CAPITOLO 3
SIAMO RIGENERATI PER MEZZO DELLA FEDE; IL RAVVEDIMENTO

1. Sebbene abbia già in parte insegnato in che modo la fede possieda Cristo, e come per mezzo di essa godiamo dei benefici datici da lui, la nostra conoscenza sarebbe ancora oscura se non spiegassimo inoltre quali frutti e quali effetti i credenti sentono in loro.
Non senza ragione il riassunto dell'Evangelo è condensato nel ravvedimento e nella remissione dei peccati. Se dunque si tralasciano questi due punti, tutto ciò che si potrà predicare o discutere intorno alla fede sarà debole e di ben poca importanza, se non del tutto inutile. Gesù Cristo ci dà novità di vita e riconciliazione gratuita, che otteniamo per mezzo della fede: la ragione e l'ordine richiedono dunque che io cominci qui a trattare questi due argomenti.
Dalla fede passeremo innanzitutto al ravvedimento. Dopo aver rettamente inteso questo punto, potremo facilmente scorgere in che modo l'uomo sia giustificato dalla sola e pura accettazione del perdono dei suoi peccati, e che la santificazione effettiva della vita, come si suol dire, non è affatto separata da una tale imputazione gratuita di giustizia. Il non rimanere cioè senza buone opere e l'essere considerati giusti senza buone opere, sono cose che vanno perfettamente d'accordo.
È indubbio che il ravvedimento non solo segue passo dopo l'altro la fede, ma ne deriva. Infatti, essendo la remissione dei peccati offerta dall'Evangelo affinché il peccatore, liberato dalla tirannia di Satana, dal giogo del peccato e dal misero asservimento ad esso entri nel Regno di Dio, nessuno può abbracciare la grazia dell'Evangelo senza allontanarsi dai suoi errori per seguire la retta via, e senza far di tutto per riformarsi.
Coloro che ritengono che il ravvedimento preceda la fede e negano che esso ne derivi, come un frutto prodotto dall'albero, non hanno mai compreso la sua caratteristica e la sua natura, e sono indotti in questo errore da un argomento del tutto inconsistente.
2. Gesù Cristo e san Giovanni Battista, dicono, hanno dapprima, con i loro discorsi, invitato il popolo al pentimento e poi ranno annunciato che il Regno dei cieli era vicino (Mt. 3,; 4.17). Essi citano anche il fatto che un simile mandato è stato affidato agli Apostoli, e che san Paolo, secondo il racconto li san Luca, afferma di aver eseguito questo ordine (At. 20.1).
Ma fermandosi a giocare con le sillabe, non sanno vedere il senso e la portata di queste parole. Quando infatti Gesù Cristo Giovanni Battista pronunciano l'esortazione. "Pentitevi, perché il Regno di Dio si è avvicinato ", non lo fanno forse ravviando la causa del pentimento nel fatto che Gesù Cristo ci offre grazia e salvezza? Queste parole equivalgono dunque a dire: lato che il Regno di Dio si è avvicinato, per questa ragione ravvedetevi. Anche san Matteo, riferendo questa predicazione di san Giovanni, dice che è stata compiuta la profezia di Isaia concernente la voce che grida nel deserto: "Preparate la via al Signore, raddrizzate i suoi sentieri " (Is. 40.3). Ma l'ordine del profeta è che questa voce deve cominciare con la consolazione l'annuncio della buona novella.
Tuttavia, quando diciamo che la matrice del pentimento è la fede, non riteniamo necessario un intervallo di tempo perché esso sia generato; vogliamo affermare che l'uomo non può pentirsi rettamente, senza riconoscere di appartenere a Dio. Ma nessuno può accettare di appartenere a Dio, senza avere anzitutto riconosciuto la sua grazia. Queste cose saranno più chiaramente spiegate nel corso della trattazione.
Forse sono stati ingannati dal fatto che parecchi sono vinti lai terrori della loro coscienza, o sono indotti e spinti a mettersi al servizio di Dio prima di aver conosciuto la sua grazia, anzi prima di averla gustata. È un timore quale si riscontra nei fanciulli che non sono guidati dalla ragione; tuttavia alcuni lo considerano una virtù, in quanto lo giudicano simile alla vera ubbidienza a cui esso prepara gli uomini. Non si tratta ora di ricercare in quanti modi Gesù Cristo ci attira a se, o ci dispone ad un retto sentimento di pietà; dico soltanto che non si può trovare alcuna dirittura se non laddove lo Spirito, che egli ha ricevuto per comunicarlo ai suoi membri, regna.
In secondo luogo, seguendo l'insegnamento del Salmo, secondo cui Dio è propizio affinché lo si tema (Sl. 130.4) , aggiungo che mai l'uomo avrà per lui il rispetto dovuto se non confida nella sua clemenza e bontà, e nessuno sarà mai ben deciso ad osservare la sua legge, se non è persuaso che colui al quale serve gradisce il suo servizio. Ma l'indulgenza di cui Dio si vale verso di noi è un segno del suo favore paterno e lo dimostra anche l'esortazione di Osea: "Venite, torniamo all'Eterno, poiché se ha distrutto, ci guarirà; se ha colpito, ci darà la salute " (Ho 6.1). Vediamo in queste parole che la speranza di ottenere il perdono deve servire da sprone ai peccatori, affinché non marciscano nelle loro colpe.
Del resto, coloro che inventano un nuovo modo di essere cristiani e sostengono che per ricevere il battesimo bisogna trascorrere alcuni giorni in cui ci si esercita in penitenza prima di essere ricevuti ad aver comunione con la grazia dell'Evangelo, non presentano, nel loro errore e nella loro follia, alcuna consistenza. Mi riferisco a parecchi Anabattisti, in particolare a quelli che vogliono essere definiti spirituali, e alla gentaglia quale i Gesuiti ed altre sette. Ma è frutto di uno spirito di follia, il voler dedicare alcuni giorni al ravvedimento, mentre questo deve esser proseguito, da parte del cristiano, per tutta la vita.
3. Alcuni dotti, vissuti molto tempo fa, volendo parlare del pentimento in modo semplice, secondo la regola della Scrittura, dissero che esso consiste in due parti: la mortificazione e la vivificazione. Essi intendono la mortificazione come un dolore e un terrore interiore frutto della coscienza del peccato e del sentimento del giudizio di Dio. Infatti, quando qualcuno è condotto alla vera conoscenza del suo peccato, comincia a odiarlo e a detestarlo; allora veramente si trova a dIs.gio in cuor suo, si riconosce misero e confuso e desidera essere diverso da quello che è. Inoltre, quando è toccato dal sentimento del giudizio di Dio (poiché l'uno deriva immediatamente dall'altro) , allora umiliato, spaventato e abbattuto, trema, si scoraggia e perde ogni speranza. Questo è il primo elemento del pentimento, chiamato contrizione.
Essi intendono la vivificazione come una consolazione prodotta dalla fede: l'uomo, turbato dalla coscienza del suo peccato e spaventato dalla paura di Dio, gettando il suo sguardo sulla di lui bontà e misericordia, sulla grazia e la salvezza che sono in Gesù Cristo, si rialza, respira, riprende coraggio e par tornare dalla morte alla vita.
Queste due parole, rettamente intese, esprimono assai bene la realtà del pentimento; dato però che costoro identificano la vivificazione con la gioia che un'anima prova quando è pacificata dai suoi tormenti e dalle sue angosce, dissento da loro, in quanto questa parola esprime piuttosto la volontà di vivere bene e santamente, nel senso che l'uomo muore a se stesso per vivere in Dio. Questo è il rinnovamento di cui abbiamo parlato.
4. Gli altri, pur vedendo che questo termine è inteso in senso diverso nella Scrittura, hanno stabilito due tipi di pentimento. Per distinguerli, hanno definito il primo "legale "; in esso il peccatore, afflitto dal bruciore del suo peccato e come paralizzato dal terrore della collera di Dio, rimane legato in questo smarrimento, senza potersene liberare. Hanno definito l'altro "evangelico ": in esso il peccatore, gravemente turbato in se stesso, si eleva tuttavia più in alto, accogliendo Gesù Cristo come medicamento della sua ferita, come consolazione della sua paura e rifugio della sua miseria.
Caino, Saul, Giuda sono esempi di pentimento legale (Ge 4.13; 1 Re 15.30; Mt. 27.4). Descrivendoceli, la Scrittura vuol significare che dopo aver sperimentato il peso del loro peccato hanno avuto paura della collera di Dio; ma assorti unicamente nel pensiero della vendetta e del giudizio di Dio sono sprofondati in questo pensiero. Il loro pentimento dunque altro non è stato se non una porta dell'inferno: essendovi già entrati nel corso della presente esistenza hanno cominciato a soffrire l'ira della maestà di Dio.
Vediamo il pentimento evangelico in tutti coloro che, punti in se stessi dal pungolo del peccato ma rialzatisi fiduciosi nella misericordia di Dio, si sono rivolti a lui. Ezechia fu sconvolto quando ricevette l'annuncio di morte; ma piangendo pregò, e guardando alla misericordia di Dio riprese fiducia (4 Re 20.2; Is. 38.1). Gli abitanti di Ninive furono spaventati dall'orribile minaccia della loro rovina, ma ricoperti di sacchi e di cenere pregarono, sperando che il Signore sarebbe tornato sulla sua decisione e avrebbe deviato il furore della sua ira (Giona 3.5). Davide confessò di aver peccato molto gravemente nel fare il censimento del popolo, ma aggiunse: "Signore, cancella l'iniquità del tuo servo! " (2 Re 24.10). Di fronte al rimprovero di Nathan, riconobbe il peccato di adulterio, si prostrò dinanzi a Dio, ma attese parimenti il perdono (2 Re 12.13e 16). Tale fu il pentimento di coloro che, udendo la predicazione di san Pietro, furono sconvolti nel loro cuore, ma confidando nella bontà di Dio aggiunsero: "Che faremo noi, fratelli? " (At. 2.37). Tale fu anche il pentimento di san Pietro che pianse amaramente ma non cessò di sperare (Lu 22.62; Mt. 26.75).
5. Tutte queste cose sono vere, tuttavia, se intendo bene la Scrittura, bisogna intendere in altro modo il termine pentimento. Il confondere, infatti, come fanno costoro, fede e ravvedimento contrasta con quel che dice san Paolo negli Atti, l'aver egli scongiurato Giudei e Gentili a ravvedersi dinanzi a Dio, e a credere in Gesù Cristo (At. 20.21). In questo passo egli considera la fede e il ravvedimento come cose diverse; può forse il vero ravvedimento sussistere senza la fede? No, certo; ma benché non si possano dividere, bisogna tuttavia distinguerli. Come la fede non può sussistere senza speranza, ma fede e speranza sono cose diverse, così ravvedimento e fede, sebbene uniti da un legame inscindibile, devono tuttavia essere congiunti piuttosto che confusi fra loro.
Non ignoro che con il termine ravvedimento si intende tutta la conversione a Dio, conversione di cui la fede è una delle parti principali, ma quando ne avremo spiegato la natura e le caratteristiche, si vedrà in che senso ciò è detto.
Il termine usato dagli Ebrei per designare il ravvedimento significa conversione o ritorno; quello usato dai Greci significa cambiamento di decisione e di volontà. La realtà corrisponde bene a queste etimologie, in quanto il fatto del ravvedimento consiste in questo: essendoci allontanati da noi stessi, volgerci a Dio; e avendo abbandonato le nostre decisioni e la nostra volontà iniziale, assumerne una nuova.
Perciò, a mio giudizio, potremo definire con esattezza il ravvedimento in questo modo: è una radicale conversione dalla nostra vita naturale, per seguire Dio nella via che egli ci indica, conversione derivante da un timor di Dio retto e non finto, che consiste nella mortificazione della nostra carne e del nostro uomo vecchio, e nella vivificazione da parte dello Spirito. In questo senso bisogna intendere tutte le esortazioni contenute negli scritti dei Profeti e degli Apostoli, per mezzo delle quali essi invitano gli uomini del loro tempo a ravvedersi. Volevano infatti far sì che, turbati per i loro peccati e afflitti dal timore del giudizio di Dio, si umiliassero e prostrassero davanti alla sua maestà che avevano offesa, e tornassero nella retta via. Così, quando parlano di convertirsi e di tornare al Signore, di pentirsi e di ravvedersi (Mt. 3.2) , tendono sempre a questo fine.
Perciò la storia sacra chiama ravvedimento il fatto di essere condotti a seguire Dio: quando gli uomini, avendolo disprezzato per folleggiare nelle loro cupidigie, cominciano a ritornare alla sua Parola (1 Re 7.3) , e sono pronti a seguirlo dove egli li chiamerà. San Paolo e san Giovanni Battista esortano a produrre frutti degni del ravvedimento, volendo affermare che bisogna condurre una vita che dimostri ed attesti in tutte le sue azioni un tal pentimento (Lu 3.8; Ro 6.4; At. 26.20).
6. Prima di proseguire, gioverà però spiegare più ampiamente la definizione summenzionata, che presenta soprattutto tre punti degni di attenzione.
Riguardo al primo, quando definiamo il ravvedimento una conversione di vita a Dio, richiediamo un cambiamento, non solo riguardo alle opere esterne, ma anche nell'anima, affinché, spogliatasi della sua vecchia natura, essa produca, in seguito, frutti degni del suo rinnovamento. È quanto vuole esprimere il Profeta quando ordina a coloro che esorta al pentimento di avere un cuor nuovo (Ez. 18.31). Perciò Mosè ripetutamente, volendo indicare al popolo di Israele la vera conversione, li esorta a convertirsi con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima, e parlando della circoncisione del cuore, allude ai loro sentimenti più nascosti. Questa espressione è spesso ripetuta dai Profeti. Nessun passo, tuttavia, definisce la vera natura del ravvedimento meglio del quarto capitolo di Geremia, in cui Dio parla in questo modo: "Israele, se tu ti converti convertiti a me. Coltiva bene la terra del tuo cuore, e non seminare fra le spine. Sii circonciso per il Signore, e togli ogni impurità dal tuo cuore " (Gr. 4.1.3.4).
Notiamo che egli sottolinea il fatto che per iniziare a vivere bene non possono cominciare in altro modo se non sradicando ogni empietà dal loro cuore. E per spronarli in modo più pressante li avverte che hanno a che fare con Dio, nei riguardi del quale non si guadagna nulla Cl. tergiversare perché egli ha in abominio la doppiezza di cuore. Per questo motivo Isaia si beffa di tutte le opere degli ipocriti, che in quel tempo si sforzavano di emendare esteriormente la loro vita con cerimonie, senza tuttavia impegnarsi a spezzare i vincoli iniqui con cui opprimevano i poveri (Is. 58.6). Inoltre, in questo stesso passo, mostra quali siano le opere che devono seguire un vero ravvedimento.
7. Nel secondo punto abbiamo detto che il ravvedimento procede da un retto timor di Dio. Perché la coscienza del peccatore sia condotta al pentimento, bisogna infatti che sia anzitutto turbata dal giudizio di Dio. Quando sarà radicato nel cuore dell'uomo il pensiero che Dio dovrà un giorno salire sul suo trono di giudizio, per chieder conto di tutte le opere e parole, questa coscienza non lascerà riposare il povero peccatore né lo lascerà respirare un solo istante pungolandolo e stimolandolo sempre a condurre una vita nuova, affinché possa presentarsi senza timore a questo giudizio.
Spesso la Scrittura, quando ci esorta al pentimento, ci ricorda perciò che Dio un giorno giudicherà il mondo. Come in questo passo di Geremia: "Affinché il mio furore non esca come un fuoco, senza che qualcuno lo possa spegnere, a causa della vostra perversità " (Gr. 4.4). E nel discorso che san Paolo fece ad Atene: "Come Dio ha lasciato che gli uomini camminassero nell'ignoranza, ora annuncia loro di ravvedersi, poiché ha stabilito un giorno in cui giudicherà il mondo con giustizia " (At. 17.30); così in molti altri passi. Altre volte, per mezzo delle punizioni già avvenute, la Scrittura dimostra che Dio è giudice, affinché i peccatori sappiano che una pena molto più grave li aspetta se non si correggono al più presto. Ne abbiamo l'esempio al capitolo ventinovesimo del De
Poiché l'inizio della nostra conversione a Dio avviene quando abbiamo in odio e in orrore il peccato, l'Apostolo dice che la tristezza che è secondo Dio è la causa del pentimento (2 Co. 7.10) , definendo tristezza secondo Dio non solo il timore del castigo ma l'odio e l'esecrazione per il peccato, avendo coscienza del fatto che dispiace a Dio. Questo non deve sembrare strano perché, se non fossimo pungolati per davvero, la pigrizia della nostra carne non potrebbe essere mai corretta; nessun pungolo sarebbe anzi sufficiente a scuoterla dalla sua insensibilità se Dio non facesse un passo di più mostrandoci i suoi castighi. Oltre l'abbrutimento c'è anche la ribellione, che ha bisogno di essere piegata a grandi colpi di martello. È la nostra perversità dunque che costringe Dio a far uso di severità, rigore e minacce, visto che non servirebbe affatto allettare con la dolcezza quelli che dormono.
Non citerò le testimonianze che si trovano qua e là in tutta la Scrittura. Il timor di Dio è anche chiamato introduzione al ravvedimento, per un'altra ragione. Infatti, quand'anche un uomo potesse essere ritenuto in tutto e per tutto perfetto nelle virtù, se egli non orienta la sua vita al servizio di Dio, potrà sì esser lodato dal mondo, ma sarà in abominio al cielo, poiché la parte principale della giustizia consiste nel rendere a Dio l'onore che merita, onore di cui lo frodiamo in malo modo quando ci manca l'intenzione di assoggettarci al suo governo.
8. Dobbiamo ora spiegare il terzo punto: abbiamo detto che il ravvedimento consta di due elementi, la mortificazione della carne e la vivificazione da parte dello Spirito. I Profeti lo espongono abbastanza bene, pur parlando con la semplicità richiesta dall'ignoranza del popolo Cl. quale dovevano trattare, quando dicono: "Cessate di fare il male, e consacratevi al bene " (Sl. 34.15). "Purificatevi dalle vostre impurità, lasciate da parte la vostra vita perversa; imparate il bene, datevi alla giustizia, alla misericordia "ecc.. . (Is. 1.16.17). Invitando gli uomini ad allontanarsi dal male, essi richiedono che tutta la loro carne, cioè la loro natura, sia mortificata poiché è piena di iniquità. Si tratta di un comandamento assai difficile, in quanto richiede la rinuncia a se stessi, e l'abbandono della nostra natura. Poiché non bisogna credere che la carne sia dovutamente mortificata, se non quando viene annientato e abolito tutto ciò che abbiamo da per noi stessi. Ma visto che tutti i pensieri e sentimenti della nostra natura sono in lotta contro Dio e nemici della sua giustizia (Ro 8.7) , il primo passo nell'obbedienza della Legge è la rinuncia alla nostra natura ed a ogni nostra volontà.
