, poi continua ad affermare che tutto il centro della salvezza risiede nella misericordia di Dio. E che altro fanno i profeti, se non predicare del continuo la elezione gratuita di Dio?
2. Lo vediamo anche nella sostanza di quella vocazione; essa consiste infatti nella predicazione della Parola e nell'illuminazione dello Spirito Santo. E il Profeta ci dice a chi il nostro Signore offre la sua parola: "Sono stato trovato "dice "da coloro che non mi cercavano; sono apparso a coloro che non mi interrogavano. Ho detto a coloro che non invocavano il mio nome: Eccomi " (Is. 65.1). E affinché i Giudei non ritenessero che una tal grazia appartiene soltanto ai Gentili, il Signore ricorda loro da dove ha tratto il loro padre Abramo, quando ha voluto riceverlo nel suo amore, cioè dal bel mezzo dell'idolatria, in cui era come sprofondato con tutta la sua famiglia (Gs. 24.3).
Illuminando con la sua parola coloro che non hanno meritato nulla, Dio dà un segno abbastanza chiaro della sua bontà gratuita. In questo si rivela la bontà sua infinita; ma non è per la salvezza di tutti, in quanto la condanna dei reprobi sarà più grave, poiché hanno respinto la testimonianza dell'amore di Dio. Perciò Dio ritira da loro la potenza del suo Spirito, per dare maggior ris.lto alla sua grazia. Di conseguenza, la vocazione interiore è un pegno di salvezza che non può mentire. A ciò si riferisce l'affermazione di san Giovanni: "Sappiamo che siamo suoi figli per mezzo dello Spirito che ci ha dato " (1 Gv. 3.24). Onde la carne non si glorii del fatto che, essendo chiamata, gli risponde, afferma che non avremmo orecchie per udire né occhi per vedere, se Dio non ce li avesse dati. Inoltre, dice che ce li dà non secondo che ciascuno ne è degno, ma secondo la sua scelta. Abbiamo un notevole esempio di ciò in san Luca, dove è detto che i Giudei ed i Gentili udirono insieme la predicazione di san Paolo (At. 13.48). Ma sebbene tutti abbiano ricevuto il medesimo insegnamento, è detto che hanno creduto coloro che Dio aveva preordinati alla vita eterna. Non avremo dunque vergogna di negare la gratuità della vocazione, interamente sorretta dalla sola elezione?
3. Dobbiamo guardarci ora da due errori. Gli uni considerano l'uomo cooperante con Dio, in quanto egli ratificherebbe l'elezione di Dio accogliendola. Così, secondo loro, la volontà dell'uomo sarebbe al di sopra del consiglio di Dio. Come se la Scrittura si limitasse a dire che ci è dato di poter credere, e non piuttosto che la fede è in tutto un dono di Dio. Gli altri, indotti da non so quale ragione, fanno dipendere l'elezione dalla fede, come se non ci fosse certezza né sicurezza finché non si crede. È vero che essa, dal nostro punto di vista, è confermata dal credere, e che il consiglio di Dio, che prima era nascosto, ci è manifestato; ma guardiamoci dall'intendere cosa diversa da quel che abbiamo detto sopra, che cioè l'adozione di Dio, prima sconosciuta, ci viene mostrata e come suggellata.
Ma è falso dire che l'elezione comincia ad avere la sua efficacia quando riceviamo l'Evangelo, e che essa trae da lì la sua forza. Quanto a noi, come ho detto, dobbiamo trarre dall'evangelo la certezza dell'elezione, perché se tentiamo di penetrare nel decreto eterno di Dio, esso sarà per noi un abisso che ci inghiotte. Ma dopo che Dio ci ha attestato e fatto conoscere che siamo fra i suoi eletti, conviene salire più su, per paura che l'effetto non seppellisca la sua causa. Nulla è più ragionevole, quando la Scrittura ci dice che ci ha illuminati secondo che ci aveva eletti, del lasciarci abbagliare da quella luce al punto di rifiutare di pensare alla nostra elezione.
Ammetto che per esser certi della nostra salvezza dobbiamo cominciare dalla Parola, e tutta la nostra fiducia deve appoggiarsi ad essa e riposare in essa, perché invochiamo Dio come nostro padre. Infatti coloro che vogliono svolazzare sulle nubi per esser certi della determinazione che Dio ci ha messo in cuore e sulla bocca (De 30.14)  pervertono ogni ordine. È: dunque necessario tenere a freno la nostra temerità mediante una sobrietà di fede, affinché Dio ci basti con la testimonianza della sua grazia nascosta, quando ce la afferma attraverso la sua parola; a condizione che quel canale attraverso il quale siamo alimentati non sottragga alla vera sorgente l'onore che le spetta.
4. Sbagliano coloro che insegnano che la forza e la certezza dell'elezione dipende dalla fede, per mezzo della quale sentiamo che essa ci appartiene; invece sarà bene, cercando di aver certezza della nostra elezione, attenerci a quei segni che ne sono una testimonianza sicura. La tentazione più grave e pericolosa di cui il diavolo dispone, per colpire i credenti, consiste nel gettarli nell'inquietudine mettendo in dubbio la loro elezione e spingendoli a cercarla con assurda bramosia al di fuori della via. Considero un cercare fuori della giusta via il tentativo del povero uomo di penetrare nei segreti incomprensibili della sapienza divina e di indagare fin dall'inizio dell'eternità per sapere quel che il giudizio di Dio ha disposto a suo riguardo. In tal modo egli si precipita come in un vortice profondo dove annega, incappa come in trappole da cui non potrà mai liberarsi ed entra in una specie di notte tenebrosa da cui non potrà mai uscire. Ed è più che giusto che l'orgoglio insolente della ragione umana sia così punito di una orribile rovina, dal momento che esso tenta di elevarsi con la sua forza all'altezza della saggezza divina. E questa tentazione è tanto più pericolosa in quanto quasi tutti vi siamo inclini. Sono ben pochi a non essere turbati in cuor loro da questo interrogativo: da dove ti proviene la salvezza, se non dall'elezione di Dio? E questa elezione, come ti è rivelata? Se questo pensiero è entrato nella mente dell'uomo, ovvero lo tormenta grandemente oppure lo spaventa e annienta del tutto. Questo turbamento interiore è l'argomento più adatto a mostrare quanto sia perverso immaginare la predestinazione in quel modo. Poiché lo spirito dell'uomo non può essere infettato da errore più nocivo di quello che può distogliere la coscienza dalla tranquillità e dal riposo che deve avere in Dio. Questo argomento è come un mare e, se temiamo di perire in esso, evitiamo sopra ogni altra cosa quella roccia contro la quale non si può urtare senza che accada un disastro.
Benché questa discussione sulla predestinazione sia considerata un mare pericoloso, la navigazione vi è tuttavia sicura e tranquilla, anzi gioiosa, a meno che qualcuno si disponga di sua iniziativa a mettersi in pericolo. Come coloro che, per esser certi della loro elezione, penetrando nel consiglio eterno di Dio senza la guida della sua parola si precipitano e si cacciano in un abisso mortale, così coloro che la cercano rettamente nell'ordine in cui è indicata dalla Scrittura, ne traggono una singolare consolazione. Sia dunque questo il nostro modo di prenderne coscienza: cominciare dalla vocazione di Dio e finire con essa. Ciò non impedisce ai credenti di sapere che i benefici, che ricevono quotidianamente dalla mano di Dio, derivano dalla sua adozione segreta, come è detto in Isaia: "Tu hai fatto cose mirabili; i tuoi antichi pensieri sono veri e certi " (Is. 25.1). E il Signore vuole che l'adozione sia per noi come un pegno o un segno, che ci attesta tutto quel che è lecito sapere intorno alla sua decisione.
Affinché una tal testimonianza non paia debole a taluno, riflettiamo a quanta chiarezza e certezza ci porta. È a ragione che san Bernardo ne parla. Infatti dopo aver parlato dei reprobi dice: "l'intento di Dio rimane fermo. L'affermazione di pace è certa per coloro che lo temono, in quanto egli dissimula i loro peccati e ricompensa quel che fanno di bene, tanto che il male stesso si volge per loro ammirevolmente in bene. Chi accuserà gli eletti di Dio? Mi basta, come sola giustizia, l'aver propizio colui che ho offeso; tutto quel che egli ha deliberato di non imputarmi è come se non fosse mai stato ". E poco oltre: "Ecco il luogo di vero riposo, che a buon diritto possiamo chiamare camera, quando contempliamo un Dio non sconvolto dall'ira né agitato da cure, ma un Dio che ci fa conoscere la sua volontà buona, piacevole e perfetta. Una tal visione non spaventa, ma dà un senso di pace e di dolcezza. Essa non suscita bollenti curiosità, ma le abbatte tutte. Essa non agita i sensi, ma li rende tranquilli. Ecco il fondamento su cui dobbiamo rettamente riposare: Dio, pacificato, ci pacifica, poiché il nostro riposo è di saperlo pacificato con noi ".
5. Anzitutto, se vogliamo ottenere la clemenza paterna di Dio e la sua benevolenza, dobbiamo volgere gli occhi a Cristo nel quale, soltanto, il Padre si compiace (Mt. 3.17). Se cerchiamo la salvezza, la vita e l'immortalità del regno di Dio, non dobbiamo ricorrere ad altro, dato che lui solo è fonte di vita, porto di salvezza e erede del regno dei cieli. Ma l'elezione fa sì che, adottati da Dio come suoi figli, noi otteniamo salvezza e immortalità nella sua grazia e nel suo amore. Comunque si imposti il problema, si vedrà che lo scopo della nostra elezione non tende ad altro. Di conseguenza, quelli che Dio ha scelti come suoi figli, non è detto che li abbia scelti in se stessi, ma piuttosto nel suo Cristo (Ef. 1.4) , poiché non li poteva amare che in lui e non li poteva onorare della sua eredità se non mettendoli anzitutto in comunione con lui. E se siamo eletti in Cristo, non troveremo dunque in noi la certezza della nostra elezione, e neanche in Dio Padre, se lo immaginiamo a se stante, senza suo figlio. Cristo dunque è come uno specchio, nel quale è opportuno che contempliamo la nostra elezione, e nel quale la contempleremo senza essere ingannati. Per il fatto che egli è colui nel quale il Padre celeste ha deciso di incorporare coloro che da ogni eternità ha voluto fossero suoi, per riconoscere come suoi figli tutti coloro che riconoscerebbe come membri di lui. Abbiamo una testimonianza chiara e evidente del nostro essere iscritti nel libro della vita, se abbiamo comunione con Cristo.
Orbene, questa comunione egli ha sufficientemente manifestata a noi quando attraverso la predicazione dell'evangelo ci ha attestato che ci viene dato dal Padre, per essere nostro con tutti i suoi beni (Ro 8.32). È detto che ci rivestiamo di lui, che siamo uniti a lui, che viviamo in quanto egli vive. Viene spesso ripetuta l'affermazione che il Padre celeste non ha risparmiato il suo unico figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca (Gv. 3.16. È anche detto che chiunque crede in lui è passato dalla morte alla vita (Gv. 5.24). In questo senso egli si definisce "pane di vita " (Gv. 6.35) , dicendo che chiunque ne mangerà non morrà. Egli ci attesta che tutti coloro, dai quali sarà accolto con vera fede, saranno considerati figli dal padre celeste. Se desideriamo qualcosa di più che essere figli e eredi di Dio, possiamo salire più in alto di Cristo. Ma se quello è il nostro obiettivo ultimo, non è forse insensato cercare all'infuori di Cristo quello che abbiamo già ottenuto in lui e che non si può che trovare in lui? Inoltre, poiché egli è la saggezza eterna del Padre, la verità immutabile, il fermo volere, non dobbiamo temere che quel che ci dichiara per bocca sua possa minimamente divergere dalla volontà del Padre, che noi ricerchiamo. Anzi, egli ce la manifesta fedelmente, quale è stata fin dall'inizio e quale deve essere sempre.
In pratica, questa dottrina deve avere il suo vigore anche nelle nostre preghiere. Sebbene la fede nella nostra elezione ci dia il coraggio di invocare Dio, sarebbe un atteggiamento sbagliato, quando dobbiamo presentare le nostre richieste, affermare: Mio Dio, se sono eletto, esaudiscimi. Al contrario, egli ci vuole paghi delle sue promesse senza che cerchiamo altrove se ci sarà favorevole o meno. Un simile discernimento ci libererà da molte pastoie, quando sapremo mettere in pratica in modo giusto quel che è scritto, senza tirarlo sconsideratamente qua e là.
6. Il fatto che la certezza della nostra elezione sia congiunta alla nostra vocazione, giova considerevolmente a rafforzare la nostra fiducia. Infatti è detto che Cristo riceve sotto la sua protezione e tutela coloro che ha illuminati nella sua conoscenza e introdotti nella comunità della sua Chiesa. Inoltre è detto che il Padre gli ha affidato e dato in custodia tutti coloro che accoglie, perché li conduca a vita eterna (Gv. 6.37.39; 17.6.12). Che vogliamo di più? Il Signor Gesù proclama ad alta voce che il Padre gli ha affidato coloro che vuole che siano salvati. Perciò quando vogliamo sapere se Dio ha deciso di salvarci, cerchiamo di sapere se ci ha affidati a Cristo, da lui costituito unico salvatore di tutti i suoi. Se pensiamo di non sapere se Cristo ci ha ricevuti sotto la sua protezione, egli ci previene, risolvendo questo dubbio quando si presenta come pastore e dichiara che ci annovererà nel numero delle sue pecore se ascoltiamo la sua voce (Gv. 10.3). Accogliamo dunque Cristo, poiché egli si presenta a noi con tanta benignità e ci precede per accoglierci. Non c'è dubbio che egli ci terrà nel suo gregge e ci conserverà nel suo ovile.