Quel testo del Profeta definisce in seguito il rinnovamento di vita mediante i frutti che ne derivano: giustizia, discernimento e misericordia; non sarebbe infatti sufficiente compiere opere esteriori se l'anima in primo luogo non le amasse e fosse disponibile per queste opere. Ciò avviene quando lo Spirito di Dio, avendo trasformato le nostre anime santificandole, le dirige a tal punto verso nuovi pensieri e sentimenti da poter dire che esse sono diverse da quel che erano in precedenza. Di fatto, per natura, ci allontaniamo da Dio e non tendiamo né aspiriamo mai a quel che è buono e retto finché non abbiamo imparato ad abbandonare il nostro io. Ecco perché così spesso ci è chiesto di spogliare il vecchio uomo, di rinunciare al mondo e alla carne e di adoperarci, abbandonando le nostre cupidigie, per essere rinnovati nel nostro modo di pensare.
Il termine "mortificazione ", ci dice quanto sia difficile per noi dimenticare la nostra natura; esso infatti significa che non possiamo essere piegati né formati al timor di Dio, né imparare i rudimenti della pietà, se non essendo messi a morte dalla spada dello Spirito ed essendo ridotti con violenza al nulla. È come se Dio dicesse che ci è necessario morire ed essere annullati in tutto ciò che abbiamo, prima che ci accolga o accetti come suoi figli.
9. L'una e l'altra cosa ci provengono dalla comunione che abbiamo con Cristo. Poiché se siamo realmente partecipi della sua morte, per virtù di questa morte il nostro vecchio uomo è crocifisso e il cumulo di peccato, che risiede in noi, è annullato affinché la corruzione della nostra natura primitiva non abbia più potere (Ro 6.6). Se siamo partecipi della sua risurrezione, per mezzo di essa noi siamo risuscitati in novità di vita, e questa vita è una risposta alla giustizia di Dio.
Per esprimermi in breve, dirò che il ravvedimento è una rigenerazione ad opera dello Spirito, il cui scopo è far sì che sia restaurata l'immagine di Dio, oscurata e quasi cancellata in noi dalla trasgressione di Adamo. Così si esprime l'Apostolo quando dice che, tolto il velo, noi contempliamo la gloria di Dio, trasformati nella sua stessa immagine, di gloria in gloria, ad opera dello Spirito di Dio (2 Co. 3.18). E: "Siate rinnovati nella vostra anima, e rivestite l'uomo nuovo, creato ad immagine di Dio nella giustizia e nella vera santità " (Ef. 4.23). E in un altro passo: "Rivestite l'uomo nuovo, rinnovato secondo la conoscenza e l'immagine di colui che l'ha creato " (Cl. 3.10). Con questa rigenerazione, siamo ricondotti per grazia di Cristo nella giustizia di Dio, da cui eravamo scaduti per colpa di Adamo; come piace a Dio ricostruire nella loro integrità tutti coloro che adotta nell'eredità della vita eterna.
Questa restaurazione non si compie né in un minuto, né in un giorno, né in un anno: ma Dio cancella nei suoi eletti le corruzioni carnali, del continuo, nel succedersi del tempo, ed a poco a poco; non cessa di purificarli dalle loro impurità, di consacrarli a se come templi, di ricondurre i loro sensi ad una autentica purezza, affinché si esercitino tutta la vita nel ravvedimento, sapendo che questo combattimento ha termine soltanto con la morte.
Tanto più grave è l'impudenza di un certo apostata, che mi rimprovera di confondere lo stato della vita presente con la gloria futura, dato che interpreto, con san Paolo, l'immagine di Dio come uno stato di vera santità e giustizia; quasi che, per definire questo o quello, non fosse necessario parlare di perfezione e integrità. Dicendo che Dio ci restaura a sua immagine, non neghiamo che lo faccia mediante un accrescimento continuo; ma a seconda del punto di avanzamento di ognuno, questa immagine di Dio in lui riluce in misura maggiore (2 Co. 4.18). Dio, per far raggiungere ai suoi credenti quella meta, impone loro per tutta la vita la via del ravvedimento, ed essi non cessano di camminarvi.
10. In questo modo la rigenerazione libera i figli di Dio dall'asservimento al peccato: non già rendendoli insensibili agli attacchi della carne, come se possedessero pienamente la libertà ma piuttosto lasciando loro motivo continuo di combattere, per metterli alla prova; e non solo per metterli alla prova, ma per renderli maggiormente coscienti della loro debolezza. Tutti gli scrittori dotati di un sano intendimento concordano nel dire che permane nell'uomo rigenerato fonte e fomite di male, da cui derivano le continue cupidigie che lo allettano e lo incitano al peccato. Per di più essi riconoscono che tutti i credenti sono a tal punto irretiti in questa corruzione da non potervi opporre resistenza, sì che spesso sono condotti all'adulterio, l'avarizia, l'ambizione o altri peccati.
Non è necessaria una lunga disputa per sapere qual sia stata l'opinione degli antichi Dottori a questo riguardo; sant'Agostino da solo può bastare per tutti, poiché ha raccolto le loro opinioni con fedeltà e grande diligenza. Se qualcuno dunque vuol sapere quel che gli antichi hanno detto su questo punto, li rimando a quell'autore.
Si potrebbe però pensare che sussista fra sant'Agostino e noi una certa divergenza; egli, infatti, affermando che tutti i credenti, mentre abitano questo corpo mortale sono a tal punto soggetti a concupiscenze da non poter fare a meno di concupire, non osa tuttavia definire "peccato "una tal malattia, ma chiamandola "infermità "dice che essa diventa peccato quando, oltre l'immaginazione e la rappresentazione, segue nell'uomo la messa in opera o il consenso: quando cioè la volontà ottempera al desiderio iniziale. Noi, al contrario, riteniamo che ogni concupiscenza da cui l'uomo è solleticato per agire contro la legge di Dio è peccato; affermiamo pure che la perversità, che genera in noi quelle concupiscenze, è peccato. Diciamo dunque che il peccato abiterà sempre nei credenti finché non saranno spogliati da questo corpo mortale, poiché la perversità della concupiscenza, contraria alla dirittura, è insita nella loro carne.
Tuttavia egli non sempre si astiene dall'usare il termine "peccato "in tale accezione, come quando dice: "La fonte da cui provengono tutti i peccati, cioè la concupiscenza, è definita peccato da san Paolo. Questo peccato, riguardo ai santi, cessa di dominare durante la vita terrena, ed è annullato in cielo ". Con queste parole afferma che nella misura in cui i credenti sono soggetti a concupiscenze, sono colpevoli come peccatori.
2. Riguardo all'affermazione che Dio purifica la sua Chiesa da ogni peccato e che nel battesimo promette la grazia della liberazione e la attua nei suoi eletti (Ef. 5.26.27) , noi la riferiamo all'imputazione piuttosto che alla sostanza del peccato. Dio, Cl. rigenerare i suoi, fa si che il regno del peccato sia abolito in loro, in quanto li fa oggetto della potenza del suo Spirito Santo per renderli forti e vincitori nella lotta che devono affrontare; da quel momento il peccato cessa soltanto di regnare, non di abitare in loro. Perciò diciamo che l'uomo vecchio è crocifisso ed è abolita per i figli di Dio la legge del peccato, quantunque le tracce permangano (Ro 6.6) , non già per dominare in loro ma per umiliarli rendendoli consapevoli della loro infermità. Affermiamo bensì che tali residui di peccato non sono loro imputati, come se non esistessero; ma affermiamo che ciò accade in virtù della misericordia di Dio. E così, sebbene assolti per grazia, non cessano, di fatto, di essere peccatori e colpevoli
Ci è facile confermare questo pensiero, visto che per provarlo troviamo testimonianze evidenti e probanti nella Scrittura. Infatti che cosa potremmo desiderare di più esplicito delle tesi di san Paolo nel settimo capitolo dell'epistola ai Romani? Anzitutto, che egli si riferisca alla persona dell'uomo rigenerato l'abbiamo già precedentemente dimostrato e sant'Agostino cita ragioni perentorie per dimostrarlo. Tralascio il fatto che egli si serva dei termini "male "e "peccato ". Ancorché i contradditori possano cavillare su queste due parole, chi negherà che opporsi alla legge di Dio sia peccato? e che lo sia l'impedimento a fare il bene? Infine, chi non ammetterà che c'è colpa dovunque ci sia povertà spirituale? San Paolo dice che tutte queste cose sono comprese nella corruzione di cui parliamo.
Abbiamo inoltre un argomento certo, che può risolvere tutta la questione. Nella Legge infatti ci è ordinato di amare Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze. Se è necessario che tutte le parti della nostra anima siano a tal punto ripiene dell'amore di Dio, è evidente che chiunque possa concepire nel suo cuore anche solo un minimo desiderio o un pensiero che lo distolga dall'amore di Dio e lo conduca verso qualcosa di vano non obbedisce a questo comandamento. Non rientra forse nelle facoltà dell'anima l'essere toccati e mossi da qualche appetito, il concepire qualcosa nella mente o l'andarvi dietro? Quando dunque in questi pensieri c'è vanità e peccato, non è forse segno che qualche parte dell'anima è vuota e priva dell'amor di Dio? Chi non riconosce dunque che tutte le concupiscenze della carne sono peccato e che la malattia di concupire, insita in noi, è la fonte del peccato, negherà altresì che la trasgressione della Legge sia peccato.
12. A chi ritiene sragionevole una condanna globale dei desideri da cui l'uomo naturale è affetto, i quali sono stati posti nell'uomo da Dio autore della natura, rispondiamo che non condanniamo affatto i desideri che Dio ha posti nell'uomo nella primitiva creazione e che non si potrebbero sradicare da noi se non sradicando la nostra stessa umanità; ma ci limitiamo a riprovare gli appetiti sregolati, disordinati e che contrastano con l'ordine di Dio.
Tutte le parti della nostra anima sono così corrotte dalla perversità della nostra natura, che in ogni nostra opera traspaiono disordini ed intemperanze; in quanto tutti i desideri che formuliamo non si possono astrarre da tale situazione, per questa ragione li definiamo peccaminosi.
Formulando in modo più semplice il problema diciamo che i desideri ed appetiti dell'uomo sono malvagi, e li condanniamo come peccati non in quanto naturali, ma in quanto disordinati. E son disordinati per il fatto che nulla di puro e integro può procedere dalla nostra natura viziosa e impura. Agostino stesso, a questo riguardo, non va così oltre come potrebbe sembrare a prima vista. Quando intende evitare le calunnie dei Pelagiani tralascia a volte il termine "peccato ", ma quando scrive che la legge del peccato permane nei santi e che solo la colpa è loro tolta, si dimostra abbastanza conforme alla nostra interpretazione.
13. Citeremo qualche altra affermazione dei suoi scritti per illustrare con maggiore evidenza il suo pensiero su questo punto. Nel secondo libro contro Giuliano dice: "Nella rigenerazione spirituale vi è annullamento della legge del peccato, ma essa permane nella carne mortale; è annullata, in quanto la colpa è abolita dal sacramento per cui i credenti sono rigenerati; essa permane, perché produce i desideri contro cui i credenti stessi devono lottare ". E: "La legge del peccato che risiedeva ancora nelle membra di san Paolo e perdonata Cl. battesimo, non già eliminata ". E spiegando perché sant'Ambrogio definì iniquità un tal peccato, dice che egli parla di una legge di peccato, che dimora in noi benché la colpa sia perdonata Cl. battesimo, poiché è cosa iniqua che la carne combatta contro lo Spirito. E: "Il peccato è morto quanto alla colpa a cui ci teneva legati; tuttavia si ribella, pur essendo morto, finché sia purificato essendo sepolto dalla perfezione ".
Nel quinto libro parla ancora più chiaramente: "Come l'accecamento del cuore "dice "è peccato in quanto causa del non credere in Dio ed è punizione per il peccato in quanto il cuore fiero e altero viene in tal modo punito, ed è causa del peccato in quanto genera cattivi errori, così la concupiscenza della carne, contro cui lo spirito buono lotta, è peccato in quanto contiene disubbidienza contro l'esser governati dallo Spirito; è punizione del peccato in quanto ci è imposta a causa della ribellione del nostro primo padre; è causa del peccato, sia che vi consentiamo, sia che ne siamo contaminati fin dalla nostra nascita "In questo passo sant'Agostino non ha difficoltà a definire peccato l'infermità che rimane in noi dopo la rigenerazione poiché, dopo aver confutato il loro errore, non teme le calunnie dei Pelagiani.
Come pure nella quarantunesima omelia su san Giovani dice: "Se servi la legge del peccato secondo la tua carne, fa' quel che dice l'Apostolo: Che il peccato non regni nel tuo corpo, e tu non ubbidire al suo desiderio (Ro 6.12). Non proibisce che ci sia, ma dice che non vi deve regnare. Mentre sei in vita è inevitabile che il peccato sia nelle tue membra; tuttavia bisogna togliergli il dominio e non fare quel che ordina ".
Coloro che asseriscono che la concupiscenza non è peccato citano quel che dice san Giacomo, che la concupiscenza genera il peccato dopo averlo concepito (Gm. 1.15). Non è però difficile sciogliere questa obiezione: se non riferiamo questo passo alle cattive opere o peccati attuali, come vengono chiamati, neanche la cattiva volontà sarà considerata peccato. Anche se egli chiama le opere cattive "figlie della concupiscenza ", attribuendo loro il nome di peccato, non ne deriva tuttavia che il concupire non sia una cosa cattiva e da condannare di fronte a Dio.
14. Alcuni Anabattisti vanno fantasticando non so quale sregolata intemperanza in luogo della rigenerazione spirituale dei credenti: che cioè i figli di Dio (come pare loro) , essendo ricondotti allo stato di innocenza, non si devono curare di porre freno alle concupiscenze della loro carne, ma devono seguire lo Spirito come guida, sotto la cui direzione non è possibile errare. Non avessero reso pubblica questa dottrina con tanta arroganza, si stenterebbe a credere che la ragione dell'uomo possa cadere in tali eccessi. Di fatto si tratta di una mostruosità orribile; ma è giusto che la presunzione di chi muta in menzogna la verità di Dio sia così punita.
Chiedo dunque loro se viene soppressa ogni differenza tra turpitudine ed onestà, giustizia ed ingiustizia, bene e male, virtù e vizio. Questa differenza, dicono costoro, trae origine dalla maledizione del vecchio Adamo, da cui siamo liberati per mezzo di Cristo. Non vi sarà dunque alcuna differenza fra adulterio e castità, onestà e calcolo, verità e menzogna, giustizia e furto. Si abbandoni, dicono, ogni frivolo timore e si abbia il coraggio di seguire lo Spirito che non suggerirà mai nulla di male fintanto che ci si sottometterà alla sua guida.
Chi non manifesterebbe qualche stupore di fronte a sì assurdi propositi? Eppure è una filosofia diffusa e ben accetta a coloro che, accecati dalla follia delle loro concupiscenze, hanno smarrito il senso comune. Ma, vi domando, che specie di Cristo ci inventano e quale Spirito ci tirano fuori? Riconosciamo sì un solo Cristo ed il suo Spirito soltanto, quale i Profeti l'hanno promesso e quale l'Evangelo annuncia esser stato rivelato, ma riguardo ad esso non udiamo nulla di simile. Poiché quello Spirito che la Scrittura ci rivela non favorisce omicidii, adulteri, ubriachezze, orgoglio, contesa, avarizia e frode ma è autore di amore, castità, sobrietà, modestia, pace, temperanza e verità. Non uno spirito di sogni o di agitazioni che si manifesta or qua or là indifferentemente nel bene quanto nel male, ma spirito pieno di sapienza e intelligenza in vista di discernere il bene ed il male Non spinge l'uomo ad una licenza senza freno e dissoluta, ma come discerne il bene dal male così gli insegna a seguire l'uno e a fuggire l'altro.
Ma perché spendere tanta fatica a refutare queste rabbiose assurdità? Lo Spirito di Dio non è per i cristiani un parto assurdo della loro fantasia, che si sono creati sognando o che hanno ricevuto da altri; lo conoscono come lo presenta la Scrittura, quando afferma che ci è dato in vista della santificazione per condurci, nell'obbedienza, alla giustizia di Dio, dopo averci purificati da impurità e lordura. Questa obbedienza non può sussistere se le concupiscenze (a cui costoro vogliono lasciare libero corso) non sono domate e sottomesse. È detto inoltre che lo Spirito ci purifica bensì mediante la sua santificazione, ma permangono in noi, finché siamo racchiusi nel nostro corpo mortale, molte infermità; ne consegue che, essendo lungi dalla perfezione, dobbiamo progredire quotidianamente e, irretiti in molti peccati, ci è necessario combattere.
Di conseguenza occorre vigilare con diligenza per evitare di essere colti di sorpresa dai tradimenti e dagli inganni della nostra carne; e non dobbiamo riposare quasi non fossimo in pericolo, a meno di crederci più innanzi nella santità di vita di san Paolo stesso, che era molestato dai pungiglioni di Satana (2 Co. 12.7) perché fosse perfetto in virtù malgrado le infermità, e che non parlava per modo di dire quando descriveva quel combattimento tra carne e spirito che sentiva nella sua persona (Ro.7.6).
15. Non senza ragione l'Apostolo, nel definire il ravvedimento, cita sette cose che lo producono in noi, oppure ne derivano come frutti ed effetti, o ne sono membra e parti. Queste cose sono premura, giustificazione, sdegno, timore, ardore, zelo, punizione (2 Co. 7.2). Non mi azzardo a definirle cause o effetti del ravvedimento, poiché hanno l'apparenza delle une e degli altri. Si possono anche definire disposizioni d'animo connesse al ravvedimento. Ma, tralasciando questi problemi, possiamo capire il senso di ciò che san Paolo intende; mi basterà dunque esporre semplicemente il suo pensiero.
Egli dice dunque che la tristezza che è secondo Dio genera in noi premura, poiché colui che è veramente toccato dal dispiacere di aver offeso Dio è del pari incitato e pungolato a pensare e a cercare con cura come liberarsi dai legami del diavolo, a provvedere anche per l'avvenire a non essere sorpreso dai suoi tranelli, e ad aver cura di mantenersi sotto la guida dello Spirito Santo al fine di non essere colto in fallo per noncuranza.
In secondo luogo menziona la giustificazione, a cui non dà il significato di una difesa, di cui il peccatore si serve per sfuggire al giudizio di Dio, negando di aver sbagliato o minimizzando il suo errore, ma piuttosto di una scusa che consiste più nel chiedere perdono che nel mettere avanti il proprio buon diritto. Così un bimbo suscettibile di correzione, riconoscendo isuoi sbagli e confessandoli a suo padre, si affida al suo perdono e per ottenerlo afferma convinto di non aver mai disprezzato suo padre né di averlo offeso per cattiva disposizione di cuore; e questo suo scusarsi non ha come fine il farsi considerare giusto ed innocente, ma solo ottenere il perdono.
Lo sdegno, di cui parla appresso, c'è quando il peccatore si adira in cuor suo con se stesso, Si accusa e Si indispettisce contro di se, considerando la sua perversità e la sua ingratitudine verso Dio.
La parola timore esprime la paura che coglie e sorprende i nostri cuori ogniqualvolta pensiamo al rigore di Dio contro i peccatori e, d'altra parte, a quello che abbiamo meritato. E inevitabilmente siamo agitati da una spaventosa pena che ci spinge all'umiltà, rendendoci più accorti per il futuro. La premura, di cui ha parlato, deriva da questo timore.
La parola desiderio mi pare esser stata usata dall'Apostolo per indicare una ardente disposizione a compiere il nostro dovere verso Dio, disposizione a cui ci deve soprattutto condurre la coscienza delle nostre colpe.
Il conseguente zelo tende al medesimo fine, in quanto indica l'ardore da cui siamo mossi quando ci pungolano come sproni pensieri come questi: che ho fatto? dove sarei caduto se la misericordia di Dio non mi avesse soccorso?
Menziona in ultimo la punizione: quanto più siamo aspri e severi nell'accusarci, tanto più dobbiamo sperare che Dio ci sarà misericordioso. Non può essere, infatti, che un'anima credente, toccata dall'orrore del giudizio di Dio, non si adoperi a punire se stessa; i credenti conoscono la pena che nasce dalla confusione, dal timore, dalla vergogna, dal dolore e dal dispiacere provati nel riconoscere le proprie colpe dinanzi a Dio.
Ricordiamoci tuttavia che è necessario mantenere una certa moderazione per non essere travolti dalla tristezza, poiché le coscienze timorose sono anche troppo inclini a cadere nella disperazione. Satana ricorre comunemente a questo trucco: immergere il più profondamente possibile in questo abisso di tristezza tutti coloro che vede abbattuti dal timore di Dio, al punto che non riescano mai a risollevarsi. Il timore che produce umiltà, senza distoglierci dalla speranza di ottenere il perdono, non può superare un giusto limite: l'Apostolo ammonisce il peccatore a vigilare onde, impegnandosi in questa critica e odio di se, finisca coll'essere sopraffatto da uno spavento così grande da perdere ogni coraggio (Eb. 12.3). Questo tenderebbe ad allontanarci da Dio e a farcelo evitare: sarebbe un atteggiamento opposto al ravvedimento Cl. quale Dio ci chiama a sé.
Molto utile, a questo proposito, l'avvertimento di san Bernardo: il dolore per i peccati è necessario, a condizione che non sia continuo. È pure necessario distoglierci dal ricordo delle nostre vie, che ci tiene stretti in angoscia e tormento, per passeggiare nel ricordo dei benefici di Dio come in una bella pianura. "Mescoliamo "dice "il miele e l'assenzio affinché l'amaro giovi alla nostra salute, quando lo beviamo incorporato al dolce. E se vi considerate con umiltà, considerate Dio secondo la sua bontà ".
16. Possiamo ora capire quali siano i frutti del ravvedimento: sono le opere compiute per servire e onorare Dio, le opere di carità congiunte ad una vera santità e innocenza di vita; quanto più ognuno si sforza di conformare la sua vita alle indicazioni della legge di Dio, tanto più darà segni di essere veramente pentito. Pertanto lo Spirito, volendo esortarci al pentimento, ci propone ovvero tutti i precetti della Legge ovvero il contenuto della seconda tavola; sebbene in altri passi, dopo aver condannato l'impurità del cuore, ci spinga anche a dimostrare con testimonianze esterne la realtà del nostro pentimento. E di questo i lettori avranno un quadro vivo quando descriverò la vita cristiana.
Non raccoglierò qui i passi dei Profeti, che da un lato si fanno beffe della leggerezza di coloro che si sforzano di placare Dio con cerimonie, giudicandole giochi di bambini, e insegnano dall'altro che, quand'anche la vita sia esteriormente integra, non è questo l'essenziale, in quanto Dio guarda al cuore. Chiunque sarà un po' versato nella Scrittura capirà facilmente da se, senza altri commenti, che nulla giova, nel nostro rapporto con Dio, se non si comincia dall'atteggiamento interiore del cuore. Ed il passo di Gioele servirà bene ad illuminare gli altri: "Lacerate" dice "i vostri cuori, e non i vostri vestiti, ecc. " (Gl. 2.13). L'uno e l'altro concetto sono esposti anche nelle parole di san Giacomo: "Voi, malvagi, lavate le vostre mani; voi, doppi d'animo, purificate i vostri cuori, " (Gm. 4.8). li vero che queste parole pongono in primo piano quanto e accessorio, ma e significativo che subito dopo indichino il principio e la fonte nel ripulire le impurità nascoste, affinché l'altare per sacrificare a Dio sia innalzato nel cuore stesso.
Ci sono alcuni altri esercizi esteriori di cui ci serviamo, in privato, per umiliarci o per domare la carne, e in pubblico per attestare il nostro pentimento. Tutto questo deriva da quella punizione di cui parla san Paolo. Sono infatti caratteristiche di dolore interiore il gemere ed il piangere, l'odiare ed il fuggire ogni piacere, pompa e vanità, l'astenersi da banchetti e delizie. Chi infine conosce la serietà della ribellione della carne cerca tutti i rimedi per reprimerla. Colui che valuta quanto sia grave offesa la violazione della giustizia di Dio non ha riposo né requie finché, con la sua umiltà, non abbia reso gloria a Dio.
Gli antichi Dottori parlano spesso di tali esercizi esteriori quando devono trattare dei frutti del ravvedimento pur senza fondarne su questi l'essenza. I lettori mi perdoneranno se esprimo il mio parere: essi si sono soffermati troppo su queste piccolezze, e chi riflette con diligenza concorderà, spero, con me. Nel raccomandare con tanta insistenza questa disciplina corporale, inducevano sì il popolo ad accettarla con grande devozione, oscuravano però quel che doveva essere in primo piano. Commettevano anche un altro errore: erano un po' troppo eccessivi e rigorosi nelle correzioni, come avremo modo di dire altrove.
17. Alcuni, vedendo che i Profeti affermano che ci si deve pentire con pianti e digiuni, rivestiti di un sacco e Cl. capo coperto di cenere (pratica indicata specialmente da Gioele) (Gl. 2.12) , ritengono che l'elemento principale del ravvedimento consista nel piangere e nel digiunare. dobbiamo pertanto porre rimedio al loro errore.
In quel passo di Gioele, il discorso sulla conversione totale del nostro cuore al Signore e sul lacerare non già i nostri vestiti ma il nostro cuore, si addice perfettamente al ravvedimento. I pianti e i digiuni non sono considerati come conseguenze sempre necessarie, ma come circostanze che particolarmente si addicevano a quel tempo. Avendo annunziato ai Giudei una spaventosa vendetta di Dio, egli li ammonisce affinché la prevengano non solo correggendo la loro vita, ma anche umiliandosi e mostrando segni di tristezza. Come anticamente un uomo, accusato di un delitto, per impetrare misericordia dal giudice si lasciava crescere la barba, non si pettinava e si vestiva a lutto, analogamente era opportuno che il popolo, accusato dinanzi al trono di Dio, attestasse con segni esteriori che non chiedeva altro che di ottenere il perdono dalla sua clemenza.
Sebbene l'abitudine di vestirsi con un sacco e di gettarsi ceneri sul capo fosse tipica di quel tempo e ci sia oggi completamente estranea, tuttavia i pianti e i digiuni non sarebbero oggi fuor di luogo ogniqualvolta il Signore ci preannunzia qualche avversità. Quando infatti fa sorgere un qualche pericolo, vuole annunciare che è pronto a far vendetta, e già equipaggiato. A ragione, dunque, il Profeta esortava a piangere e digiunare, cioè a dar segno di tristezza, coloro ai quali aveva predetto che il giudizio di Dio è pronto per perderli. Analogamente, oggi, non sarebbe male se i pastori delle Chiese, quando vedono avvicinarsi qualche calamità, guerra, carestia o pestilenza, facessero notare al loro popolo che è bene pregare il Signore con pianti e digiuni, ricordando che l'essenziale è di lacerare i cuori, non le vesti.
Certo, non sempre il digiuno è associato al pentimento; si addice tuttavia in modo particolare a coloro che vogliono attestare che riconoscono di aver meritato l'ira di Dio, e nondimeno cercano perdono nella sua clemenza. Gesù Cristo lo ritiene adatto al tempo dell'angoscia e della tribolazione e giustifica i suoi apostoli che non digiunavano mentre erano con lui: quello era infatti il tempo della gioia; afferma che avrebbero avuto occasione di digiunare nel tempo della tristezza, quando li avrebbe privati della sua compagnia (Mt. 9.15). Mi riferisco al digiuno solenne e pubblico, poiché la vita del cristiano dev'essere improntata ad una tal sobrietà da assomigliare dall'inizio alla fine, ad un digiuno ininterrotto.
Ma questo punto sarà esposto fra poco, quando tratterò della disciplina della Chiesa; non mi dilungo a parlarne.
18. Aggiungerò ancora questo: quando il termine "ravvedimento "viene riferito alla dichiarazione esteriore che fanno i peccatori per dar prova di un cambiamento in meglio, è sottratto al suo significato naturale. Una tal professione non è tanto un convertirsi a Dio quanto un confessare la propria colpa per ottenerne perdono e grazia. Ravvedersi con la cenere e il sacco altro non è che proclamare che abbiamo in orrore i nostri peccati e proviamo dolore perché Dio ne è gravemente offeso. È una specie di confessione pubblica per mezzo della quale, condannandoci davanti a Dio, ai suoi angeli ed a tutti, preveniamo il giudizio meritato. Infatti san Paolo, rimproverando la superficialità di coloro che si perdonano troppo facilmente, dice: "Se ci condannassimo noi stessi, non saremmo condannati da Dio " (1 Co. 11.31).
Del resto non è sempre necessario far sì che gli uomini siano testimoni del nostro pentimento; ma il confessare segretamente a Dio i nostri peccati è una parte del ravvedimento che non si può omettere. Non c'è infatti motivo perché Dio debba perdonare i peccati a cui indulgiamo e che nascondiamo con ipocrisia affinché non li metta in luce. E non solo è opportuno riconoscere le colpe che commettiamo di giorno in giorno, ma una grave caduta ci deve spingere più innanzi, e ricordarci le offese che sembravano sepolte già da molto tempo.
È quel che Davide insegna Cl. suo esempio. Vergognandosi grandemente del misfatto che aveva commesso riguardo a Bath Sceba, si riconosce corrotto, infetto e rivolto al male sin dal grembo materno (Sl. 51.7). E non per minimizzare la sua colpa, come molti che, accusandosi di essere uomini peccatori, si nascondono fra la moltitudine, cercando una scappatoia nel confondersi con il genere umano. Davide agisce in ben altro modo: in tale circostanza accresce e peggiora con franchezza la sua colpa ricordando che, incline al male fin dalla sua infanzia, non ha cessato di accumulare peccati su peccati. In un altro passo fa un esame della sua vita trascorsa per chiedere perdono degli sbagli commessi nella sua giovinezza (Sl. 25.7). Di fatto daremo prova di essere ben consci della nostra ipocrisia solo quando, gemendo sotto il fardello e piangendo per la nostra miseria, cercheremo la liberazione divina.
Conviene anche notare che il ravvedimento a cui Dio ci impegna ininterrottamente durante tutta la vita differisce da quello con cui, persone cadute in qualche atto malvagio o oltraggiosamente datesi alla dissolutezza o, respingendo il giogo di Dio, allontanatesi da lui, sono come risuscitate dalla morte alla vita. Spesso la Scrittura, esortando al ravvedimento, lo paragona sia ad un cambiamento, che ci ritrae dall'inferno per condurci al regno di Dio, sia ad una risurrezione. Quando è detto che il popolo s'è ravveduto, significa che si è allontanato dall'idolatria e da altri simili errori. Per questo motivo san Paolo ordina a coloro che non si sono ravveduti dalle loro dissolutezze, adulteri e impurità, di portare il lutto a causa di una tal durezza di cuore (2 Co. 12.21) Questa differenza dev'essere ben osservata affinché, quando alcuni sono esortati a pentirsi, non riteniamo di non aver più bisogno di convertirci giorno per giorno a Dio, e affinché non diventiamo indifferenti, quasi la mortificazione della carne non ci riguardasse più. Infatti le malvage cupidigie da cui siamo del continuo solleticati ed i peccati che abbondano in noi non ci permettono di impigrirci, se soltanto ci diamo cura di emendarci. Il ravvedimento particolare richiesto a coloro che il diavolo ha strappato dal servizio di Dio e avvolto nelle reti della morte, non impedisce che, in generale, tutti debbano pentirsi, e non abolisce il ravvedimento ordinario a cui la corruzione della nostra natura ci deve spingere.
19. Se è vero (come è noto) che la sostanza dell'Evangelo si riassume nel pentimento e nella remissione dei peccati, non è forse vero che il Signore giustifica gratuitamente i suoi servitori al fine di reintegrarli contemporaneamente nella vera giustizia, mediante la santificazione ad opera del suo Spirito? Giovanni Battista, il messaggero mandato per preparare la via a Cristo (Mt. 11.10) , riassumeva così la sua predicazione: "Ravvedetevi, poiché il regno di Dio è vicino " (Mt. 3.2). Inducendo gli uomini a ravvedersi, li invitava a riconoscersi peccatori ed a condannarsi dinanzi a Dio con tutte le loro opere, sì da desiderare con tutto il cuore la mortificazione della carne e la nuova rigenerazione ad opera dello Spirito di Dio. Annunciando il regno di Dio li chiamava alla fede. Con la proclamazione della sua vicinanza alludeva alla remissione dei peccati, alla salvezza e alla vita, ed in genere a tutti i benefici che riceviamo in Cristo.
Gli altri evangelisti dicono (Mr. 1.4; Lu 3.3) che Giovanni è venuto predicando il battesimo del ravvedimento per la remissione dei peccati. Ciò significa che ha insegnato agli uomini, stanchi e oppressi in modo assoluto dal carico e dal peso dei loro peccati, a rivolgersi al Signore e a concepire in loro stessi una speranza autentica di grazia e salvezza.
Anche il nostro signor Gesù Cristo, dopo il suo battesimo, ha iniziato a predicare dicendo: "Il regno di Dio è vicino: ravvedetevi e credete all'Evangelo " (Mt. 4.17). Con queste parole dichiara anzitutto che nella sua persona i tesori della misericordia di Dio sono aperti e svelati. In secondo luogo invita al ravvedimento; ed infine richiede fiducia e certezza nelle promesse di Dio. In un altro passo, volendo riassumere in breve tutto ciò che ha attinenza all'Evangelo, dice che è necessario che egli soffra, che risusciti dai morti e che nel suo nome siano predicati il ravvedimento e la remissione dei peccati (Lu 24.46).
È quanto hanno annunciato anche gli apostoli dopo la sua risurrezione, dicendo che era stato risuscitato da Dio per recare al popolo di Israele il ravvedimento e la remissione dei peccati (At. 5.31). Il ravvedimento nel nome di Cristo è predicato quando gli uomini, ammaestrati dall'Evangelo, prendono coscienza dal fatto che tutti i loro pensieri, i loro movimenti, i loro sentimenti e le loro opere sono corrotti e viziosi, e che devono di conseguenza essere rigenerati e rinascere, se vogliono aver accesso al regno di Dio. La remissione dei peccati è predicata quando si indica agli uomini che Gesù Cristo è stato fatto, per loro, redenzione, giustizia, salvezza e vita e che per mezzo suo e nel suo nome essi sono ritenuti giusti e innocenti davanti a Dio (1 Co. 1.30). In tal modo la sua giustizia è loro gratuitamente imputata. Riceviamo l'uno e l'altro per mezzo della fede (come l'abbiamo illustrato e dichiarato altrove) tuttavia, essendo l'oggetto della fede rappresentato dalla bontà di Dio, da cui i nostri peccati sono perdonati, è stato necessario stabilire la differenza che intercorre tra fede e ravvedimento.
20. Come l'odio per il peccato, che è l'inizio del ravvedimento, ci dà anzitutto accesso alla conoscenza di Cristo (il quale si fa conoscere solo ai poveri peccatori afflitti che gemono, si tormentano, sono oppressi e, affamati e assetati, afflitti da dolore e miseria, vengono meno) (Is. 61.1; Mt. 11.28; Lu 4.18) , così, dopo aver iniziato a ravvederci, dobbiamo proseguire in questo ravvedimento per tutta la nostra vita, e non desistere fino alla morte, se vogliamo vivere e dimorare nel nostro signor Gesù Cristo. Egli infatti è venuto per chiamare i peccatori, ma chiamarli al ravvedimento (Mt. 9.13; At. 3.26). Ha recato benedizione agli uomini che ne erano indegni, ma affinché ognuno di loro si converta dalla sua iniquità. La Scrittura è ricca di tali pensieri. Quando il Signore infatti ci offre la remissione dei nostri peccati è solito chiederci contemporaneamente un cambiamento di vita, volendo che la sua misericordia sia per noi causa e stimolo di miglioramento: "Procacciate "dice "il diritto e la giustizia: poiché la salvezza si è avvicinata (Is. 56.1). E: La salvezza verrà a Sion e a coloro che, in Israele, si convertono dalle loro iniquità " (Is. 59.20). E: "Cercate il Signore quando lo si può trovare; invocatelo mentre è vicino. Che il malvagio abbandoni la sua via ed i suoi pensieri perversi, e si rivolga al Signore, ed egli avrà pietà di lui " (Is. 55.6.7). E ancora: "Tornate al Signore in novità di vita, affinché i vostri peccati siano cancellati " (At. 3.19). In quest'ultimo passo bisogna osservare che questa condizione è aggiunta non già per significare che il perdono dei peccati si ottiene in base al nostro cambiamento di vita, ma piuttosto (in quanto il Signore vuol far misericordia agli uomini affinché raddrizzino le loro vite) per insegnarci quale deve essere la meta a cui dobbiamo tendere se vogliamo ottenere il perdono di Dio. Così, dunque, finché abiteremo in questa prigione rappresentata dal nostro corpo mortale, dovremo ininterrottamente combattere contro la corruzione della nostra natura e tutto ciò che in noi è secondo natura. Platone dice che la vita di un filosofo è una meditazione sul morire; con maggior pertinenza possiamo dire che la vita di un cristiano è un impegno e un esercizio costante per mortificare la carne fino a che, essendo questa completamente morta, lo Spirito di Dio regni in noi. Sono del parere che chi ha imparato a esercitare su di se un giudizio radicale ha imparato molto, non già per fermarsi a questo punto senza procedere oltre, ma piuttosto per sospirare e tendere a Dio affinché, radicato nella morte e nella risurrezione di Cristo, si proponga di ravvedersi del continuo. Chi sia veramente mosso dall'odio per il peccato non può certo agire diversamente. L'uomo, infatti, non ha mai odiato il peccato senza contemporaneamente amare la giustizia. Questa formulazione, semplicissima fra tutte, mi pare accordarsi molto bene con la verità delle sacre Scritture.