Qualcuno farà notare che ci dobbiamo preoccupare per quel che ci può accadere e che, quando pensiamo al futuro, la nostra debolezza a ammonisce a stare in guardia. San Paolo afferma che Dio chiama coloro che ha eletti (Ro 8.30) , e il Signor Gesù dice che ce ne sono molti di chiamati e pochi di eletti (Mt. 22.14). In un altro passo ancora, san Paolo ci esorta a non essere troppo sicuri: "Colui che è in piedi stia attento a non cadere " (1 Co. 10.12). E: "Sei tu incorporato nella Chiesa di Dio? Non ti inorgoglire, ma temi; poiché il Signore te ne può allontanare per mettere un altro al tuo posto " (Ro 11.20). Infine l'esperienza ci insegna che la fede e la vocazione sono poca cosa se disgiunte dalla perseveranza, che non è data a tutti.
Rispondo che Cristo ci ha liberati da una simile perplessità. Queste promesse infatti sono senza dubbio riferite al futuro: "Tutto quel che il Padre mi ha dato viene a me; e quel che sarà venuto a me, io non lo getterò fuori " (Gv. 6.37). E "Questa è la volontà del Padre mio, che io non perda nulla di quello che mi ha dato, ma che risusciti tutto nell'ultimo giorno ", (Gv. 6.40). E "Le mie pecore ascoltano la mia voce e mi seguono. Io le conosco e do loro la vita eterna, e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha affidate è più forte di tutti; perciò nessuno le potrà rapire dalla sua mano " (Gv. 10.27). Inoltre, affermando che ogni albero che il Padre suo non avrà piantato sarà divelto (Mt. 15.13) intende dire, all'opposto, che non può accadere che coloro i quali sono fermamente radicati in Dio siano mai divelti. Analogo significato ha l'affermazione di san Giovanni: "Se fossero stati del nostro gregge, non si sarebbero mai allontanati da noi " (1 Gv. 2.19).
Per questo motivo san Paolo osa gloriarsi in modo singolare contro la vita e la morte, contro le cose presenti e future (Ro 8.38). In questo si vede che gli è stata data perseveranza. Egli stesso, inoltre, rivolge a tutti gli eletti queste parole: "Colui che ha iniziato in voi l'opera della vostra salvezza, la porterà a termine fino al giorno di Gesù Cristo " (Fl. 1.6. Così anche Davide, scosso nella sua fede da gravi tentazioni, trova un sostegno nell'affermare: "Signore, tu non tralascerai l'opera delle tue mani " (Sl. 138.8).
Inoltre è cosa certa che Gesù Cristo, pregando per tutti gli eletti, chiede per loro quel che aveva chiesto per Pietro: che la loro fede non venga meno (Lu 22.32). Ne concludiamo che non corrono il pericolo di una caduta mortale, visto che la richiesta del figlio di Dio, che rimanessero saldi, non è stata respinta. Che cosa Cristo ci ha voluto qui insegnare, se non renderci certi che avremo la salvezza eterna, poiché una volta siamo stati fatti suoi?
7. Si replicherà che ogni giorno si vedono persone che parevano appartenere a Cristo venir meno e cadere. Perfino nel passo in cui afferma che nessuno di coloro che gli erano stati dati dal Padre è perito, fa eccezione per il figlio di perdizione (Gv. 17.12).
Questo è vero; d'altra parte, un tal genere di persone non ha mai aderito a Cristo con una fiducia di cuore simile a quella che ci fa dire che la nostra elezione ci è resa certa. "Costoro "dice san Giovanni "si sono allontanati da noi, ma non erano dei nostri. Poiché se lo fossero stati, sarebbero rimasti con noi " (1 Gv. 2.19). Certamente hanno delle manifestazioni esteriori affini a quelle degli eletti; ma non concedo loro quel fondamento certo della propria elezione che i credenti devono attingere, secondo me, dalla parola dell'evangelo. Non lasciamoci turbare da questi esempi, ma atteniamoci con sicurezza a quelle promesse in cui il Signor Gesù afferma che il Padre gli ha affidato tutti coloro da cui è accolto con vera fede, e che nessuno di loro perirà, poiché egli ne è guardiano e protettore (Gv. 3.16; 6.39). Parlerò altrove di Giuda.
Quanto a san Paolo, non ci proibisce ogni certezza, ma quella sicurezza che proviene dalla carne e che implica orgoglio, insolenza, disprezzo degli altri, che spegne l'umiltà e il timor di Dio e induce a dimenticare le sue grazie. In quel passo si rivolge ai Gentili, che rimprovera, perché non devono insultare i Giudei con arroganza e mancanza di umanità, in quanto erano stati messi al loro posto mentre quelli ne erano stati allontanati. Parimenti, non richiede un timore che ci faccia vacillare con paura ma che, insegnandoci a riverire umilmente la grazia di Dio, non diminuisca per nulla la fiducia che abbiamo in lui, come è stato detto altrove.
Inoltre, egli non rivolge il suo ammonimento ai singoli, ma alle sette che esistevano allora. Poiché la Chiesa era divis. In due e l'orgoglio e l'invidia erano causa della separazione; san Paolo ricorda ai pagani che se sono stati messi al posto del popolo santo e erede della promessa, questo li deve indurre al timore e all'umiltà, poiché molti erano pieni di orgoglio e di presunzione, ed era opportuno smorzare la loro vacua presunzione.
Del resto, abbiamo già visto che la nostra speranza deve proiettarsi nell'avvenire, anzi oltre la morte, e che nulla è più contrario alla sua natura dell'essere in preda a incertezza e preoccupazione, come se non sapessimo quel che sarà di noi.
8. Riguardo all'affermazione di Cristo, che molti sono chiamati e pochi eletti (Mt. 22.14) non darà luogo ad ambiguità se ci ricordiamo di quel che ci deve essere abbastanza chiaro, che cioè ci sono due specie di vocazione.
C'è la vocazione universale, che risiede nella predicazione esteriore dell'evangelo, per mezzo della quale il Signore invita a se, indifferentemente, tutti gli uomini, anche coloro ai quali l'offre per la morte e come prova di grave condanna.
C'è una vocazione speciale, di cui rende partecipi i soli credenti, quando per mezzo della luce interiore del suo Spirito fa in modo che il suo insegnamento sia radicato nei loro cuori; benché, talvolta, si valga di una simile vocazione anche verso coloro che illumina per un certo tempo e che poi, a causa della loro ingratitudine, tralascia e getta in un più grande accecamento.