21. Che il ravvedimento sia un eccellente e singolare dono di Dio mi pare così ovvio, in base a quanto detto in precedenza, che non è necessario soffermarvisi più a lungo. È anche detto che la Chiesa primitiva dell'età apostolica glorificava Dio, meravigliandosi che egli avesse concesso ai pagani il ravvedimento in vista della salvezza (At. 11.18). E san Paolo avverte Timoteo di essere paziente e mite verso gli increduli "per vedere se Dio darà loro il pentimento, affinché conoscano la verità e si sottraggano ai legami del diavolo nei quali sono trattenuti (2Ti 25.26). Vero è che Dio, in passi innumerevoli della Scrittura, annuncia ed afferma che vuole la conversione di tutti, e rivolge di solito a tutti l'esortazione a cambiar vita; ma l'efficacia di questo appello dipende dallo Spirito di rigenerazione. Crearci la nostra natura umana, da soli, sarebbe certo più facile che effettuare questo mutamento in una migliore natura in base alle nostre capacità ed al nostro impegno. Perciò, non senza ragione, siamo chiamati l'opera di Dio, essendo stati creati per le buone opere da lui preparate perché camminassimo in esse (Ef. 2.10) , non solo per un giorno, ma per tutto il corso della nostra vocazione. Tutti coloro che Dio vuol preservare dalla rovina, li vivifica e li rinnova Cl. suo Spirito, per riformarli a se. Non perché il ravvedimento possa considerarsi causa della salvezza ma perché, come abbiamo già indicato, esso è inseparabile dalla fede e dalla misericordia di Dio come attesta Isaia: il Redentore è venuto in Giacobbe per coloro che si ritraggono dalle loro iniquità " (Is. 59.20). Dev'essere chiaro per noi che il timor di Dio non regnerà nei nostri cuori finché lo Spirito santo abbia compiuto la sua opera per condurci alla salvezza.
Ecco perché i credenti, lamentandosi per bocca di Isaia di essere abbandonati da Dio, ravvisino un segno di riprovazione nel fatto che egli indurisce i loro cuori (Is. 63.17). E l'Apostolo, volendo escludere dalla speranza di salvezza gli apostati, che hanno del tutto rinnegato Dio, dice che è impossibile che si pentano di nuovo (Eb. 6.6). Rinnovando coloro che non vuol lasciare in perdizione, Dio li fa oggetto del suo favore paterno e, al fine di attirarli, fa risplendere su loro i raggi della sua luce. Indurendo invece il cuore dei reprobi, la cui empietà è irremissibile, li colpisce per farli perire. È questa la vendetta di cui l'Apostolo minaccia gli apostati, che coscientemente e volontariamente si ribellano alla verità dell'Evangelo e, così facendo, si beffano di Dio, respingendo la sua grazia in modo vergognoso, profanando e calpestando il sangue di Gesù Cristo, anzi, per quanto sta in loro, crocifiggendolo di nuovo (Eb. 10.29). L'Apostolo in quel passo non vuole gettare in disperazione tutti coloro che hanno peccato coscientemente, ma indicare semplicemente che è colpa imperdonabile il rinunciare in modo globale alla dottrina dell'Evangelo, e non deve sembrare strano se Dio, così gravemente disprezzato, la punisce con estremo rigore, anzi non la perdona mai. Infatti l'Apostolo ritiene impossibile che chi è stato illuminato una volta, ha ricevuto la grazia dal cielo, è stato reso partecipe dello Spirito Santo ed ha assaporato la parola di Dio e i beni della vita futura, possa essere condotto a ravvedersi se ricade nuovamente. Ciò significa infatti crocifiggere per la seconda volta il figlio di Dio e farsene beffa (Eb. 6.4). E, in un altro passo: "Se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non ci rimane più alcun sacrificio per i peccati ma un'orribile attesa del giudizio " (Eb. 10.26).
Sono questi i passi che, malinterpretati dai Novaziani, hanno anticamente turbato la Chiesa. Queste parole appaiono, a prima vista, inaccettabili; alcuni illustri personaggi perciò hanno pensato che questa epistola fosse apocrifa, anche se in verità essa rivela in ogni suo passo uno spirito apostolico. Il nostro dissenso essendo solo con coloro che ne accettano l'autenticità, è facile dimostrare che queste affermazioni non costituiscono affatto una conferma del loro errore.
Anzitutto è necessario che l'Apostolo sia d'accordo Cl. suo maestro, il quale assicura che ogni peccato ed ogni bestemmia saranno perdonati eccettuato il peccato contro lo Spirito Santo che non è perdonato né in questo mondo né nel mondo futuro (Mt. 12.31; Lu 12.10). L'Apostolo si è limitato a questa eccezione, altrimenti risulterebbe nemico della grazia di Cristo. Di conseguenza, quel che è detto non concerne questo o quel peccato in particolare, per i quali non esisterebbe alcun perdono, ma solo il peccato che procede da una violenza radicale e che non si può scusare con l'attenuante della debolezza. È chiaro, infatti, che chi oltrepassa in questo modo ogni limite è posseduto dal diavolo.
22. Per meglio intendere questo, occorre sapere in che consista quel misfatto abominevole che non sarà perdonato. L'esegesi che ne dà sant'Agostino, secondo cui si tratterebbe di un indurimento e di un'ostinazione che perdurano fino alla morte, sfidando la grazia, contrasta con le parole di Cristo, secondo le quali non sarà perdonato nel presente secolo: poiché o questo sarebbe detto invano, oppure può essere commesso in questo mondo. Secondo sant'Agostino, invece, non viene commesso se non quando si persevera in esso fino alla morte. La tesi di altri, che fanno consistere il peccato contro lo Spirito Santo nell'invidiare i beni del prossimo, non mi pare aver alcun fondamento.

Dobbiamo ora dare la vera definizione che, fondandosi su testimonianze sicure, annullerà facilmente le altre. Pecca contro lo Spirito Santo colui che, toccato dalla luce della verità di Dio in modo tale da non poter dire, per giustificarsi, di ignorarla, tuttavia vi resiste con deliberata perversione, unicamente Cl. proposito di resistervi. Poiché il signor Gesù, volendo spiegare quel che aveva detto, aggiunge di conseguenza che chi avrà parlato contro di lui sarà perdonato, ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito non otterrà nessun perdono (Mt. 12.31; Mr. 3.29; Lu 12.10). E san Matteo, anziché definire questo atteggiamento bestemmia contro lo Spirito, lo definisce "Spirito di bestemmia ".
Come può uno recare ingiuria al figlio di Dio senza che ciò ridondi sullo Spirito Santo? questo avviene quando un uomo, per ignoranza, contrasta la verità di Dio senza averla conosciuta e, per ignoranza, denigra il Cristo, pur avendo una tal disposizione per cui non vorrebbe per nulla spegnere la verità di Dio, quando gli venisse rivelata, o dire una sola cattiva parola contro colui che riterrebbe essere Cristo. Una persona di questo tipo pecca contro il Padre e contro il Figlio. Così oggi molti odiano e rigettano la dottrina dell'Evangelo ma, se si rendessero conto che si tratta dell'Evangelo, la terrebbero in grande onore e la seguirebbero con tutto il cuore.
Coloro che hanno invece coscienza del fatto che l'insegnamento che combattono è di Dio, e tuttavia continuano ad opporgli resistenza e cercano di distruggerlo, bestemmiano contro lo Spirito, in quanto combattono contro la luce che era data loro dalla potenza dello Spirito Santo. Esistevano persone del genere fra i Giudei; pur non potendo ostacolare lo Spirito che parlava per bocca di Stefano, tuttavia si sforzavano di resistergli (At. 6.10). È fuor di dubbio che alcuni erano mossi da uno zelo sconsiderato per la Legge ma è chiaro che altri inveivano con malanimo ed empietà contro Dio, cioè contro l'insegnamento che, non lo potevano ignorare, procedeva da Dio. Tali erano i Farisei, che Gesù Cristo redarguisce: per rovesciare la potenza dello Spirito Santo la diffamavano come se fosse emanazione di Beelzebub (Mt. 9.34; 12.24). Ecco dunque in che consiste lo spirito di bestemmia: l'arroganza dell'uomo che, deliberatamente, cerca di annullare la gloria di Dio. È quel che san Paolo indica quando dice che, incredulo per incuria e ignoranza, ha ottenuto misericordia (1 Ti. 1.13). Se l'ignoranza unita all'incredulità gli ha permesso di ottenere il perdono, ne deriva che non v'è alcun perdono quando l'incredulità è consapevole e deliberatamente malvagia.
23. Che l'Apostolo parli non di una colpa individuale ma di una rivolta universale con cui i dannati si allontanano da ogni speranza di salvezza è facile da capire, se ci si bada. Che Dio si renda inesorabile verso di loro non fa meraviglia visto che, secondo la testimonianza di san Giovanni, non erano nel numero degli eletti, quando si sono allontanati da lui (1 Gv. 2.19). Infatti egli rivolge la sua parola contro coloro che pensavano poter tornare al cristianesimo dopo avervi rinunciato. Volendoli sottrarre a questa fantasticheria e nociva opinione, fa una osservazione verissima: coloro che hanno una volta rinnegato Gesù Cristo, coscientemente e nel pieno delle loro facoltà, non possono più essere suoi membri. Lo rinnegano, non già coloro che con una vita disordinata trasgrediscono la sua Parola, ma quelli che deliberatamente la respingono in modo categorico.

I Novaziani e i loro seguaci interpretano dunque erroneamente il termine "cadere "pensando che si riferisca a chi, istruito dalla legge di Dio che non bisogna rubare, tuttavia lo fa. Il testo va però letto in modo dialettico. Quando si parla di coloro che sono caduti dopo essere stati illuminati, aver gustato la parola di Dio, la sua grazia celeste e i beni della vita futura ed esser stati illuminati dallo Spirito Santo (Eb. 6.4) , bisogna chiedersi se hanno spento la luce dello Spirito con malvagità deliberata, respingendo la parola di Dio ed il sapore della sua grazia e allontanandosi dal suo Spirito. Quando infatti l'uomo si allontana totalmente da Dio e rinnega tutto il Cristianesimo, non vi è peccato singolo ma rivolta generale contro Dio.
In effetti, per dimostrare più chiaramente che si tratta di un 'empietà malvagia e deliberata, aggiunge a chiare lettere l'avverbio "volontariamente ". Quando dice che non rimane più alcun sacrificio per coloro che peccano con volontà cosciente dopo aver conosciuto la verità (Eb. 10.26) , non nega che Cristo sia un sacrificio perpetuo per cancellare le iniquità dei credenti (quel che aveva trattato in precedenza nel corso di quasi tutta l'epistola, illustrando il sacerdozio di Cristo) ma intende che non ne rimane alcun altro quando si respinge quello. Lo si respinge calpestando deliberatamente la verità dell'Evangelo.
24. Riguardo all'obiezione che l'escludere un peccatore dalla remissione dei peccati, quando chieda misericordia, è crudeltà eccessiva, indegna della clemenza di Dio, la risposta è facile.
Infatti non dice che Dio negherà loro il perdono se si convertono a lui ma dice, senza possibilità di dubbio, che essi non si volgeranno mai al pentimento in quanto Dio, per suo giusto giudizio, a causa della loro ingratitudine, li colpirà con un accecamento eterno. Il fatto che applichi a questo riguardo l'esempio di Esaù, che ha tentato invano con lacrime e pianti di riacquistare la primogenitura che aveva persa, non contraddice affatto a ciò (Eb. 12.16); e neanche quel che dice il Profeta, che quando grideranno il Signore non li esaudirà (Za. 7.13). Con questo linguaggio, infatti, la Scrittura non indica un vero pentimento o un'invocazione a Dio, ma piuttosto la distretta in cui i malvagi, posti di fronte alla più grave calamità, sono costretti a riconsiderare quel che prima consideravano scherzo e favola: che cioè tutto il loro bene risiede nell'aiuto di Dio. Non possono però chiederlo o implorarlo di cuore, ma gemono sol perché esso e stato loro tolto. Perciò il Profeta con il termine "clamore "e l'Apostolo con il termine "lacrime "non indicano altro che l'orribile tormento da cui gli iniqui sono spinti nella disperazione e nello sconforto, vedendo che non hanno alcun rimedio alla loro disgrazia all'infuori della bontà di Dio, sulla quale non possono in alcun modo fare assegnamento.
È necessario sottolinearlo chiaramente, altrimenti Dio si contraddirebbe affermando per bocca del suo Profeta che sarà pronto a far grazia e a dimenticare ogni cosa non appena il peccatore si convertirà a lui (Ez. 18.20.21). Ma, come ho già detto, è chiaro che il cuore dell'uomo non si potrà mai convertire se non quando sia prevenuto dalla grazia che viene dall'alto. Per quanto riguarda l'invocare Dio, la sua promessa non verrà mai meno; ma nei passi citati tanto la conversione quanto la preghiera sono intese come un tormento confuso e cieco da cui i reprobi sono agitati constatando che hanno bisogno di cercare Dio, per trovare rimedio ai loro mali, e, tuttavia, lo sfuggono il più possibile.

25. L'Apostolo dice che non si può placare Dio fingendo di pentirsi: ci si può però domandare in che modo il re Achab ottenne il perdono, sviando da se la punizione preannunciatagli (2 Re 21.28.29) , visto che il suo fu uno spavento solo momentaneo, e non si è corretto, ma ha continuato il suo riprovevole andazzo di vita. Si è rivestito sì di un sacco, ha cosparso il suo capo di polvere, si è coricato in terra e si è umiliato dinanzi a Dio, e la Scrittura gliene rende testimonianza; ma non ha significato nulla stracciare i suoi vestiti quando il cuore era e rimaneva indurito e pieno di malvagità. Eppure Dio l'ha esaudito per fargli misericordia. Rispondo che Dio, pur perdonando agli ipocriti per un certo tempo, mantiene sempre la sua ira su di loro, e che ciò avviene non tanto in loro favore quanto per dare un esempio a tutti. Infatti qual vantaggio ha ricavato Achab dalla riduzione del suo castigo? Semplicemente che non è accaduto, durante la sua vita, ciò che temeva. La maledizione di Dio non ha però cessato di essere costantemente presente nella sua casa, benché nascosta; ed egli non ha evitato di perire per l'eternità.
Altrettanto dicasi di Esaù che, sebbene respinto, ottiene una benedizione temporanea con le sue lacrime (Ge 27.38-40). Ma poiché l'eredità spirituale era riservata a uno solo dei fratelli ed Esaù era reietto mentre Giacobbe era eletto, tale reiezione gli ha chiuso la porta alla grazia di Dio. E tuttavia, per un uomo rozzo qual era, gli è stato concesso il sollievo di godere a sazietà del grasso della terra e della rugiada del cielo. È quanto ho detto poc'anzi, che ciò accade per dare esempio agli altri affinché imparino a rivolgere la loro attenzione ed i loro desideri al vero pentimento. Non sussiste il minimo dubbio che Dio sia incline e pronto al perdono verso tutti coloro che si convertiranno a lui di cuore, visto che estende la sua clemenza fino a coloro che ne sono indegni, solo nel caso però che dimostrino una qualche prova di dolersi delle loro colpe.
All'opposto, ci viene insegnato quale vendetta sia preparata per coloro che si beffano delle minacce di Dio e non ne tengono conto, irrigidendosi con atteggiamento spudorato e cuore di ferro, per renderle vane. In questo modo Dio ha ripetutamente teso la mano ai figli d'Israele per aiutarli nella loro disgrazia, benché le loro grida fossero simulate ed il loro cuore doppio e sleale, come lamenta nel Salmo, dove è detto che subito dopo tornavano al loro precedente modo di vita (Sl. 78.36). Infatti li ha voluti condurre ad un pentimento autentico e proveniente dal cuore, mostrandosi così benevolo verso di loro, e li ha voluti rendere inescusabili. Tuttavia non si deve pensare che, perdonando per un certo tempo la pena, egli si trattenga per sempre; anzi si presenta alla fine con un rigore maggiore contro gli ipocriti e raddoppia le punizioni perché risulti chiaro quanto gli dispiace la menzogna. Tuttavia, come già dissi, egli indica con alcuni esempi la sua generosità nel perdonare affinché i credenti siano tanto più incoraggiati a correggere i loro sbagli, e l'orgoglio di coloro che si ribellano allo sprone sia più gravemente condannato.
CAPITOLO 4
LE CIANCE DEI TEOLOGI SORBONISTI SULLA PENITENZA SONO ESTRANEE ALLA PUREZZA DELL'EVANGELO. IL PROBLEMA DELLA CONFESSIONE E DELL'ESPIAZIONE
1. Passiamo ora a discutere la dottrina dei Sofisti intorno al ravvedimento, il più brevemente possibile. Non mi propongo infatti di esaminare la cosa a fondo, per tema che il presente libro, che cerco di mantenere nei limiti di un sommario, cresca troppo in lunghezza. D'altra parte, hanno anche reso complicato quest'argomento, di per se non eccessivamente difficile, con così lunghe dispute, che, se volessimo addentrarci nei loro labirinti, non ne usciremmo più.
Anzitutto, nel definire il ravvedimento, dimostrano con evidenza di non avere mai inteso esattamente di che si tratta. Traggono infatti dai libri degli antichi alcune affermazioni che non esprimono affatto la forza e la natura del ravvedimento: quando ad esempio dicono che ravvedersi è questo: piangere i peccati precedentemente commessi e non commettere quelli che poi bisogna piangere; gemere per i mali passati e non commettere più quelli per i quali poi bisogna gemere; un triste castigo, che punisce quel che si vorrebbe non aver commesso; un dolore del cuore e un'amarezza dell'anima per i mali che qualcuno ha commesso o ai quali ha consentito.
Pur ammettendo che queste cose siano state dette dagli antichi a ragione (ed uno spirito polemico non avrebbe difficoltà a contestarlo) affermazioni del genere non hanno il valore di definizioni della realtà del ravvedimento ma hanno il solo scopo di esortare i penitenti a non ricadere nei medesimi sbagli dai quali erano stati liberati. Se poi si dovesse considerare definizioni del ravvedimento tutto quel che gli antichi ne hanno detto, se ne potrebbero ricordare anche altre, non meno consistenti, come quella di Crisostomo che definisce il ravvedimento una medicina che spegne il peccato, un dono sceso dal cielo, un'ammirevole virtù, una grazia che sormonta la forza delle leggi.
Inoltre, il commento di questi bravi glossatori è di gran lunga peggiore di queste definizioni stesse. Essi infatti si soffermano con tanta insistenza sugli aspetti esteriori e corporali, che difficilmente si potrebbe estrarre dalle sciocchezze contenute nei loro libri qualcosa di diverso da affermazioni del tipo di queste: la penitenza è una disciplina e un'austerità che serve in parte a domare la carne, in parte a punire i peccati. Quanto al rinnovamento interiore dell'animo e al rinnovamento di vita, non se ne fa il minimo cenno.
Chiacchierano molto di contrizione e attrizione. In realtà tormentano le anime con molti scrupoli e le irretiscono in angosce e problemi; ma quando sembrano aver afflitto i cuori fino in fondo, guariscono tutte le amarezze con una spruzzata di cerimonia.
Dopo aver definito il ravvedimento con tanta sottigliezza, lo suddividono in tre parti: la contrizione del cuore, la confessione orale e l'espiazione per mezzo delle opere, divisione impropria quanto la loro definizione, anche se durante tutta la loro vita non studiano altro che la dialettica, cioè l'arte di definire e di dividere.

Ma se qualcuno deduce dalla definizione, e questo argomento è accolto fra i dialettici, che si possono piangere i peccati commessi in precedenza e non più commetterli, anche se non vi è alcuna confessione orale, come difenderanno la loro suddivisione? Infatti se pur non facendo una confessione orale si può essere vero penitente, il ravvedimento può sussistere senza questa confessione.
Se rispondono che quella suddivisione deve riferirsi alla penitenza in quanto sacramento, o che si deve intendere di tutta la perfezione della penitenza, che non racchiudono nelle loro definizioni, non hanno di che accusare me, ma devono imputarne la colpa alla loro definizione che manca di chiarezza. Io, certo, nella mia ignoranza, mi attengo alla definizione che deve costituire il cardine di tutta la disputa. Ma concediamo loro questa licenza da maestri, e procediamo con ordine all'esame delle singole parti.
Il fatto che per disprezzo tralascio molte cose che reputo frivole e che, nel loro orgoglio, considerano grandi misteri, non deriva da ignoranza o dimenticanza, né mi sarebbe difficile scrivere e rendere loro note le sottigliezze a cui ricorrono; semplicemente mi faccio scrupolo di tediare senza frutto il lettore con questo inconsistente guazzabuglio. È altresì vero che dalle questioni che sollevano e dibattono, e in cui si vanno ad impigliare, è facile giudicare che chiacchierano di cose sconosciute. Come il chiedersi se il pentimento di un peccato piace a Dio, se l'ostinazione permane in tutto il resto. Se le punizioni che Dio manda possono valere come espiazione. Se la penitenza può essere ripetuta per i peccati mortali. Anzi, su quest'ultimo punto stabiliscono erroneamente e con disonestà che soltanto per i peccati veniali dobbiamo quotidianamente pentirci. Si affaticano parecchio ed errano gravemente nell'interpretare il detto di san Girolamo secondo cui la penitenza è una seconda tavola di salvezza sulla quale, colui che stava per perire in mare nuota, per raggiungere il porto. Dimostrano così di non essersi mai svegliati dalla stupidità che li rende simili a bestie, per scorgere, da lontano, anche uno solo fra i mille sbagli che hanno commesso.
2. I lettori devono rendersi conto che non stiamo conducendo qui una disputa priva di importanza, ma c'è di mezzo una questione estremamente rilevante: la remissione dei peccati. Quando richiedono, per il ravvedimento, compunzione di cuore, confessione dalla bocca e espiazione per mezzo di opere, stabiliscono parimenti che queste tre cose sono necessarie per ottenere remissione dei peccati. Se c'è qualcosa, in tutta la nostra religione, che dobbiamo soprattutto capire è questo: con che mezzo, in che modo, a quale condizione e con quale facilità o difficoltà si ottiene la remissione dei peccati. Se non abbiamo di questo problema una idea chiara, la coscienza non può trovar riposo, né pace con Dio, né fiducia o sicurezza; ma essa trema del continuo, è agitata, turbata, tormentata, trasportata qua e là; prova orrore e odio per il giudizio di Dio e lo fugge, per quanto possibile. Se la remissione dei peccati dipende dalle condizioni a cui essi la vincolano, nessuno è più misero e disperato di noi.
La prima condizione, che pongono per ottenere il perdono e la grazia, è la contrizione, che richiedono sia fatta dovutamente, cioè in modo pieno e assoluto; tuttavia non determinano quando si può essere certi di aver rettamente adempiuto questa contrizione. Dobbiamo essere vigilanti, darci cura e anche sforzarci di rimpiangere con dolore le nostre colpe, per incitarci a vergognarcene e odiarle il più possibile. È la tristezza di cui parla san Paolo, che non dobbiamo respingere, perché genera un pentimento che conduce alla salvezza. Ma quando si esige un dolore così profondo da uguagliare la grandezza della colpa, e lo si mette sull'altro piatto della bilancia, opponendolo alla fede nel perdono, si tratta di una strettoia in cui le povere coscienze sono terribilmente angosciate, afflitte, vedendo che quella contrizione dovuta è loro imposta, e non sono in grado di valutare l'entità del debito, né sanno con certezza quando avranno pagato quel che dovevano.
Se dicono che bisogna fare ciò di cui siamo capaci, siamo sempre in un medesimo circolo vizioso. Quando mai, infatti, uno oserà pretendere di aver pianto i suoi peccati con tutte le sue forze?
Il risultato è dunque che le coscienze, dopo essersi a lungo dibattute in loro stesse, se non trovano un porto in cui poter riposare, almeno per lenire il loro male, costringono se stesse a provare qualche dolore e traggono per forza qualche lacrima per compiere quella contrizione.
3. Se vogliono accusarmi di calunnia mi indichino una sola persona che non sia stata gettata nella disperazione dalla dottrina della contrizione, o che non abbia opposto al giudizio di Dio un dolore finto, al posto della vera compunzione. Anche noi abbiamo detto altrove che la remissione dei peccati non ci è mai accordata senza pentimento, in quanto nessuno può veramente e con sincerità di cuore implorare la misericordia di Dio, se non colui che è afflitto e affranto dalla coscienza dei suoi peccati; ma abbiamo aggiunto pure che il pentimento non è la causa di questa remissione, liberando le anime dal tormento di dover compiere in modo perfetto la contrizione. Inoltre abbiamo insegnato al peccatore a non prestare attenzione né alla sua compunzione né alle sue lacrime, ma a fissare entrambi gli occhi sulla misericordia di Dio. Abbiamo solo fatto notare che chiamate da Cristo sono le persone travagliate e aggravate, visto che egli è stato inviato per annunciare buone notizie ai poveri, per guarire coloro che hanno il cuore afflitto, per annunciare ai prigionieri la loro liberazione, per sciogliere le catene ai prigionieri e consolare quelli che piangono (Mt. 11.28; Is. 61.1; Lu 4.18). Da questo erano esclusi tanto i Farisei che, soddisfatti e contenti della loro giustizia, non avevano coscienza della loro miseria, quanto coloro che disprezzano Dio, i quali, incuranti della sua ira, non cercano alcun rimedio al loro male. Tutte queste persone non sono infatti travagliate, né afflitte nel loro cuore né legate, né incatenate e non piangono.
È grande la differenza fra l'insegnare a un peccatore a meritare la remissione dei suoi peccati con una piena e intera contrizione, che non riesce mai a adempiere, e insegnargli ad avere fame e sete della misericordia di Dio, conoscendo la propria miseria, additandogli il travaglio, l'angoscia e la cattività in cui si dibatte per fargli ricercare consolazione, riposo e liberazione; insegnargli insomma, nella sua umiltà, a render gloria a Dio.
4. Quanto alla confessione c'è sempre stata una gran controversia fra i canonisti e i teologi scolastici. I primi, infatti, sostengono che essa è ordinata soltanto dal diritto positivo, cioè dalle costituzioni ecclesiastiche. I secondi, che è ordinata da un comandamento divino. Questa polemica ha messo in evidenza la grande spudoratezza dei teologi, i quali hanno depravato e corrotto tutti i passi della Scrittura, che citavano in appoggio alle loro tesi. Vedendo poi che in tal modo non raggiungevano il loro scopo, i più abili fra loro hanno trovato questa scappatoia: la confessione è in origine di diritto divino, quanto alla sostanza, ma In seguito ha assunto la sua forma dal diritto positivo. In tal modo, i più inetti fra i cultori della Legge sono soliti riferire la citazione al diritto divino, poiché fu detto a Adamo: "Adamo, dove sei? "Similmente, l'eccezione, poiché Adamo rispose come per difendersi: "La donna che mi hai data, ecc. " (Ge 3.9.12). Nondimeno la forma sarebbe stata data a tutti e due dal diritto civile.
Vediamo però gli argomenti con cui dimostrano che questa confessione, formata o informe, è ordinata da Dio. Nostro Signore, dicono, mandò i lebbrosi ai sacerdoti (Mt. 8.4; Lu 5.14; 17.14). Li ha forse mandati a confessarsi? Chi ha mai sentito dire che i preti leviti fossero ordinati per udire le confessioni? (De 17.8.9). Fanno perciò ricorso alle allegorie e dicono che la legge mosaica stabiliva che i sacerdoti discernessero fra lebbra e lebbra; che il peccato è una lebbra spirituale su cui spetta al prete dare un giudizio.
Prima di rispondere, chiedo: se questo passo li costituisce giudici della lebbra spirituale, perché si attribuiscono la conoscenza della lebbra naturale e fisica? Non è forse prendere in giro la Scrittura fare un ragionamento di questo genere: la Legge attribuisce ai preti leviti il giudizio sulla lebbra, attribuiamocelo dunque. Il peccato è una lebbra spirituale, siamo dunque i giudici dei peccati?
Ora rispondo che, mutato il sacerdozio, avviene di necessità anche un mutamento di legge (Eb. 7.12). Se tutto il sacerdozio e trasferito, compiuto e terminato in Gesù Cristo, bisogna che anche tutta la dignità e la prerogativa del sacerdozio sia trasferita su di lui. Se amano tanto le allegorie, si propongano Cristo per solo sacerdote, e rimandino al suo tribunale ogni potestà di giudicare: lo accetteremo con facilità. Inoltre, è errata l'allegoria che introduce una legge puramente civile fra le cerimonie.
Perché dunque Cristo manda i lebbrosi ai sacerdoti? Affinché questi ultimi non dicessero per calunnia che egli violava la Legge, la quale ordinava che colui che era guarito dalla lebbra si presentasse al sacerdote e si purificasse con una particolare oblazione; egli ordina dunque ai lebbrosi, che aveva guarito, di osservare le norme della Legge: "Andate "dice "mostratevi ai sacerdoti e offrite il dono che Mosè ha ordinato nella Legge, affinché serva loro di testimonianza ". Questo miracolo doveva realmente servir loro di testimonianza. Li avevano dichiarati lebbrosi, poi affermano che sono guariti. Non sono forse costretti, lo vogliano o no, ad essere testimoni dei miracoli di Cristo? Cristo dà loro il suo miracolo perché lo vaglino: essi non lo possono negare e sebbene tergiversino ancora, quest'opera è per loro una testimonianza. È detto anche in un altro passo: "Questo Evangelo sarà predicato al mondo intero come testimonianza a tutte le genti " (Mt. 24.14). E: "Sarete condotti davanti ai re e ai prìncipi per testimoniare davanti a loro " (Mt. 10.18) , cioè per renderli tanto più convinti del giudizio di Dio e preferiscono fondarsi sull'autorità di Crisostomo egli insegna che Cristo ha fatto questo a causa dei Giudei, perché non lo si considerasse un prevaricatore della Legge. Mi vergogno di riferirmi alla testimonianza di qualche uomo in una cosa così evidente, visto che Gesù Cristo dichiara di lasciare ai sacerdoti intero il diritto che proveniva loro dalla Legge, come a nemici mortali del suo Evangelo, poiché sempre spiavano l'occasione di sparlare, se non avesse chiuso loro la bocca. Perciò, se i preti del papato vogliono mantenere tale prerogativa, dicano apertamente di essere i seguaci di coloro che hanno bisogno di essere vinti dall'evidenza, per non bestemmiare. Infatti quel che Gesù Cristo lascia ai preti della Legge, non concerne affatto i suoi veri ministri.
5. Traggono il secondo argomento dalla medesima fonte, cioè dall'allegoria; quasi le allegorie avessero grande valore per garantire una qualche dottrina. Voglio ben ammettere la loro validità, anche se si potrebbe prestar loro maggior forza di quanto non abbiano.
Dicono dunque che il nostro Signore ordinò ai suoi discepoli, dopo che Lazzaro fu da lui risuscitato, di slegarlo e di lasciarlo andare (Gv. 11.44).
In primo luogo mentono, nessun passo dice infatti che il nostro Signore abbia ordinato questo ai suoi discepoli. l: molto più verosimile che lo dicesse ai Giudei lì presenti, affinché il miracolo fosse più evidente e non potesse essere sospettato di inganno, e che la sua potenza risultasse tanto più grande, per il fatto che con la sua sola parola, senza toccarli, risuscitava i morti. Lo interpreto così: il nostro Signore, per togliere ogni sospetto ai Giudei, volle che essi stessi sollevassero la pietra, sentissero il cattivo odore, scorgessero le prove sicure della morte, che vedessero Lazzaro risuscitare per la sola potenza della sua voce, e lo toccassero per primi. Questa è l'opinione di Crisostomo nel sermone Contro i Giudei, i pagani e gli eretici.
Ammettiamo però che ciò sia stato detto ai discepoli: che conclusione ne potranno trarre? Diranno forse che è stata data in tal modo agli apostoli la potenza di slegare? Daremo una interpretazione molto più chiara di questo passo in chiave allegorica dicendo che il nostro Signore ha voluto con ciò insegnare ai suoi credenti a slegare coloro che erano stati risuscitati da lui. Cioè, a non richiamare alla memoria i peccati che ha dimenticato, a non condannare come peccatori coloro che ha assolto, a non rimproverare le cose che ha perdonato, a non essere severi e duri nel punire, laddove egli è stato misericordioso dolce e benigno nel perdonare. Infatti, nulla ci deve spingere a perdonare più dell'esempio di colui che è nostro giudice, che minaccia di rendere l'equivalente a coloro che saranno stati troppo duri e rigidi. Riflettano ora e si facciano scodo delle loro allegorie!
6. La loro polemica ha maggior peso quando confermano le loro tesi con affermazioni della Scrittura, che considerano esplicite. Coloro, dicono, che venivano a farsi battezzare da Giovanni, confessavano i loro peccati (Mt. 3.6). Anche san Giacomo ordina che ci confessiamo gli uni gli altri i nostri peccati (Gm. 5.16). Rispondo che non fa meraviglia se coloro che volevano essere battezzati confessavano i loro peccati, poiché è stato detto prima che Giovanni ha predicato il battesimo del ravvedimento ed ha battezzato con acqua in segno di ravvedimento. Chi dunque avrebbe battezzato, se non coloro che si riconoscevano peccatori? Il battesimo è un segno della remissione dei peccati; chi dunque sarebbe ammesso a questo segno se non i peccatori e coloro che si riconoscono tali? Confessavano dunque i loro peccati per essere battezzati.
San Giacomo ordina, non senza motivo, che ci confessiamo reciprocamente i nostri peccati; ma se considerassero quel che segue subito dopo, si accorgerebbero che non si addice molto al loro caso. "Confessate "dice "i vostri peccati l'uno all'altro, e pregate gli uni per gli altri ". Egli congiunge la preghiera reciproca e la confessione reciproca. Se ci si deve confessare soltanto ai preti, bisogna pregare soltanto per loro. Dalle parole di san Giacomo deriverebbe che soltanto i preti si possono confessare. Poiché chiedendoci di confessarci l'uno all'altro, egli parla soltanto a coloro che possono udire la confessione degli altri. Infatti dice "mutuamente "o, se preferiscono, "reciprocamente ". Ma nessuno può confessarsi mutuamente, se non colui che ode la confessione del suo compagno, privilegio che essi concedono soltanto ai preti. Lasciamo dunque loro volentieri l'incarico di confessarsi.
Lasciamo da parte queste chiacchiere e cerchiamo di comprendere quel che l'Apostolo vuole dire, che è semplice ed evidente: che cioè dobbiamo comunicarci e rivelarci reciprocamente le nostre debolezze per ricevere consiglio, compassione e reciproca consolazione. Inoltre ciascuno, conoscendo in questo modo le infermità dei suoi fratelli, per parte sua prega Dio per loro. Perché dunque citano san Giacomo contro di noi, visto che chiediamo, con tanta insistenza, il riconoscimento della misericordia di Dio, che non si può riconoscere, se non da parte di coloro che hanno anzitutto confessato la loro miseria? Dichiariamo anzi che tutti coloro che non si confessano davanti a Dio, davanti agli angeli, davanti alla Chiesa, insomma davanti a tutti gli uomini, sono maledetti e dannati. Poiché Dio ha incluso ogni cosa sotto il peccato, affinché ogni bocca sia chiusa e ogni carne sia umiliata davanti a lui (Ga 3.22; Ro 3.9.19) , e affinché lui solo sia giustificato ed esaltato.
7. MI meraviglio inoltre della sfacciataggine con CUI osano affermare che la confessione di cui parlano è di diritto divino. Riconosciamo bene che quest'uso è molto antico, ma possiamo facilmente provare che all'inizio essa era libera. Infatti le loro Storie affermano che non vi è stata in merito alcuna legge o costituzione prima del tempo di Innocenzo 3. Se ci fosse stata una legge più antica vi si sarebbero certo attenuti per trarne vantaggio, piuttosto che rendersi ridicoli anche agli occhi dei bambini, come hanno fatto accontentandosi del decreto fatto al Concilio di san Giovanni in Laterano. Non esitano, in altri casi, a creare decreti inautentici e frutto d'immaginazione, e a far credere che certe cose sono state stabilite dai primi Concili, per abbagliare gli occhi dei semplici con l'argomento dell'antichità. Non hanno ritenuto dover far lo stesso su questo argomento. Sono perciò costretti ad essere essi stessi testimoni del fatto che è da meno di trecento anni che Innocenzo 3ha imbrigliato la Chiesa, imponendole l'obbligo della confessione.
Tralasciando ogni considerazione cronologica, la sola astrusità terminologica mostra che questa legge non merita alcun rispetto. Vi si ordina che ogni persona dei due sessi confessi i suoi peccati al suo prete, almeno una volta l'anno. Ne deriverebbe che nessuno, a meno che non fosse contemporaneamente uomo e donna, sarebbe tenuto a confessarsi. Stupidità ancora più grossolana nei loro successori, che non hanno saputo capire che cosa esattamente significasse il termine "prete ".