Il Signor Gesù, vedendo che l'Evangelo era allora annunciato a parecchia gente ma che era respinto da molti, disprezzato da altri e che poche persone lo avevano in onore, ci raffigura Dio sotto l'aspetto di un re che, volendo fare un solenne banchetto, manda i suoi servi qua e là per invitare una grande moltitudine; ma nessuno promette di venire, perché ognuno adduce i suoi impegni; così egli è costretto, al loro rifiuto, a mandare a chiamare tutti coloro che si possono incontrare per strada (Mt. 22.2). È chiaro che fino a questo punto la parabola si deve interpretare come riferita alla vocazione esteriore. Aggiunge poi che Dio, secondo l'uso di coloro che ricevono degli ospiti, va di tavola in tavola per festeggiare tutti quelli che riceve al suo banchetto. Se trova qualcuno che non ha indossato il vestito più bello, dice che non ammetterà che il suo banchetto venga disonorato, e che lo caccerà fuori. Penso che questo passo della parabola deve riferirsi a coloro che fanno professione di fede e sono così ricevuti nella Chiesa, ma non sono tuttavia rivestiti della santificazione di Cristo. È detto perciò che il Signore non tollererà a lungo simili pesti, che non fanno altro che diffamare la sua Chiesa, ma che le caccerà fuori, come merita la loro infamia.
Pochi sono dunque scelti, da un gran numero che sarà stato chiamato, ma chiamato non di quella vocazione sulla quale insegniamo che i credenti devono fondare la loro elezione. Quella di cui si parla lì appartiene anche agli iniqui; la seconda porta con se lo Spirito di rigenerazione, pegno e sigillo dell'eredità futura, per mezzo del quale i nostri cuori sono segnati fino al giorno della risurrezione (Ef. 1.13.14).
Insomma, poiché gli ipocriti si vantano di essere gente dabbene quanto i veri servitori di Dio, Gesù Cristo afferma che alla fine saranno cacciati dal posto che occupano ingiustamente, secondo quanto è detto nel Salmo: "Signore, chi abiterà nel tuo santuario? Colui che è di mano innocente e puro di cuore " (Sl. 15.1). E "Tale è la generazione di coloro che cercano Dio, che cercano il volto del Dio di Giacobbe " (Sl. 24.6). Con questo mezzo lo Spirito Santo esorta i credenti alla pazienza, perché non dispiaccia loro che gli Ismaeliti siano mescolati con loro nella Chiesa, visto che alla fine la maschera sarà loro tolta e saranno sterminati con vergogna.
9. Perciò Cristo fa l'eccezione di cui si è parlato, quando dice che nessuna delle sue pecore è perita all'infuori di Giuda (Gv. 17.12). Infatti era incluso fra le pecore di Cristo, non perché lo fosse veramente ma perché era nel gruppo dei discepoli. In un altro passo il Signore dice che lo aveva eletto con gli altri apostoli, ma ciò è da riferire soltanto al ruolo che ricopriva: "Ho scelto voi dodici "dice "e uno di voi è diavolo " (Gv. 6.70) : infatti lo aveva costituito apostolo. Ma parlando dell'elezione alla salvezza, lo separa dal numero degli eletti: "Non parlo di tutti, so chi ho scelto " (Gv. 13.18). Se qualcuno fraintende il termine "elezione "in questi passi, si troverà in imbarazzo; se invece lo sa interpretare, non vi è nulla di più facile.
San Gregorio si è dunque espresso molto impropriamente, quando dice che conosciamo la nostra vocazione ma siamo incerti sulla nostra elezione: ci esorta quindi al timore ed al tremore, dicendo che sappiamo bene quel che oggi siamo, ma ignoriamo quel che saremo domani. Dal procedere del suo discorso si vede chiaramente come si è ingannato poiché, fondando l'elezione sul merito delle opere, aveva sufficienti argomenti per spaventare gli uomini e disorientarli; mentre non poteva renderli saldi poiché non li rimandava alla fiducia nella bontà di Dio.
Da ciò i credenti possono in qualche modo comprendere quel che abbiamo detto all'inizio, che cioè la predestinazione, se è ben meditata, non turba né scrolla la fede, ma piuttosto la conferma.
Non escludo tuttavia che, talvolta, lo Spirito Santo adatti le sue parole all'ignoranza del nostro intendimento, come quando dice: "Essi non saranno più nel consiglio del mio popolo, non saranno più iscritti nel registro dei miei servitori " (Ez. 13.9). Infatti è come se cominciasse a scrivere nel libro della vita quelli che vuol riconoscere per suoi, poiché, secondo la testimonianza di Gesù Cristo, i nomi dei figli di Dio sono stati registrati fino dall'inizio nel libro della vita (Fl. 4.3). Ma la reiezione degli Ebrei, che per un certo tempo erano stati considerati i pilastri della Chiesa, è indicata dalle parole del Salmo: "Siano cancellati dal libro della vita, e non siano iscritti con i giusti " (Sl. 69.29).
10. Gli eletti non vengono tutti inseriti dalla chiamata del Signore nel gregge di Cristo fin dal ventre materno, né ad un medesimo momento, ma nel modo in cui piace a Dio di dispensare loro la sua grazia. Prima dunque che siano convertiti a questo sovrano pastore, sono errabondi come gli altri e dispersi nella dispersione di questo mondo, senza differire in nulla dagli altri se non per il fatto che la singolare compassione di Dio li preserva onde non abbiano a cadere in rovina eterna. Se li esaminiamo, vedremo dunque in loro la razza di Adamo, la quale non può che risentire della perversità della sua origine. Il fatto che incorrano in una empietà estrema e senza speranza, non è dovuto a una qualche loro bontà naturale, ma all'occhio del Signore che veglia sulla loro salvezza e alla sua mano che si distende per condurveli.
Coloro infatti che immaginano di avere non so qual seme di elezione radicato nei loro cuori fin dalla nascita, e che in tal modo sono sempre inclini al timor di Dio, non traggono dalla Scrittura alcuna autorità per provare la loro opinione, e l'esperienza stessa li convince di errore. Si valgono tuttavia di qualche esempio per provare che alcuni degli eletti non sono stati affatto senza religione prima di essere rettamente illuminati; citano san Paolo, irreprensibile nel suo fariseismo (Fl. 3.5) , e il centurione Cornelio, gradito a Dio per le sue elemosine e per le sue preghiere (At. 10.2). Riguardo a san Paolo approvo quel che dicono; riguardo a Cornelio, dico che si ingannano. Poiché già allora era rigenerato ed illuminato al punto che non gli mancava più nulla, all'infuori di una più chiara rivelazione dell'evangelo. Ma che cosa otterranno infine, quando avremo loro concesso una dozzina di questi esempi? Concluderanno che tutti gli eletti di Dio hanno avuto un medesimo spirito? È come se qualcuno, avendo dimostrato l'integrità di Socrate, Aristide, Senocrate, Scipione, Curio, Camillo ed altri pagani, ne volesse dedurre che tutti coloro che sono stati accecati nell'idolatria, hanno condotto una vita santa ed integra. A parte il fatto che la loro argomentazione non è valida, la Scrittura li contraddice palesemente in parecchi passi. Infatti la condizione che san Paolo descrive come caratteristica degli Efesini prima della loro rigenerazione, non lascia vedere traccia di questo seme: "Eravate "dice "morti nei falli e nei peccati, nei quali camminavate secondo l'andazzo di questo mondo e secondo il diavolo, il quale opera ora nei ribelli; e noi eravamo fra quelli, assecondando le concupiscenze della nostra carne e del nostro pensiero, ed eravamo tutti per natura eredi dell'ira di Dio, come gli altri " (Ef. 2.1.3). E: "Ricordatevi che un tempo siete stati senza speranza e senza Dio, in questo mondo " (Ef. 2.12). E: "Un tempo eravate tenebre; ora, poiché siete luce in Dio, camminate come figli di luce " (Ef. 5.8).
Diranno forse che questo si deve riferire all'ignoranza del vero Dio, in cui riconoscono che gli eletti sono imprigionati prima della loro chiamata. Ma questa è una calunnia spudorata, dato che san Paolo deduce da quella affermazione che gli Efesini non devono più mentire né rubare (Ef. 4.28). Quand'anche glielo concedessimo, che risponderanno ad altri passi? Come quando, avendo affermato ai Corinzi che gli idolatri, i fornicatori, gli adulteri, gli effeminati, i mascalzoni, i ladri e gli avari non possederanno il regno di Dio, subito aggiunge che sono stati avvolti in questi misfatti prima di aver conosciuto Cristo; ma che ora ne sono ripuliti dal suo sangue e liberati dal suo Spirito (1 Co. 6.9.2). E, ai Romani: "Come avete abbandonato le vostre membra al servizio dell'impurità e dell'iniquità, mettetele ora al servizio della giustizia. E che frutto avete ricavato dalla vostra vita precedente, vita di cui ora vi vergognate? " (Ro 6.19).

2. Quale germe di elezione, vi prego, fruttificava in coloro che, conducendo una vita completamente malvagia, con cattiveria quasi disperata si erano dati al peccato più esecrabile del mondo? Se l'Apostolo avesse voluto parlare in maniera conforme a questi nuovi dottori, avrebbe dovuto indicare loro di quanto fossero debitori a Dio di non averli lasciati cadere in simile bassezza. Parimenti san Pietro doveva esortare coloro ai quali scriveva lLa sua epistola a render grazie a Dio di averli preservati dando loro fin dall'inizio un germe di santità. Invece li ammonisce che è più che sufficiente che in passato abbiano allentato la briglia ad ogni malvagia concupiscenza (1 Pi. 4.3).
E che ne sarà se adduciamo degli esempi? Quale seme c'era in Raab la meretrice, prima della fede? (Gs. 2.1). Ed in Manasse, mentre spandeva il sangue dei profeti fino a farne straripare la città di Gerusalemme? (4 Re 21.16. E nel brigante che giunse al pentimento al momento di rendere lo spirito? (Lu 23.42). Ma tralasciamo queste invenzioni prive di fondamento, che queste intelligenze curiose si costruiscono al di fuori della Scrittura. Atteniamoci piuttosto fermamente al contenuto di quest'ultima, che cioè siamo stati simili a povere pecore smarrite, e che ciascuno di noi si è allontanato dalla sua strada, cioè si è perso (Is. 53.6); e da questo abisso di perdizione il Signore ritrae chi gli pare, non in una volta sola, ma differendo, a suo giudizio, il suo intervento; mentre preserva costoro dall'incespicare in una bestemmia irremissibile.
12. Il Signore per virtù della sua chiamata, guida i suoi eletti alla salvezza cui li aveva preordinati per la sua decisione eterna; d'altra parte, compie i suoi giudizi sui reprobi, mediante i quali esegue quel che ha stabilito di fare di loro. Perciò priva della facoltà di intendere la sua parola coloro che ha creati per la condanna e la morte eterna, affinché siano strumenti della sua ira e esempi della sua severità, oppure li acceca e indurisce maggiormente attraverso la predicazione di essa, per farli pervenire allo scopo per il quale sono stati creati.
Infiniti sono gli esempi del primo caso: ma ne sceglieremo uno notevole fra tutti gli altri. Sono trascorsi più di quattromila anni prima dell'avvento di Cristo, durante i quali il Signore ha sempre nascosto a tutti la luce della sua dottrina di salvezza. Se qualcuno adduce che non ha fatto gli uomini di quel tempo partecipi di un tal bene, perché li considerava indegni, i successori non ne sono maggiormente degni. Ne abbiamo certissima testimonianza nel profeta Malachia, oltre che nell'esperienza. Dopo aver redarguito l'incredulità, le enormi bestemmie e altri delitti del suo popolo, egli afferma che, malgrado ciò, il Redentore verrà (Ma.4.1). Perché dunque ha fatto questa grazia agli uni piuttosto che agli altri? Se qualcuno vuole cercare qui un motivo più alto della decisione segreta e occulta di Dio, si tormenterà invano. Non bisogna credere che qualche discepolo di Porfirio o qualche altro bestemmiatore sia libero di denigrare la giustizia di Dio, per il fatto che non controbattiamo. Infatti quando affermiamo che nessuno perisce senza averlo meritato, e che è per bontà gratuita di Dio che taluni sono liberati dalla condanna, questo basta per affermare la sua gloria, che non ha bisogno di essere difesa dalle nostre argomentazioni. In tal modo il giudice sovrano, privando della luce della sua verità e lasciando nell'accecamento coloro che ha riprovati, apre la strada alla sua predestinazione.
Quanto al secondo caso, ne facciamo quotidianamente l'esperienza e ne troviamo parecchi esempi nella Scrittura: su cento uomini che ascoltano lo stesso sermone, venti lo riceveranno nell'ubbidienza della fede, gli altri non ne terranno conto, se ne befferanno lo respingeranno e lo condanneranno. Se qualcuno afferma che questa diversità deriva dalla loro cattiveria e perversità, questo non risolve il problema perché una medesima cattiveria occuperebbe la mente di tutti, se il Signore non ne correggesse alcuni per mezzo della sua grazia. Pertanto rimarremmo sempre in imbarazzo se non ci fosse l'affermazione di san Paolo: "Chi è che ti distingue dagli altri? " (1 Co. 4.7) , affermazione con cui intende dire che se uno eccelle più dell'altro non è per virtù propria, ma per la sola grazia di Dio.