Malgrado le chiacchiere di tutti gli avvocati e procuratori del Papa e di tutti i bigotti che ha d'attorno, un fatto è chiaro: Gesù Cristo non è autore di una legge che costringe gli uomini a raccontare I loro peccati; anzi, erano già trascorsi milleduecento anni dalla risurrezione di Gesù Cristo, quando venne dato un tal ordine; questa tirannia è stata istituita allorché al posto dei pastori regnavano ciarlatani, i quali dopo aver cancellato ogni pietà e ogni insegnamento, avevano usurpato il diritto di fare ogni cosa senza discernimento.
Ci sono inoltre testimonianze probanti sia nelle Storie sia negli altri scrittori antichi, le quali mostrano che si tratta di una disciplina politica istituita soltanto dai vescovi e non di un ordine voluto da Cristo o dai suoi apostoli. Proporrò un solo esempio che basterà ampiamente a provare quel che dico. Sozomeno, uno degli autori della Storia Ecclesiastica racconta che questa prassi fu stabilita dai vescovi e diligentemente osservata dalle Chiese occidentali, soprattutto a Roma. Dimostra così che non è stata una prassi abituale di tutte le Chiese. In seguito riferisce che uno dei preti era particolarmente destinato a quest'ufficio. Pertanto refuta completamente quel che costoro hanno simulato circa le chiavi, date per la confessione a tutto l'ordine dei preti. Non era dunque compito comune a tutti, ma la carica di un singolo, eletto dal vescovo a questo scopo. È quello che oggi i papisti stessi chiamano penitenziere nelle loro cattedrali, il quale viene a conoscenza dei delitti più grandi. Egli narra inoltre che a Costantinopoli questa usanza fu mantenuta finché si scoprì che una donna aveva preso il pretesto della confessione per convivere con uno dei diaconi di quella Chiesa. A causa di quel misfatto, Nettario, vescovo del luogo, uomo rinomato per santità e dottrina, abolì la pratica della confessione. Rizzino le orecchie quegli asini. Se la confessione auricolare fosse una legge di Dio, come avrebbe osato Nettario infrangerla e abolirla? Accuseranno di eresia e di scisma quella santa persona, apprezzata e approvata da tutti gli Antichi? Automaticamente si condannerebbe la Chiesa di Costantinopoli, anzi tutte le Chiese orientali, che hanno disprezzato una legge che dovrebbe essere (se costoro dicono il vero) inviolabile e normativa per tutti i cristiani.
8. Anzi, quella abrogazione è così spesso illustrata da Crisostomo, anch'egli vescovo di Costantinopoli, che fa meraviglia che osino aprire bocca per controbattere. "Se vuoi cancellare i tuoi peccati "egli dice "confessali. Se ti vergogni di palesarli ad un uomo, confessali ogni giorno in te stesso. Non dico che tu li palesi ad alcuno che te ne faccia di poi rimprovero: confessali a Dio che può purificarli. Confessali nel tuo letto, affinché la tua coscienza riconosca quotidianamente il suo male ". E: "Non è necessario confessarsi davanti ad un testimone; purché tu ne prenda atto nel tuo cuore. Questo esame non richiede alcun testimone; è sufficiente che Dio ti veda ed ascolti ". E: "Io non ti chiamo davanti agli uomini per palesare loro i tuoi peccati: metti a nudo la tua coscienza davanti a Dio. Mostra la tua piaga al Signore, che ne è il medico e pregalo di porvi rimedio. Egli è colui che non rimprovera nulla e guarisce con bontà il povero malato ". E: "Io non voglio che tu ti confessi ad un uomo che possa quindi rimproverarti o diffamarti rendendo pubblici i tuoi errori: ma mostra le tue piaghe a Dio che ne è il buon medico ". Mette poi in bocca a Dio queste parole: "Io non ti costringo a venire in pubblica assemblea; confessa a me solo i tuoi peccati, affinché io ti guarisca ".
Diremo che Crisostomo è stato, con queste parole, temerario al punto di sciogliere le coscienze degli uomini dai vincoli in cui erano strette per volere di Dio? Certo, no. Semplicemente non considera vincolante quello che sa non essere stabilito per decreto di Dio.
9. Per meglio chiarire la cosa, illustreremo anzitutto fedelmente il tipo di confessione che ci è stata data dalla parola di Dio; in seguito esamineremo le invenzioni dei papisti riguardo alla confessione; non tutte (chi infatti potrebbe esaurire un mare così vasto?) , ma soltanto quelle che riassumono la loro dottrina.
Ho qualche esitazione a ricordare che sia il traduttore greco sia quello latino hanno spesso scambiato il termine "confessare "con quello di "lodare ", dato che è cosa nota anche ai più ignoranti; è però necessario denunciare l'audacia di quei malvagi, poiché si prevalgono del termine "confessione ". il quale implica semplicemente la lode a Dio, per giustificare la loro tirannia. Per provare che la confessione reca gioia e sollievo all'anima, citano il versetto del Salmo: "Verrò con canti di giubilo e di confessione " (Sl. 42.5). Ma se è lecito falsificare in questo modo ogni cosa, nasceranno gravi equivoci. I papisti hanno perso ogni pudore, e dunque giusto riconoscere che Dio li ha precipitati nell'errore per rendere più detestabile la loro temerarietà.
Del resto, attenendoci semplicemente alla Scrittura, non correremo il pericolo di essere ingannati da simili inganni. Essa infatti ci ordina un solo modo autentico di confessarci: poiché è il Signore che rimette, dimentica e cancella i peccati, confessiamoglieli per ottenere da lui grazia e perdono. Egli è il medico, mostriamogli dunque le nostre piaghe. È lui che è stato offeso e ferito, chiediamogli dunque grazia e pace. È lui che conosce i cuori e vede tutti i pensieri, apriamo dunque i nostri cuori a lui.
È lui che chiama i peccatori, andiamo dunque in sua presenza. "Ti ho fatto conoscere il mio peccato "dice Davide "e non ho nascosto la mia iniquità. Ho detto: Confesserò contro di me la mia ingiustizia al Signore; e tu hai perdonato l'iniquità del mio cuore " (Sl. 32.5). Abbiamo un'altra confessione di Davide stesso, analoga a questa: "Abbi pietà di me, Signore, secondo la tua grande misericordia " (Sl. 51.1). Quella di Daniele è simile: "Noi abbiamo peccato, Signore, abbiamo agito in modo perverso, abbiamo commesso empietà, siamo stati ribelli ritraendoci dai tuoi comandamenti " (Da 9.5).
Molti esempi del genere si leggono nella Scrittura e potrebbero riempire un volume. "Se confessiamo i nostri peccati "dice san Giovanni "il Signore è fedele per perdonarceli " (1 Gv. 1.9). A chi li confesseremo noi? A lui, certamente, se con cuore afflitto ed umiliato ci prosterniamo davanti a lui, se in tutta sincerità, accusandoci e condannandoci al suo cospetto, chiediamo di essere assolti dalla sua bontà e dalla sua misericordia.
10. Chiunque farà di cuore questa confessione davanti a Dio, avrà senza dubbio anche la lingua pronta alla confessione, quando sarà necessario annunciare fra gli uomini la misericordia di Dio; non soltanto per svelare il segreto del proprio cuore ad una sola persona, una volta e all'orecchio, ma per dichiarare liberamente tanto la sua miseria quanto la gloria di Dio, ripetutamente, pubblicamente, affinché tutti odano.
In questo modo Davide, dopo esser stato redarguito da Nathan e spinto dalla sua coscienza, confessò il suo peccato sia dinanzi a Dio sia dinanzi agli uomini: "Ho peccato "disse "contro il Signore " (2 Re 12.13) , cioè: non mi voglio scusare, né cercare giustificazioni per paura che qualcuno mi giudichi peccatore, e che sia manifestato anche agli uomini quel che ho voluto fosse nascosto a Dio.
Da questa confessione segreta, fatta a Dio, deriva anche una confessione volontaria del peccatore dinanzi agli uomini, ogniqualvolta è opportuno farlo, o per umiliarsi o per dare gloria a Dio. Per questa ragione il nostro Signore aveva anticamente comandato nella Legge che tutto il popolo si confessasse pubblicamente nel tempio, per bocca del sacerdote (Le 16.21). Egli prevedeva che questo sarebbe stato un valido aiuto per indurre ognuno a riconoscere con onestà i suoi errori. È: anche giusto che, confessando la nostra miseria, magnifichiamo fra noi e al cospetto di tutti la misericordia di Dio.
2. Se questo tipo di confessione deve essere abituale nella Chiesa, è però opportuno valersene anche in casi particolari, se accade, per esempio, che l'intero popolo abbia commesso un errore comune, sicché tutti risultino colpevoli davanti a Dio. Ne abbiamo un esempio nella solenne confessione fatta dal popolo su pressione e suggerimento di Esdra e Nehemia (Ne 1.7; 9,16). La cattività, che avevano a lungo sopportata, la distruzione della città e del tempio e la soppressione del culto di Dio erano state come una verga comune per punire gli errori di tutti: non potevano perciò prendere coscienza del beneficio della loro liberazione se non confessando in primo luogo i loro errori. Poco importa se, talvolta, in una Chiesa alcuni sono innocenti: essendo membra di un corpo languente e deperito, non devono vantarsi di esser santi; è anzi impossibile che non risultino anch'essi toccati dal contagio e in qualche modo colpevoli. Tutte le volte, dunque, che siamo colpiti da peste o da guerra o da sterilità o da qualche avversità, il nostro compito sarebbe di piangere e digiunare e dare altri segni di umiltà, prima di tutto con la confessione, da cui dipende tutto il resto.
Per quanto concerne la confessione abituale, che si fa in comune con tutto il popolo, oltre ad essere approvata per bocca di Dio, nessuno, se dotato di buon senso, la disprezzerà, considerandone l'utilità. Dato che in ogni nostra assemblea, nel tempio, ci presentiamo davanti a Dio ed ai suoi angeli, quale migliore punto di partenza potremmo avere che il riconoscere la nostra indegnità?
Qualcuno mi obietterà che questo si fa in tutte le preghiere, in quanto, pregando, confessiamo i nostri peccati. Giusto! Ma se consideriamo la nostra indifferenza e la nostra lentezza, nessuno potrà negare che sia santa ed utile abitudine il ricordare espressamente al popolo cristiano, con un atto speciale, che deve umiliarsi. Sebbene la cerimonia che Dio ha ordinato al popolo di Israele facesse parte degli insegnamenti della Legge, essa ci riguarda ancora in qualche modo. Vediamo infatti che le Chiese bene ordinate hanno questa usanza: ogni domenica il ministro pronuncia una confessione tanto a nome suo quanto a nome del popolo, per rendere tutta l'assemblea partecipe della colpa davanti a Dio, e chiedere perdono; ciò non accade senza risultato. Anzi, è una chiave per aprire la porta alla preghiera collettiva e individuale.
12. Inoltre, la Scrittura ci raccomanda due altri tipi di confessione particolare. Una valida per noi: questo intende san Giacomo quando dice che ci dobbiamo confessare l'un l'altro i nostri peccati (Gm. 5.10, significando che nel dichiarare reciprocamente le nostre infermità ci aiutiamo a vicenda con il consiglio e la consolazione. L'altra, per amore del nostro prossimo, offeso per nostra colpa, al fine di riconciliarci e ridargli la pace. Quanto al primo tipo, la Scrittura non indica nessuno da cui trarre sollievo e ci lascia la libertà di scegliere, tra i credenti, chi ci parrà adatto per confessarci a lui; ma poiché i pastori devono essere, fra tutti, i più atti, la cosa migliore è rivolgerci a loro. Li considero i più idonei in quanto, per l'esigenza del loro ministero sono designati da Dio ad insegnarci come dobbiamo vincere e correggere il peccato, e a garantirci, a nostra consolazione, la bontà di Dio (Mt. 16.19; 18.18). Sebbene il compito di vicendevole ammonizione sia comune a tutti i cristiani, esso è ingiunto in modo particolare ai pastori. Dobbiamo consolarci reciprocamente; d'altra parte vediamo che i pastori sono da Dio posti come testimoni e quasi come garanti per attestare alle coscienze la remissione dei peccati, tant'è vero che è detto che rimettono i peccati e sciolgono le anime. Vedendo che hanno questa prerogativa, dobbiamo pensare che è per il nostro bene.
Ogni credente, quando si troverà ad essere angosciato nel suo cuore dal rimorso dei suoi peccati, al punto da non poter trovar riposo se non ricevendo aiuto da qualcun altro, si ricordi di valersi di questo rimedio offertogli da Dio, aprendo anzitutto l'animo suo al suo pastore per averne sollievo, stante che il compito di quest'ultimo è di consolare il popolo di Dio con l'insegnamento dell'Evangelo, in pubblico e in privato.
Bisogna però sempre stare in guardia che laddove Dio non ha imposto leggi, le coscienze non siano vincolate da un giogo obbligatorio. Tale forma di confessione deve essere libera, nessuno deve esservi costretto; si raccomandi soltanto a quelli che ne hanno bisogno, di servirsene come di un valido aiuto.
Di conseguenza, coloro che ne usano liberamente per loro necessità, non devono essere costretti da un ordine né indotti con astuzie a raccontare tutti i loro peccati, ma solo nella misura in cui lo giudicheranno efficace per ricavarne un vero sollievo. I buoni e fedeli pastori non soltanto devono lasciare alla Chiesa questa libertà, ma anche mantenervela con tutte le loro forze, se vogliono conservare il loro ministero puro da ogni tirannide e impedire che il popolo cada nella superstizione.
13. C'è poi un secondo tipo di confessione particolare, di cui parla il nostro Signore in san Matteo, quando dice: "Se offri la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia qui la tua offerta, e va prima a riconciliarti con tuo fratello; poi farai la tua offerta " (Mt. 5.23). Così dobbiamo ristabilire il vincolo di carità eventualmente spezzato per colpa nostra, confessando cioè che abbiamo sbagliato e chiedendo perdono.
Rientra anche in questa categoria la confessione pubblica dei penitenti che abbiano commesso qualche scandalo palese nella Chiesa. Se il nostro Signor Gesù tiene in tanto conto l'offesa privata di un solo uomo, da respingere dall'altare colui che ha offeso suo fratello, finché non gli abbia dato soddisfazione e si sia riconciliato con lui, a maggior ragione chi ha ferito la Chiesa con qualche cattivo esempio si deve riconciliare con lei riconoscendo la sua colpa. In tal modo l'incestuoso di Corinto fu ricevuto nella comunione dei credenti, dopo essersi umilmente sottomesso alla correzione (2 Co. 2.6). Questa forma di confessione perdurò costantemente nella Chiesa antica, come attesta san Cipriano. Riferendosi ai pubblici peccatori, dice: "Fanno penitenza per un certo tempo; poi vengono a confessare il loro peccato e sono ricevuti nella comunione, con l'imposizione delle mani da parte del vescovo e del clero ". Non si trova nella Scrittura altra forma di confessione. Non sta a noi legare o vincolare le coscienze con nuovi legami, visto che Gesù Cristo proibisce rigorosamente di tenerle in servitù. Nel resto, lungi dall'oppormi a che le pecore si presentino al loro pastore, quando si tratta di venire alla Cena, vorrei che questa abitudine venisse seguita ovunque. Chi infatti è tormentato nella sua coscienza può usare di questa opportunità per ricevere consolazione; e il pastore ha l'occasione e l'opportunità di ammonire quelli che ne hanno bisogno, a condizione che sempre ci si guardi dalla tirannia e dalla superstizione.
14. In questi tre tipi di confessione si esercita il potere delle chiavi: quando la Chiesa tutta chiede perdono a Dio riconoscendo solennemente i suoi peccati; quando un singolo che ha commesso una colpa scandalosa che danneggia la Chiesa rende testimonianza del suo pentimento; quando un credente, agitato nella sua coscienza e bisognoso del consiglio e della consolazione del suo pastore, gli palesa la sua situazione di crisi.
Il riparare le offese ed il riconciliarsi Cl. prossimo dipendono da una motivazione diversa: tendono sì a calmare le coscienze, ma il loro scopo principale consiste nell'abolire gli odii e nel riconciliare i cuori; anche se non è da disprezzare l'altro aspetto, che ognuno sia cioè maggiormente pronto a confessare onestamente i suoi errori. Quando tutta la Chiesa si presenta come davanti al tribunale di Dio, dichiarandosi colpevole, confessando le sue mancanze e attestando di aver ricorso alla sola misericordia di Dio, non le è di piccola consolazione trovare l'ambasciatore di Gesù Cristo, pronto ad assolverla nel nome e per l'autorità del suo Maestro, secondo il mandato conferitogli. Il valore dell'uso delle chiavi e l'utilità che ne ricaviamo risultano evidenti quando questa ambasciata di riconciliazione avviene con il rispetto e l'ordine che le sono propri.
Parimenti, quando chi si era allontanato dalla Chiesa è riammesso nella comunione fraterna e ottiene il perdono dalla Chiesa, non è forse per lui un gran bene, vedere che riceve il perdono da coloro a cui Gesù Cristo ha detto: "Quello che avrete slegato e sciolto sulla terra sarà sciolto e slegato in cielo "? (Mt. 18,18; Gv. 20.23). Similmente, l'assoluzione individuale è altrettanto efficace e fruttuosa, quando se ne servono coloro che hanno bisogno di essere confermati nelle loro coscienze. Può accadere talvolta che le promesse generali di Dio, rivolte a tutta la Chiesa, non sembrino decisive a chi le ode, e che qualcuno rimanga incerto sulla remissione dei suoi peccati. Ma se va verso il suo pastore e gli rivela segretamente il suo dolore, il pastore, rivolgendogli la parola, lo rassicura applicando a lui in particolare l'insegnamento generale dell'Evangelo; costui riceverà pertanto una giusta assicurazione su quel che prima era per lui motivo di dubbio e, liberato da ogni scrupolo, troverà il riposo della coscienza.
Quando si parla del potere delle chiavi bisogna sempre guardarsi dall'immaginare un qualche potere dato alla Chiesa, separato dalla predicazione dell'Evangelo. Sarà opportuno soffermarci altrove più a lungo su questo punto, quando parleremo del governo della Chiesa; vedremo a quel momento che tutta l'autorità data da Dio per legare e sciogliere è vincolata alla Parola. Questa affermazione si deve applicare soprattutto al ministero delle chiavi, di cui ci stiamo occupando: esso risiede interamente nel dare conferma e nel suggellare la grazia dell'Evangelo, in pubblico ed in privato, da parte di coloro che Dio ha preposti a questo compito; questo si può fare soltanto mediante la predicazione.