13. Perché, dunque, facendo grazia all'uno, lascia l'altro indietro? San Luca motiva la chiamata dei primi, dicendo che li aveva preordinati alla vita (At. 13.48). E che pensare degli altri, se non che sono strumenti della sua ira, per loro vituperio? Non vergogniamoci dunque di dire con sant'Agostino: "Dio potrebbe convertire in bene la volontà dei malvagi, essendo onnipotente. Di ciò non v'è dubbio. Perché dunque non lo fa? Perché non lo vuole. E il motivo per cui non lo vuole è nascosto in Dio "Infatti non dobbiamo sapere più di quanto conviene. Meglio così, piuttosto che tergiversare con Crisostomo e dire che egli attira colui che lo invoca e tende la mano per ricevere aiuto; e che pertanto la differenza non sta nel giudizio di Dio ma nel volere degli uomini. Insomma, l'avvicinarsi a Dio è così lungi dal risiedere in un moto spontaneo dell'uomo, che perfino i figli di Dio hanno bisogno di essere spinti da una ispirazione dello Spirito. Lidia, la venditrice di porpora, temeva Dio; tuttavia è stato necessario che il suo cuore venisse aperto dall'alto perché fosse resa attenta all'insegnamento di san Paolo e ne traesse utilità (At. 16.14). Ciò non si riferisce soltanto a questa donna, ma è detto affinché sappiamo che ogni progresso nella fede e nella pietà è opera mirabile dello Spirito Santo.
Ma non si può mettere in dubbio che il Signore mandi la sua parola ad alcuni di cui sa che la cecità ha da essere aumentata. Perché faceva mandare tante ambasciate a Faraone? Forse sperava poter così addolcire il di lui cuore? Ma prima di cominciare sapeva quale sarebbe stata la conclusione, e lo aveva predetto: "Va "diceva a Mosè "ed esponigli la mia volontà. Ma io indurirò il suo cuore onde non obbedisca " (Es. 4.21). Analogamente, quando suscita Ezechiele, lo avverte che lo manda ad un popolo ribelle ed ostinato affinché non si meravigli di trovare le loro orecchie sorde (Ez. 2.3; 12.2). Predice parimenti a Geremia che il suo insegnamento sarà simile ad un fuoco che perde e dissipa il popolo come paglia (Gr 1.10).
Ma la profezia che troviamo in Isaia è ancora più forte. Infatti il Signore lo manda con quest'ordine: "Va' a dire ai figli d'Israele: "Ascoltate, sì, ma senza comprendere; guardate, sì, ma senza discernere". Indura il cuore di questo popolo, tappa le sue orecchie e fascia i suoi occhi, affinché non veda, non ascolti e non capisca, non si converta e non sia salvato " (Is. 6.9). Ecco in che modo rivolge loro la sua parola, ma è per renderli più sordi; fa loro vedere la luce, ma per renderli più ciechi; presenta loro il suo insegnamento, ma per stordirli maggiormente; dà loro un rimedio, ma affinché non guariscano. San Giovanni, adducendo questa profezia, dice che i Giudei non hanno potuto credere all'insegnamento di Cristo perché quella maledizione di Dio era su loro (Gv. 12.39).
Ed è indubbio che quando Dio non vuole illuminare qualcuno, gli presenta il suo insegnamento in maniera oscura, onde costui non ne tragga vantaggio ma timore e incomprensione. Cristo afferma che spiega soltanto ai suoi apostoli le parabole che aveva esposto al popolo, perché la grazia di conoscere i misteri del suo regno è data agli apostoli, e non agli altri (Mt. 13.2). E che vuole il Signore, ammaestrando coloro da cui non vuol esser inteso? Esaminiamo donde viene il peccato, e smetteremo di fare questa domanda. Perché per quanto oscuro sia l'insegnamento, ha sempre abbastanza luce per convincere le coscienze dei malvagi.
14. Ma rimane da vedere per quale ragione il Signore faccia questo, dato che è indubbio che lo fa.
Se si risponde che ciò accade perché gli uomini lo hanno meritato con la loro perversità ed ingratitudine, sarà questa una risposta giusta e vera. Ma poiché la ragione di una tale diversità non è evidente, per qual motivo cioè egli pieghi gli uni all'obbedienza e faccia persistere gli altri nell'indurimento, per dare una giusta risposta bisogna rifarsi a quello che San Paolo afferma intorno alla testimonianza di Mosè: Dio ha suscitato i reprobi fin dall'inizio per rivelare il suo nome su tutta la terra (Ro 9.17). Pertanto se i reprobi, avendo il regno di Dio aperto, non se ne curano, il loro rifiuto sarà rettamente addebitato alla loro perversità e malvagità, purché si aggiunga che sono stati asserviti ad una tal perversità in quanto il giudizio di Dio, equo ma incomprensibile, li ha suscitati per evidenziare la sua gloria attraverso la loro condanna.
Quando è detto dei figli di Eli che non hanno ascoltato gli ammonimenti salutari del loro padre perché il Signore voleva perderli (1 Re 2.25) , questo non significa che una tale ostinazione non derivi dalla loro malvagità; ma si vuole sottolineare perché sono stati lasciati in tale ostinazione, dal momento che Dio poteva aprire i loro cuori: perché il decreto immutabile di Dio li aveva fin dall'inizio destinati a perdizione. Analogo significato hanno le parole di san Giovanni: sebbene Gesù Cristo avesse compiuto molti miracoli, nessuno credette in lui, onde si avverasse la parola di Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? Egli non vuole assolvere gli increduli, come se non fossero colpevoli, si limita a sottolineare il fatto che gli uomini non trovino né gusto né sapore nella Parola di Dio, finché non sia loro dato dallo Spirito di assaporarla bene. E Gesù Cristo, adducendo la profezia di Isaia, che tutti saranno ammaestrati da Dio (Gv. 6.45) , non ha altro scopo che quello di indicare che i Giudei sono reprobi e stranieri alla Chiesa, in quanto non si lasciano ammaestrare, e non adduce altra ragione all'infuori di questa, che la promessa di Dio non appartiene loro. San Paolo lo conferma, dicendo che Gesù Cristo, scandalo per i Giudei e follia per i pagani, è tuttavia potenza e sapienza di Dio per coloro che sono chiamati (1 Co. 1.23). Dopo aver esposto quel che ordinariamente accade quando l'Evangelo è predicato, che cioè avvelena gli uni ed è vilipeso dagli altri, aggiunge che è apprezzato soltanto da coloro che sono chiamati. Li aveva sì poco prima chiamati credenti, ma non per togliere autorità alla grazia dell'elezione di Dio, la quale è anteriore alla fede; piuttosto, ha aggiunto questa precisazione per maggior chiarezza, onde coloro che avevano ricevuto l'Evangelo attribuissero la lode della loro fede alla vocazione di Dio, come dice anche poco oltre.
Quando i malvagi odono ciò, lamentano che Dio abusi delle sue povere creature esponendole crudelmente al gioco di una potenza disordinata. Ma noi, coscienti che gli uomini sono in tanti modi colpevoli dinanzi al tribunale di Dio, tanto che se li interrogasse su mille punti non saprebbero rispondere ad uno solo, riconosciamo che i reprobi non sono sottoposti a qualcosa che non si addica al suo giusto giudizio. Il fatto che non ne comprendiamo il motivo, lo dobbiamo accettare con pazienza senza rifiutarci di ignorare qualcosa laddove la sapienza di Dio innalza la sua grandezza.