15. E i teologi papisti? Ordinano che tutti, uomini e donne, non appena avranno raggiunto l'età del discernimento, confessino per lo meno una volta all'anno tutti i loro peccati ai loro curati e che il peccato non sia rimesso se non a coloro che hanno il fermo proponimento di confessarsi. Se questa intenzione non viene adempiuta quando ne è offerta l'occasione, non rimane alcuna possibilità di entrare in paradiso. Inoltre, il prete ha il potere delle chiavi per legare o sciogliere il peccatore, nella misura in cui la parola di Cristo, la quale afferma che quello che avranno legato sulla terra sarà legato in cielo, non può essere vana.
Sono però in conflitto fra di loro riguardo a questo potere. Gli uni affermano che, sostanzialmente, vi è una sola chiave, cioè il potere di legare e sciogliere; che la conoscenza è si richiesta per farne buon uso, ma è qualcosa di accessorio e non di essenziale. Altri, vedendo che questa libertà dava adito a troppo disordine, hanno annoverato due chiavi: il discernimento e il potere. Altri ancora, vedendo che una tal moderazione teneva a freno l'impudenza dei preti, hanno immaginato nuove chiavi, cioè l'autorità di discernere (di cui si servono dando delle sentenze definitive) , il potere (di cui si servono quando eseguono le loro sentenze) , ed hanno aggiunto la conoscenza come consigliera.
Non osano limitarsi ad interpretare il "legare e sciogliere "nel senso di rimettere e cancellare i peccati, benché odano che il Signore annuncia per bocca del suo Profeta: "Son io, son io che cancello le tue iniquità, Israele; son io, e non c'è nessun altro all'infuori di me " (Is. 43.2.25). Ma dicono che è compito del prete decidere chi è legato o sciolto, e dichiarare a chi i peccati sono trattenuti o perdonati; e che il prete fa quella dichiarazione o nella confessione, quando assolve o non assolve i peccati, o per mezzo di un'affermazione, quando scomunica o scioglie dalla scomunica.
Infine, vedendo che non se la possono cavare di fronte all'obiezione secondo cui gli indegni sono spesso legati o sciolti dai loro preti, pur non essendolo in cielo, come loro ultimo argomento rispondono che bisogna intendere il dono delle chiavi entro certi limiti, che Cristo cioè ha promesso che la decisione del prete, rettamente pronunciata, sarebbe stata approvata in cielo secondo che i meriti di colui che è legato o sciolto lo richiedano. Inoltre, queste chiavi sono state date da Cristo a tutti i preti, ed esse sono conferite dai vescovi nelle loro promozioni: ma ne hanno l'uso soltanto coloro che hanno dei compiti ecclesiastici. Pertanto codeste chiavi rimangono in possesso anche degli scomunicati e di coloro che sono sospesi, ma nelle loro mani sono arrugginite e inefficaci. Coloro che affermano simili cose potrebbero essere considerati ancora sobrii e modesti in confronto agli altri, che con un nuovo stampo hanno fatto nuove chiavi, sotto le quali dicono che è rinchiuso il tesoro della Chiesa; ne parleremo fra poco.
16. Risponderò brevemente a tutti questi punti, tralasciando per ora di definire in base a quale diritto o a quale violenza assoggettano alle loro leggi le anime dei credenti, perché questo sarà esaminato al momento opportuno.
Questo imporre l'obbligo di enumerare tutti i peccati, negandone la remissione senza il fermo proposito di confessarli, e questo precludere l'entrare in paradiso a coloro che, per disprezzo, si sono lasciati sfuggire l'occasione di confessarsi, è assolutamente intollerabile. Come, secondo loro, si potrebbero enumerare tutti i propri peccati se Davide stesso, il quale, come mi pare, aveva lungamente riflettuto alla confessione dei suoi peccati, non poteva fare altro che esclamare: "Chi comprenderà le sue colpe? Signore, purificami dalle colpe che mi sono nascoste " (Sl. 19.13). E in un altro passo: "Le mie iniquità hanno oltrepassato la mia testa, ed hanno superato le mie forze come un pesante fardello " (Sl. 38.5). Certamente egli aveva coscienza di quanto grande sia l'abisso dei nostri peccati e quante specie di misfatti siano nell'uomo; quante teste abbia quel mostro del peccato, e quale lunga coda trascini dietro a se. Non stava dunque a farne un elenco completo, ma dal profondo dei suoi mali gridava a Dio: "Sono sommerso, sepolto, soffocato; le porte dell'inferno mi hanno circondato; la tua destra mi tiri fuori dal pozzo in cui sono annegato e dalla morte nella quale vengo meno".
Chi dunque potrà presumere di saper tenere il conto dei suoi peccati, vedendo che Davide stesso non riesce ad enumerarli?
17. Le coscienze delle persone mosse da un qualche sentimento religioso sono state crudelmente tormentate da un tal sistema. Per tener meglio i conti, costoro distinguevano i peccati in braccia, rami, ramoscelli e foglie, secondo le distinzioni dei dottori confessionalisti. Quindi soppesavano le qualità, quantità e circostanze. Dapprima le cose erano tollerabili; ma addentrandosi maggiormente, essi non vedevano che cielo e mare, senza trovare un porto o un rifugio. Più procedevano, più il numero cresceva; anzi si innalzava ai loro occhi simile ad un'altra montagna che toglieva loro la vista, senza lasciar loro scorgere alcuna possibilità di uscirne. Dimoravano pertanto in quell'angoscia il cui unico sbocco era la disperazione.
Allora quei carnefici inumani, per guarire le piaghe da loro procurate, hanno escogitato un rimedio: ciascuno avrebbe fatto quello che poteva, secondo le sue capacità Ma nuove inquietudini pungevano, anzi nuovi tormenti scorticavano le povere anime, quando venivano loro in mente pensieri di questo tipo: non ci ho messo abbastanza tempo; non mi ci sono applicato dovutamente, ho tralasciato qualcosa per noncuranza; la dimenticanza che procede da negligenza non è scusabile.
Come rimedio, per mitigare questi mali, rispondevano: pentiti della tua negligenza; se essa non è troppo grande ti sarà perdonata.
Ma tutte queste cose non possono cicatrizzare la piaga e, più che rimedi per mitigare il male, sono veleni cosparsi di miele, per non ferire, con la loro asprezza il palato, ma ingannare e penetrare fino al cuore prima di essere avvertiti. Questa terribile voce incalza dunque sempre e tuona alle loro orecchie: confessa tutti i tuoi peccati! E l'orrore non può essere placato se non da una consolazione sicura.
Giudichino ora i lettori se è possibile render conto a fine anno di tutto quel che si è fatto e raccontare le colpe commesse giorno per giorno. L'esperienza infatti ci dice che volendo, la sera, passare in rassegna le colpe commesse nella giornata, la memoria si intorbidisce dinanzi a tanta varietà. Non mi riferisco a quegli stupidi ipocriti che ritengono di aver fatto il loro dovere quando hanno annotato tre o quattro misfatti gravi commessi, ma ai veri servitori di Dio i quali, dopo aver onestamente esaminato i loro sbagli, vedendosi afflitti, sanno procedere oltre e concludono con san Giovanni: "Se il nostro cuore ci accusa, Dio è più grande del nostro cuore " (1 Gv. 3.20). Essi stessi tremano dinanzi a quel grande giudice, la cui conoscenza sormonta di molto i nostri sensi.
18. Se la maggioranza della gente si è adattata ai compromessi che addolcivano quel veleno mortale, non è accaduto per avere gli uomini ritenuto che Dio fosse soddisfatto o per essersi loro stessi accontentati; ma come i naviganti, gettando l'ancora in mezzo al mare si riposano dalla fatica del navigare, o come un pellegrino stanco e sul punto di venir meno si siede per strada e si riposa, così essi si giovavano di quella sosta, anche se era insufficiente. Non spenderò molte parole per dimostrare la verità di queste affermazioni, ognuno può testimoniare di se stesso; mi limiterò ad illustrare per sommi capi la natura di quella legge.

In primo luogo essa risulta semplicemente inattuabile, sicché non può che perdere, condannare, confondere, mandare in rovina e creare disperazione. Poi, avendo sviato i peccatori da una autentica presa di coscienza dei loro peccati, li rende ipocriti e ignoranti su Dio e su se stessi. Occupandosi infatti soltanto di enumerare i loro peccati, dimenticano il profondo abisso di peccato che hanno in fondo al cuore, le iniquità che son dentro di loro e le sozzure nascoste, la conoscenza delle quali li rendeva consapevoli della loro miseria. Al contrario, la giusta regola della confessione consiste nel confessare e riconoscere in noi un abisso di male tale da soverchiare tutti i nostri sensi. La confessione del pubblicano è formulata secondo quella regola: "Signore, Sii propizio a me peccatore " (Lu 18.13); è come se dicesse: tutto quello che è in me non è altro che peccato, al punto che né il mio pensiero né la mia lingua possono comprenderne l'ampiezza: l'abisso della tua misericordia annulli dunque l'abisso dei miei peccati!
A questo punto qualcuno dirà: non dobbiamo forse confessare ogni singolo peccato? Non vi è dunque altra confessione gradita a Dio se non quella racchiusa in queste tre parole: io sono peccatore? Rispondo che anzi dobbiamo cercare di aprire per quanto possibile tutto il nostro cuore davanti a Dio e non soltanto confessarci peccatori; ma per sapere che siamo veramente tali, riconosciamo con tutte le nostre facoltà quanto è grande e varia la sozzura dei nostri peccati, non soltanto reputandoci immondi, ma considerando l'infinita gamma delle nostre impurità; non limitiamoci a sentirci debitori, ma consideriamo da quanti debiti siamo caricati ed oppressi; non riconosciamoci soltanto feriti, ma guardiamo da quanto gravi e mortali piaghe siamo afflitti.
Quando poi un peccatore si riconoscerà tale davanti a Dio, bisognerà ancora che sia sincero e si persuada che esistono molti altri mali che non riesce ad annoverare, e che la profondità della sua miseria gli impedisce di farne un esame completo e di vederne la fine. Allora esclamerà con Davide: "Chi conoscerà i suoi errori? Signore, purificami da quelli che mi sono occulti " (Sl. 19.13)
Che i peccati siano rimessi soltanto a condizione che sussista il fermo proposito di confessarsi, e che la porta del paradiso sia chiusa a coloro che avranno trascurato questa opportunità, è affermazione che siamo lungi dall'accettare! La remissione dei peccati non è, ora, infatti, diversa da quello che è sempre stata. Di tutti coloro di cui leggiamo che hanno ottenuto da Cristo la remissione dei loro peccati, non è detto che si siano confessati all'orecchio di un qualche signor Giovanni; e non si potevano certo confessare, visto che allora non c'erano né confessori né confessione. Molti anni dopo, questa pratica era ancora sconosciuta. In quel tempo i peccati sono stati rimessi senza la condizione richiesta da costoro.
Non si tratta di una questione dubbia su cui si debba intavolare una discussione; la Parola di Dio, che dimora eternamente, è esplicita: "Tutte le volte che il peccatore si pentirà, dimenticherò tutte le sue iniquità " (Ez. 18.21). Colui che ardisce aggiungere qualcosa a questa parola non vincola i peccati, ma la misericordia di Dio. Non si può giudicare senza conoscere la causa, dicono, e pertanto un prete non può assolvere prima di aver preso conoscenza del male; è facile rispondere: coloro che si sono autonominati giudici usurpano temerariamente questa autorità. È impressionante vedere con quanta presunzione si creano norme che nessuna persona di buon senso può accettare. Si vantano di aver ricevuto l'incarico di legare e slegare, come se si trattasse di una giurisdizione che si può esercitare sotto forma di processo. Che il diritto cui si richiamano sia stato sconosciuto agli Apostoli, tutta la loro dottrina lo afferma ad alta voce e con chiarezza. In realtà non spetta ad un prete sapere con certezza se il peccatore è assolto, ma a colui al quale bisogna chiedere l'assoluzione, cioè a Dio, poiché colui che ascolta non potrà mai sapere se la confessione è fatta nel modo giusto. In tal modo l'assoluzione sarebbe nulla, a meno di limitarne l'applicazione alle parole di colui che si confessa. C'è di più: il movente dell'assoluzione risiede interamente nella fede e nel pentimento di colui che chiede il perdono. Ma queste due cose non possono essere note ad un uomo mortale, incaricato di pronunciarsi. Ne consegue che la certezza di sciogliere e legare non è soggetta alla conoscenza di un giudice terreno. Infatti un ministro della Parola, se esegue dovutamente il suo compito, non può che assolvere sotto condizione, ma l'affermazione seguente è pronunciata a favore dei poveri peccatori: quello che avrete perdonato sulla terra sarà perdonato in cielo, affinché non dubitino che la grazia loro promessa dal comandamento di Dio sarà ratificata in cielo.
19. Non fa dunque meraviglia se respingiamo la confessione auricolare, invenzione così scellerata e nociva alla Chiesa. E quand'anche fosse indifferente, visto che non reca alcun frutto e alcun giovamento, ma è stata causa di tanti errori, sacrilegi e atti di empietà, chi non sarebbe favorevole alla sua abolizione?
È pur vero che essi enumerano alcuni vantaggi che ne derivano, e danno loro il maggior risalto possibile; ma sono tutti o inventati o insignificanti. Sottolineano, gli altri in particolare, il sentimento di vergogna di colui che si confessa, pena pungente che lo rende più accorto per il futuro, facendogli prevenire il castigo di Dio Cl. punirsi da solo. Forse che non suscitiamo nell'uomo un sentimento di vergogna abbastanza grande, citandolo in quell'alto tribunale celeste e di fronte al giudizio di Dio; d'altra parte che risultato si ottiene smettendo di peccare perché ci vergogniamo davanti ad un uomo, senza vergognarci affatto di avere Dio come testimone della nostra cattiva coscienza! Perfino le loro parole sono false. Infatti si osserva comunemente che gli uomini non si concedono così grande ardimento né licenza di compiere il male se non quando, confessatisi al prete, ritengono di potersi giustificare e dire che non hanno fatto nulla. Non solo divengono più arditi nel peccare tutto l'anno, ma privi di ogni preoccupazione di confessarsi per il resto dell'anno e privi del desiderio di rivolgersi a Dio, non si esaminano mai, ma accumulano peccati su peccati fino al momento in cui, come pare loro, li scaricano tutti in una sola volta. Quando li hanno scaricati si considerano liberi dal loro fardello e dal giudizio di Dio, che hanno trasferito sul prete; pensano di aver fatto in modo che Dio abbia dimenticato quello che hanno reso noto al prete.
Inoltre, chi si rallegra di veder arrivare il giorno della confessione? Chi ci va con cuore sincero, e non piuttosto suo malgrado e per forza, come se lo si trascinasse in prigione per il bavero? Una eccezione forse è rappresentata dai preti, che si dilettano nel raccontarsi gli uni gli altri i loro fatti, come se narrassero barzellette.
Non sporcherò molta carta per elencare le orribili abominazioni di cui è piena la confessione auricolare. Mi limito a dire che se quel sant'uomo di Nettario (di cui abbiamo parlato prima) non ha agito da sconsiderato sopprimendo questo tipo di confessione dalla sua Chiesa, anzi abolendone ogni ricordo a motivo di una semplice diceria di adulterio, siamo oggi autorizzati a fare altrettanto a causa delle infinite ruffianerie, dissolutezze, adulterii e incesti che ne derivano.
20. Poiché mettono avanti il potere delle chiavi e in esse ripongono tutta la forza del loro dominio, dobbiamo vedere che valore ha questo potere. Le chiavi, dicono dunque, sarebbero state date senza motivo? Sarebbe stato detto senza ragione: "Tutto quel che avrete sciolto sulla terra sarà sciolto in cielo "? (Mt. 18.18). Rendiamo forse vana la parola di Cristo?
Certo il potere delle chiavi fu dato a ragion veduta; l'ho già dimostrato in parte poco fa, e lo esporrò meglio trattando della scomunica. Ma che accadrà se con un solo taglio pongo fine a tutte queste domande, negando che i loro preti siano i vicari ed i successori degli Apostoli? Ma ritorneremo ancora su questo punto. Con questo argomento di cui si vogliono munire, stanno invece costruendo una macchina che rovescia tutte le loro difese, poiché Cristo non ha concesso ai suoi apostoli la potenza di sciogliere e legare, prima di aver dato loro lo Spirito Santo (Gv. 20.22.23). Contesto dunque che il potere delle chiavi appartenga a persona diversa da quella che ha ricevuto lo Spirito Santo; contesto che qualcuno possa servirsi delle chiavi, se lo Spirito Santo non lo guida e non gli insegna quel che bisogna fare. Si vantano di avere lo Spirito Santo, ma lo smentiscono con le loro azioni. A meno che per caso non pensino che lo Spirito Santo sia una cosa vana e nulla, come vogliono far credere; in quel caso non si presterà loro fede.
Questo argomento li annienta. Di qualunque porta si vantino infatti possedere la chiave, possiamo sempre chiedere loro se hanno lo Spirito Santo che dirige e modera l'uso delle chiavi. Se rispondono di averlo, bisogna di nuovo chiedere loro se lo Spirito Santo può sbagliare. E non oseranno confessarlo apertamente, sebbene lo ammettano indirettamente con il loro insegnamento. Dovremo dunque concludere che nessun prete ha il potere delle chiavi, poiché temerariamente e senza discernimento legano coloro che il nostro Signore voleva fossero liberati e liberano coloro che voleva fossero legati.
21. Quando risulta evidente dell'esperienza che, indifferentemente, legano e sciolgono i degni e gli indegni, rivendicano quel potere indipendentemente dalla conoscenza. E per quanto non osino negare che la conoscenza è richiesta per farne buon uso, tuttavia insegnano che quel potere è conferito anche a coloro che lo esercitano in modo errato. Dato però che il potere consiste in questo: "Quello che avrai legato o sciolto sulla terra sarà legato e sciolto nei cieli ", o la promessa di Gesù Cristo è falsa, oppure bisogna che coloro che ricevono un tal potere leghino e sciolgano in modo giusto. E non possono tergiversare dicendo che la promessa di Cristo è limitata a seconda dei meriti di colui che è legato o sciolto.
Certo anche noi riconosciamo, per parte nostra, che nessuno può essere legato o sciolto se non chi ne è degno. Ma i messaggeri dell'Evangelo e la Chiesa dispongono della Parola per valutare questa dignità. È per mezzo di questa Parola che i messaggeri dell'Evangelo possono promettere a tutti la remissione dei peccati in Cristo, per fede, e possono notificare la condanna a tutti, e su tutti coloro che non avranno accolto Cristo. Nel nome di questa Parola la Chiesa afferma che tutti i debosciati, gli adulteri, i ladri, gli omicidi, gli avari, gli iniqui non erediteranno il Regno di Dio (1 Co. 6.9) , e li lega con fortissimi lacci. Sciogliendo nel nome di questa Parola coloro che si pentono essa li consola.