15. Si è soliti citare, come obiezione, alcuni passi della Scrittura in cui pare che gli iniqui non periscano per decisione di Dio, se non buttandosi nella perdizione contro il suo volere e quasi suo malgrado; dobbiamo perciò spiegare brevemente tali passi per dimostrare che non contrastano Cl. Nostro insegnamento.
Si cita il passo di Ezechiele in cui è detto che Dio non vuole la morte del peccatore, ma vuole che si converta e viva (Ez. 33.2). Se si vuole estendere ciò a tutto il genere umano,
Mi chiedo perché egli non solleciti molti al pentimento, i cui cuori si piegherebbero più facilmente all'ubbidienza che non quelli di coloro che si indurano sempre più quando li invita quotidianamente. Gesù Cristo afferma che la sua predicazione e i suoi miracoli avrebbero portato più frutto a Ninive ed a Sodoma che in Giudea (Mt. 11.23). Se Dio vuole che tutti siano salvati, come mai non ha aperto la porta a quei poveretti, che sarebbero stati meglio disposti a ricevere la grazia, qualora fosse stata loro offerta? Questo passo è dunque travisato e come tirato per i capelli, se all'ombra delle parole del Profeta si vuole annullare la decisione eterna di Dio, con la quale il Signore ha separato i reprobi dagli eletti.
Cerchiamone ora il significato ovvio. Il suo intento è di dare a coloro che si pentiranno buona speranza di essere accolti nella grazia. Il succo è questo: i peccatori non devono dubitare che Dio li perdoni non appena si sono convertiti. Non vuole dunque la loro morte, se vuole la loro conversione. L'esperienza dimostra che per volere di Dio molti chiamati si pentono, ma non tutti i cuori sono toccati. Non che li inganni: sebbene infatti la voce esterna non serva che a rendere inescusabili coloro che l'odono senza ubbidirvi, tuttavia ha da essere considerata come vera testimonianza della grazia di Dio, per mezzo della quale egli riconcilia gli uomini a se. Cerchiamo dunque di intendere rettamente il Profeta, quando dice che Dio non si compiace della morte del peccatore: è affinché i credenti abbiano fiducia che Dio sarà sollecito nel perdonare le loro colpe, non appena si saranno pentiti, e gli schernitori sappiano al contrario che la loro colpa è tanto più grave, in quanto non rispondono ad una tal bontà e clemenza di Dio. Dio precederà sempre coloro che si convertono, offrendo loro il suo perdono; ma la conversione non è concessa a tutti, e ce lo indicano chiaramente Ez.chiele, i profeti e gli apostoli.
In secondo luogo si cita il passo in cui san Paolo dice che Dio vuole che tutti siano salvati (1 Ti. 2.4). Sebbene contenga qualche diversità rispetto all'affermazione del Profeta, c'è tuttavia una certa somiglianza.
Anzitutto è noto, dal contesto, in che modo Dio voglia la salvezza di tutti. San Paolo congiunge infatti queste due cose: Dio vuole che tutti siano salvati, e che vengano a conoscienza della verità. Se è stato deciso dal consiglio eterno di Dio che tutti siano resi partecipi della dottrina della salvezza, che diventerà l'affermazione di Mosè secondo la quale non c'è stato, nel mondo, popolo così nobile al quale Dio si sia avvicinato come ai Giudei? (De 4.7). Come mai Dio ha privato tante nazioni della luce del suo Evangelo, luce di cui ha fatto godere gli altri? Come mai la pura conoscenza della verità celeste non è mai giunta a molte persone, e gli altri ne hanno a stento assaporato qualche piccolo frammento?
A questo punto è facile capire quel che san Paolo intende. Aveva ordinato a Timoteo di fare solenni preghiere per i re e per i prìncipi. Poiché pareva strano pregare Dio per una categoria di persone così prive di speranza, in quanto non solo erano all'infuori della comunità dei credenti ma si sforzavano, per quanto era in loro potere, di opprimere il regno di Cristo, aggiunge che ciò è gradito a Dio, che vuol salvare tutti gli uomini. Con questo intende che non ha precluso la via della salvezza a nessuno, ma ha esteso a tal punto la sua misericordia da volerne rendere partecipi gli appartenenti ad ogni condizione.
Le altre testimonianze bibliche non svelano quel che il Signore ha deciso nel suo occulto giudizio, ma si limitano ad affermare che il perdono è preparato per tutti i peccatori che lo richiedono in vera penitenza. Se qualcuno infatti si ostina sul termine, laddove è detto che vuol far misericordia a tutti, risponderò che altrove è detto che il nostro Dio è nel cielo e di lì fa tutto quel che gli pare opportuno (Sl. 115.3). Bisogna dunque intendere questo termine coerentemente con l'altra affermazione: egli farà grazia a colui a cui farà grazia e avrà pietà di chi avrà pietà (Es. 33.19). Se sceglie coloro verso i quali deve usare misericordia, non la usa evidentemente verso tutti. Ma poiché san Paolo non si riferisce a ciascun uomo ma alle categorie e alle condizioni, mi astengo da più lunga disputa. Bisogna inoltre notare che san Paolo non si sofferma su quel che Dio fa in ogni circostanza, dappertutto e in tutti, ma avverte che dobbiamo lasciare che, nella sua libertà, egli attiri i re, i prìncipi ed i magistrati all'ubbidienza al suo insegnamento anche se per un certo tempo costoro sono come rabbiosi contro di essa poiché sono ciechi ed errano nelle tenebre.
Il passo in cui san Pietro dice che Dio non vuole che alcuno perisca, ma che riceve tutti coloro che si ravvedono (2 Pi. 3.9) , a prima vista pare in contrasto con le affermazioni precedenti, senonché il nodo è sciolto dal termine "ravvedersi ", in quanto non si può dire che Dio accolga il pentimento in un modo diverso da quello indicato attraverso tutta la Scrittura. Certo, la conversione degli uomini è nella sua mano. Gli si chieda se li vuol convertire tutti, dato che promette di dare un cuore di carne soltanto ad un piccolo numero, lasciando agli altri il loro cuore di pietra (Ez. 36.26). È vero che se non fosse pronto a ricevere coloro che trovano il loro rifugio nella sua misericordia, l'affermazione: "Convertitevi a me ed io mi convertirò a voi " (Za. 1.3) sarebbe priva di senso. Ma ripeto che nessuno s'avvicina mai a Dio senza essere prevenuto ed attirato da lui. Infatti, se il pentimento dipendesse dall'arbitrio dell'uomo, san Paolo non direbbe che bisogna provare se Dio darà il pentimento a coloro che sono stati induriti (2Ti 2.25). Anzi se non fosse Dio ad attirare per segreta ispirazione i suoi eletti al pentimento, cui invita tutti, Geremia non direbbe: *"Signore convertimi e sarò convertito; poiché da quando mi hai convertito io mi sono emendato " (Gr. 31.18).
16. Ma qualcuno obietterà: se è così, le promesse dell'evangelo offrono poca sicurezza poiché, attestando la volontà di Dio, dichiarano che egli vuole quel che si oppone a quanto ha deciso in segreto. Rispondo di no. Sebbene le promesse di salvezza siano universali, esse non sono affatto in contrasto con la predestinazione dei reprobi, purché ne consideriamo il compimento. Sappiamo che esse sono per noi valide quando le riceviamo per fede e che, al contrario, quando la fede è nulla esse sono abolite.
Se tale è la natura delle promesse, consideriamo ora se esse contraddicono la predestinazione di Dio: è detto infatti che Dio ha stabilito fin dall'inizio chi voleva prendere in grazia e chi voleva respingere, e che, tuttavia, promette la salvezza indistintamente a tutti. Non c'è contraddizione. Il Signore, con tali promesse, vuol semplicemente significare che la sua misericordia è presentata a tutti quelli che la cercheranno. Ma nessuno la cerca, all'infuori di coloro che egli ha illuminati. Insomma, egli illumina coloro che ha predestinati alla salvezza. E quelli sperimentano la verità sicura e certa delle promesse, tanto che non si può trovare alcun contrasto fra l'elezione eterna di Dio e il fatto che egli offre testimonianza della sua grazia a coloro che credono in lui.
Ma perché cita tutti gli uomini? Lo fa onde le coscienze dei pii riposino con maggior sicurezza, vedendo che non vi è alcuna differenziazione fra i peccatori, a condizione che ci sia la fede. D'altra parte, gli iniqui non dicano di non avere alcun mezzo per sfuggire al loro asservimento al peccato, visto che con la loro ingratitudine rifiutano questo mezzo. Poiché dunque la misericordia di Dio è presentata agli uni e agli altri per mezzo dell'evangelo, non c'è che la fede, cioè l'illuminazione di Dio, che distingue i credenti dagli increduli, affinché i primi sentano l'efficacia dell'evangelo ed i secondi non ne ricevano alcuna utilità. Ma questa illuminazione ha come criterio l'elezione eterna di Dio.
Né è loro di aiuto, benché se ne facciano un grande scudo, il lamento di Gesù Cristo su Gerusalemme, quando egli dice di aver voluto raccogliere i suoi pulcini e di aver incontrato il loro rifiuto (Mt. 23.37). Ammetto che Gesù Cristo non parla in quanto uomo, ma rimprovera ai Giudei di aver rifiutato in ogni tempo la sua grazia. Tuttavia dobbiamo considerare qual è la volontà di Dio da lui menzionata. È evidente il modo in cui Dio ha accuratamente cercato di trattenere quel popolo. Si sa anche come, smarriti dietro le loro concupiscenze, abbiano ostinatamente resistito per non essere raccolti. Ma non ne deriva che il consiglio immutabile di Dio sia stato reso vano dalla malvagità degli uomini.
I nostri contraddittori replicano che nulla si addice meno alla natura di Dio che di avere una duplice volontà. Lo ammetto, a condizione che sappiano interpretare rettamente quell'affermazione. Ma come mai non prendono in considerazione tanti passi in cui Dio, assumendo su di se le disposizioni degli uomini, scende per così dire dalla sua maestà per abbassarsi al livello della nostra ignoranza? Dice per bocca di Isaia di aver teso le braccia a quel popolo ribelle, di essersi alzato la mattina e aver vegliato fino a tardi per ricondurlo a se (Is. 65.2). Se vogliono attribuire tutto ciò a Dio, ignorando il modo di parlare che abbiamo menzionato, apriranno il varco a molte discussioni superflue che possono essere troncate in una parola: Dio trasferisce su di se, per similitudine, quel che è proprio degli uomini. Ma la soluzione che abbiamo già dato è sufficiente sebbene la volontà di Dio appaia multiforme alla nostra sensibilità, egli tuttavia non vuole questa o quella cosa per il valore che hanno in se, ma per stupire i nostri sensi con la varietà della sua sapienza, come dice san Paolo (Ef. 3.10) , fino a che ci sarà dato di capire, l'ultimo giorno, come egli voglia, in modo mirabile, quel che oggi pare contrario al suo volere.
Si valgono anche di cavilli indegni di risposta: poiché Dio è padre di tutti, non c'è motivo che ne diseredi alcuni, se non coloro che per loro colpa si sono già resi indegni di salvezza. Equivarrebbe a dire che la generosità di Dio si estende fino ai cani e ai porci! Ma se è questione del genere umano, mi dicano perché Dio ha voluto allearsi con un solo popolo per essergli padre, tralasciando tutti gli altri? E perché, del popolo che aveva scelto si è riservato solo un piccolo numero, come il fiore di esso? Ma il rabbioso desiderio di sparlare, che incita questi malvagi, impedisce loro di prendere in considerazione quel che tutti vedono: che cioè Dio fa brillare ogni giorno il suo sole sui buoni e sui malvagi (Mt. 5.45) , sebbene riservi l'eredità eterna al piccolo gregge dei suoi eletti ai quali sarà detto: "Venite, benedetti dal Padre mio, prendete possesso del regno che vi è stato preparato prima della creazione del mondo " (Mt. 25.34)
Obiettano ancora che Dio non odia nulla di quel che ha creato. E lo posso ammettere senza pregiudicare quel che insegno: che cioè i reprobi sono odiati da Dio, e a buon diritto, perché essendo privati del suo Spirito non possono che essere causa di maledizione.
Si valgono anche, molto scioccamente, dell'argomento che la grazia di Dio è comune a tutti indifferentemente, in quanto non vi è diversità fra il Giudeo ed il Gentile. Anche questo accetto, a condizione che lo intendano alla stregua di san Paolo, che cioè Dio chiama sia fra i Giudei sia fra i pagani quelli che gli pare, senza essere obbligato verso nessuno (Ro 9.24).
Così è controbattuta anche la loro affermazione secondo la quale Dio ha compreso tutto sotto il peccato, al fine di aver pietà di tutti (Ro 11.32). Sì certo, in quanto vuole che la salvezza di tutti sia attribuita alla sua misericordia, sebbene un tal beneficio non sia comune a tutti.
Ma quando si saranno addotte molteplici ragioni, e si sarà discusso da entrambe le parti, dovremo giungere a questa conclusione, di lasciarci rapire dalla meraviglia, come san Paolo; e se le lingue sfrenate continuano a lanciare i loro frizzi, non vergogniamoci di esclamare: "o uomo, chi sei tu per contendere con Dio? " (Ro 9.20). Sant'Agostino ha ragione quando afferma che coloro che misurano la giustizia di Dio con metro umano agiscono in maniera perversa.


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di Giovanni Calvino (1559)