Che potere è mai questo ignorare ciò che è da legare o da sciogliere, visto che non si può legare o sciogliere se non lo si sa? Perché dunque affermano di dare l'assoluzione per una autorità che è loro concessa, se l'assoluzione è incerta? A che serve questo potere immaginario, il cui uso è nullo? Questo è già dimostrato: o è interamente nullo, o è così incerto da dover esser ritenuto nullo. Poiché infatti riconoscono che la maggior parte dei preti non si serve rettamente delle chiavi e che, d'altra parte, il potere delle chiavi è nullo se non viene usato in modo legittimo, chi mi garantisce che chi mi assolve si valga rettamente di questo potere? E se questo non fosse il caso, che altro potrebbe dire oltre una frivola assoluzione di questo tipo: non so che cosa sia da legare o da sciogliere in te, visto che non ho alcun uso delle chiavi; ma se tu lo meriti, io ti assolvo? Potrebbe fare altrettanto, non dico un laico, poiché ciò li irriterebbe troppo, ma un turco o un diavolo. Questo, infatti, equivale a dire: non ho la Parola di Dio, che è la norma sicura per legare o sciogliere; ma mi è data autorità di assolverti, se tu lo meriti.
Risulta chiaro, a questo punto, il fine cui miravano quando hanno deciso che le chiavi rappresentano l'autorità di discernere e il potere di eseguire, e che la conoscenza interviene come consigliera, perché si faccia buon uso di un tal potere: essi cioè hanno voluto regnare licenziosamente e con intemperanza, senza Dio e senza la sua Parola.
22. Si potrebbe obiettare che i veri ministri e pastori eserciteranno il loro ufficio nella stessa incertezza, visto che l'assoluzione, legata alla fede, sarà sempre dubbiosa e che pertanto sarà un sollievo molto piccolo se non nullo, per i peccatori, l'essere assolti da uno che, non potendo giudicare sufficientemente della loro fede, non è certo della loro assoluzione; la risposta è pronta
I papisti, dicendo che un prete non può perdonare i peccati senza esserne venuto a conoscenza, fanno dipendere la remissione dal giudizio e dall'esame di un uomo mortale: se costui non discerne con saggezza chi è degno di ottenere il perdono e chi non lo è, il suo operato è privo di serietà e di valore. In sostanza, il potere che si attribuiscono è una giurisdizione congiunta ad un esame dal quale fanno dipendere l'assoluzione. Manca però in questo un elemento di sicurezza, c'è solo un profondo abisso, atteso che, se la confessione non è totale, la speranza di ottenere grazia sarà rimpicciolita e annullata. D'altro canto, il prete esiterà, non sapendo se il peccatore è veritiero o no nel raccontare le sue colpe. Inoltre, i preti danno prova di una tal ignoranza e idiozia, che la maggior parte è idonea all'esercizio di questo compito quanto lo sarebbe un ciabattino ad arare i campi; gli altri, poi, hanno validi motivi per essere sospetti a loro stessi. Insomma, le nostre riserve e perplessità di fronte all'assoluzione papale risiedono nel fatto che vogliono fondarla sulla persona del prete e, in più, sulla sua conoscenza, tant'è vero che giudica soltanto delle cose che gli sono riferite, di cui è bene informato.
Se si chiede a questi bravi dottori se un peccatore è riconciliato con Dio quando è assolto da una parte dei suoi peccati, non vedo che altro potrebbero rispondere, se non riconoscere che, mentre i peccati dimenticati o omessi da colui che si confessa rimangono da perdonare? tutto quel che il prete dice quanto all'assoluzione dei peccati da lui uditi, è inutile. Quanto a colui che si confessa, sappiamo in quale distretta e angoscia la sua coscienza rimane legata quando, fondandosi sul discernimento del prete, non dispone di alcuna certezza proveniente dalla Parola di Dio.
Il nostro insegnamento non è per nulla soggetto a tali assurdità. L'assoluzione è condizionata: il peccatore deve esser certo che Dio gli è propizio, a condizione che egli cerchi senza fingere l'espiazione dei suoi peccati nel sacrificio di Gesù Cristo, e che si appoggi sulla grazia che gli è offerta. Così facendo, il pastore che rende pubblico, secondo il compito che gli è proprio, quel che gli è stato dettato dalla Parola di Dio, non può sbagliare; dal canto suo, il peccatore riceve un'assoluzione esplicita e certa, in quanto gli è semplicemente proposto di accogliere la grazia di Gesù Cristo secondo la regola generale di questo buon Maestro, malvagiamente violata dal papato: che a ciascuno sia fatto secondo la sua fede (Mt. 9.29).
23. Ho promesso di esporre altrove quanto grossolanamente, a proposito del potere delle chiavi, essi confondano quello che nella Scrittura è distinto: sarà più opportuno parlarne quando tratterò della Chiesa. Ma siano i lettori avvertiti che quel che è detto, parte sulla predicazione dell'Evangelo, parte sulla scomunica, e impropriamente e scioccamente applicato alla confessione segreta. Così quando affermano che agli Apostoli è stata data l'autorità di sciogliere, affinché i preti perdonino i peccati di cui saranno informati, enunciano un principio falso ed inconsistente. Poiché l'assoluzione che concerne la fede, altro non è se non una dichiarazione tratta dalle promesse gratuite dell'Evangelo, per annunciare ai peccatori che Dio ha fatto loro grazia. Invece l'assoluzione che rientra nell'ambito della disciplina della Chiesa, non concerne i peccati segreti, ma serve di esempio affinché lo scandalo pubblico sia eliminato.
Il loro affannarsi a raccogliere di qua e di là testi scritturali per dimostrare che non basta confessare i propri peccati a Dio, o ai laici, è fatica così malspesa che dovrebbero provarne gran vergogna. Se, talvolta, gli antichi dottori esortano i peccatori a confessare le loro colpe ai loro pastori per esserne sollevati, con questo non li costringono affatto a farne una enumerazione: questo non era l'uso di allora. Il Maestro delle Sentenze e i suoi simili sono invece così perversi, che sembrano aver deliberatamente attinto a libri di attribuzione incerta per trarne argomenti per ingannare i semplici.
È giusto, da parte loro, riconoscere che, l'assoluzione essendo sempre connessa al pentimento, a rigor di termini il legame della condanna è sciolto quando il peccatore è compunto nel vivo, anche se non si è ancora confessato; da quel momento il prete, più che rimettere i peccati, si limita ad affermare e dichiarare che sono rimessi. Ma Cl. termine "dichiarare ", reintroducono un errore: sostituiscono cioè alla dottrina il rito di fare una croce sulla schiena.
L'aggiungere, come sono soliti fare, che chi aveva già ottenuto il perdono davanti a Dio è ora assolto dalla Chiesa, è assurdo, in quanto estendono ad ognuno in particolare quel che è stato stabilito soltanto per la disciplina comune della Chiesa, al fine di porre rimedio agli scandali noti.
Infine pervertono e corrompono tutta la moderazione di cui si erano valsi, aggiungendo subito dopo un altro modo di rimettere i peccati: imponendo cioè una pena e un'espiazione. Autorizzano così i loro preti a dividere in due quello che Dio promette per intero. Visto che egli richiede semplicemente il ravvedimento e la fede, è sacrilego dire che bisogna aggiungere ancora qualcosa. È come se i preti si facessero controllori di Dio e si opponessero alla sua Parola, non tollerando che egli accolga per sua pura generosità i poveri peccatori, a meno che non siano prima comparsi davanti al banco degli accusatori per esservi puniti.
24. In sostanza, se vogliamo fare Dio autore di questa confessione falsamente inventata, la loro menzogna sarà presto scoperta, così come ho dimostrato falsa l'esegesi di alcuni passi da loro citati. Poiché è chiaro che si tratta di una legge creata dagli uomini, affermo che essa è tirannica e che considerandola valida si è recata grave offesa a Dio il quale, vincolando le coscienze alla sua Parola, le ha volute libere dal giogo e dal dominio degli uomini.
Per di più quando, per ottenere il perdono, si rende obbligatoria una cosa lasciata libera da Dio, dico che si tratta di un sacrilegio intollerabile, poiché nulla si addice meglio a Dio del perdonare i peccati; questo è il fondamento della nostra salvezza.
Ho anche detto che una tal tirannia è stata imposta al tempo in cui il mondo soggiaceva ad un'incredibile barbarie. Ho inoltre dimostrato che questa legge è mortale come la peste: se le povere anime sono infatti mosse dal timor di Dio, essa le precipita nella disperazione; ma se sono assopite le inebetisce maggiormente, ingannandole con vane lusinghe.
Infine ho messo in evidenza il fatto che, per quanto cerchino di addolcire, il loro discorso tende a confondere, oscurare e corrompere la pura dottrina, e a mascherare o travestire le loro empietà con apparenze illusorie.
25. Danno all'espiazione il terzo posto nella penitenza; ma tutto quel che cianciano intorno ad essa può essere annullato con una sola parola.
Non è sufficiente secondo loro che il penitente si astenga dai mali passati ed emendi la propria vita, occorre che espii davanti a Dio il male commesso. Stabiliscono dunque molti mezzi per riscattare i peccati: lacrime, digiuni, oblazioni, elemosine ed altre opere di carità, per mezzo delle quali dicono che dobbiamo placare Dio, pagare quel che è dovuto alla sua giustizia, rimediare ai nostri errori e acquistare il perdono. Sebbene, infatti, il nostro Signore, per la generosità della sua misericordia, ci abbia perdonato la colpa, tuttavia, per il rigore della sua giustizia, egli lascia sussistere la pena, che bisogna riscattare per mezzo dell'espiazione. In conclusione, otteniamo sì il perdono dei nostri peccati in virtù della clemenza di Dio, ma per merito delle nostre opere, le quali compensano gli sbagli commessi, in modo che la giustizia di Dio sia soddisfatta.
A simili menzogne oppongo la remissione gratuita dei peccati, chiaramente enunciata nella Scrittura (Is. 52.3; Ro 5.8; Cl. 2.14; Tt 3.5). Anzitutto che cos'è la remissione, se non un dono di pura generosità? Un creditore non rimette un debito quando esibisce una ricevuta che ne certifica il pagamento; lo rimette quando, non ricevendo nulla, cancella il debito con generosità e franchezza.
E perché la Scrittura aggiungerebbe "gratuitamente ", se non per togliere ogni desiderio di espiazione? Con quale faccia tosta osano dunque rimettere in piedi le loro espiazioni così esplicita mente annullate? Quando il Signore grida, per bocca di Isaia: "Sono io, sono io che cancello le tue iniquità per amor di me stesso, e scorderò i tuoi peccati " (Is. 43.25) , non afferma forse con chiarezza che la causa e il fondamento di una tal remissione proviene dalla sua sola bontà?
Inoltre, quando la Scrittura intera attesta che bisogna ricevere la remissione dei peccati nel nome di Cristo (At. 10.43) , non esclude forse ogni altro nome? Come insegnano dunque a riceverla nel nome delle loro espiazioni? Non credano di cavarsela dicendo che queste rappresentano i mezzi per ricevere la remissione, la quale tuttavia non avviene nel loro nome ma nel nome di Cristo. Quando la Scrittura dice nel nome di Cristo, intende dire che il nostro contributo e le nostre pretese sono nulle, e che siamo purificati per amore del solo Cristo. Così san Paolo, affermando che Dio riconciliava a se il mondo, nel suo Figlio e per amore di lui, non imputando i peccati agli uomini, aggiunge subito in che modo, dicendo che colui il quale non ha conosciuto il peccato è stato fatto peccato per noi (2 Co. 5.19).
26. A questo punto replicano, con l'abituale perversità, che la riconciliazione e la remissione sono date una volta al momento in cui siamo ricevuti da Cristo nella grazia del battesimo; ma che se dopo il battesimo ricadiamo, ci dobbiamo rialzare riparando le nostre colpe: in ciò il sangue di Cristo non ci giova affatto, se non nella misura in cui ci è amministrato dalle chiavi della Chiesa. Non mi riferisco qui ad un insegnamento incerto, dato che dichiarano apertamente la loro empietà su questo punto: la loro empietà è esplicitamente affermata e non solo da alcuni di loro, ma da tutte le loro scuole. Il loro maestro, dopo aver ammesso, secondo quanto dice san Pietro, che Cristo ha pagato sulla croce il debito dei nostri peccati (1 Pi. 2.24) , corregge subito questa affermazione mediante un'eccezione, che cioè nel battesimo tutte le pene temporali dei peccati ci sono condonate, ma dopo il battesimo esse sono diminuite per mezzo della penitenza; così facendo, la croce di Cristo e la nostra penitenza cooperano insieme.
Le parole di san Giovanni sono ben diverse: "Se qualcuno "dice "ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo; egli è la propiziazione per i nostri peccati (1 Gv. 2.2.12). Certo, egli si rivolge ai credenti e quando propone loro Gesù Cristo come propiziazione dei peccati, fa vedere che non vi è altra espiazione capace di placare l'offesa a Dio. Non dice: Dio vi è stato una volta riconciliato per mezzo di Cristo, ora cercate altri mezzi per riconciliarvi; ma lo considera perenne avvocato, che per la sua intercessione ci riconduce sempre nella grazia del Padre, e perenne propiziazione, dalla quale i peccati sono continuamente purificati. L'affermazione di Giovanni Battista permane valida: Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati dal mondo " (Gv. 1.30. È lui, dico, che li toglie, non un altro; essendo l'agnello di Dio, egli è anche la sola oblazione, purificazione e espiazione per i peccati. Come il diritto e l'autorità di perdonare i peccati sono giustamente attribuiti al Padre, così Gesù Cristo è menzionato al secondo posto quale mezzo, in quanto ha portato su di se la pena che ci spettava, per cancellare davanti a Dio il ricordo delle nostre offese. Ne consegue che non possiamo essere partecipi dell'espiazione da lui compiuta se non riconoscendogli, per intero, l'onore che invece gli sottraggono coloro che tentano di placare Dio con i loro meriti.
27. Dobbiamo, a questo punto, considerare due cose. Anzitutto, l'onore che spetta a Cristo, gli deve essere conservato per intero. In secondo luogo, le coscienze, certe del perdono dei loro peccati, devono aver pace con Dio. Isaia afferma che il Padre ha caricato sul Figlio suo le iniquità di noi tutti, affinché fossimo guariti dalla sua piaga (Is. 53.4.6). San Pietro lo ripete in altri termini, dicendo che Cristo ha portato nel suo corpo, sulla croce, tutti i nostri peccati (1 Pi. 2.24). San Paolo insegna che il peccato è stato condannato nella sua carne, quando Cristo è stato fatto peccato per noi (Ro 8.3; Ga .3.13); cioè tutta la forza e la maledizione del peccato è stata uccIs. nella sua carne, quando è stato dato per noi in sacrificio; su di lui fu gettato tutto il fardello dei peccati, con la maledizione, l'esecrazione, il giudizio di Dio e la condanna di morte che gli sono connessi. Qui non c'è traccia di quelle favole e menzogne secondo cui, dopo la purificazione iniziale del battesimo, nessuno di noi è partecipe dell'efficacia della morte di Cristo se non in quanto espia, con la penitenza, i suoi peccati. La Scrittura invece ci riconduce, ogniqualvolta abbiamo peccato, all'unica espiazione compiuta da Cristo. Consideriamo dunque maledetta la loro dottrina, secondo cui la grazia di Dio opera soltanto nella remissione iniziale; se in seguito ci accade di peccare, le nostre opere devono cooperare per ottenere il perdono. Se questo fosse vero, come potrebbero riferirsi a Cristo le testimonianze che abbiamo citate? C'è un'enorme differenza fra il dire che le nostre iniquità sono state attribuite a Cristo, perché siano cancellate in lui, e il dire che sono purificate dalle nostre opere; che Cristo è la propiziazione per i nostri peccati, e che dobbiamo placare Dio con le nostre opere.
Se si tratta di dar riposo alla coscienza, costituisce forse per essa motivo di tranquillità l'udire che bisogna riscattare i peccati mediante l'espiazione? Quando potrà essere certa di aver riparato nel modo dovuto? Dubiterà sempre del favore divino e sarà perennemente tormentata e assalita dalla paura. Coloro infatti che si accontentano di facili riparazioni disprezzano gravemente la giustizia di Dio e non considerano abbastanza quanto sia grave la colpa del peccato, come diremo altrove. Se anche concedessimo loro che alcuni peccati possono essere riscattati da un giusto atto riparatore, che cosa farebbero tuttavia di fronte al carico che li opprime, se cento vite interamente dedicate a ciò non potrebbero bastare a compensare questi peccati?
Vi è ancora un altro punto: tutti i passi che sottolineano il carattere gratuito del perdono di Dio non si rivolgono a gente non ancora battezzata, ma ai figli di Dio, rigenerati e a lungo nutriti in seno alla Chiesa. L'appello a cui san Paolo conferisce tanta importanza, dicendo: "Vi prego, nel nome di Dio, riconciliatevi con Dio " (2 Co. 5.20) , non è per gli estranei ma per coloro che già da lungo tempo avevano avuto familiarità con la Chiesa. Annullando ogni atto riparatore e ordinando loro di astenersene, con questo appello li rimanda alla croce di Cristo. Parimenti quel che san Paolo scrive ai fratelli di Colosse, che Gesù Cristo ha riconciliato Cl. suo sangue quel che era in cielo e sulla terra (Cl. 1.20) , non si limita all'istante in cui siamo accolti nella Chiesa, ma si estende a tutto il corso della fede. L'affermazione è meglio illuminata dal contesto, laddove è detto che i credenti ottengono redenzione, cioè remissione dei loro peccati, per mezzo del sangue di Cristo. Ma è superfluo raccogliere testimonianze reperibili ovunque.
28. Per giustificarsi ricorrono ad una distinzione priva di senso: fra i peccati, alcuni sarebbero mortali, altri veniali; per i primi è richiesto un importante atto riparatore, mentre i secondi possono essere espiati con facili rimedi quali l'orazione domenicale, l'acqua santa e l'assoluzione della messa. In questo modo si prendono gioco e si beffano di Dio. Ma sebbene abbiano del continuo sulle labbra i nomi di peccato mortale e veniale, tuttavia non hanno ancora saputo distinguere l'uno dall'altro, se non facendo dell'empietà e della impurità del cuore umano (che è, davanti a Dio, il peccato più orribile) un peccato veniale.
Per parte nostra affermiamo invece, secondo quanto ci insegna la Scrittura (che è la regola del bene e del male) , che il salario del peccato è la morte e che l'anima che avrà peccato è degna di morte. Per il resto, insegniamo che i peccati dei credenti sono da considerarsi veniali; non nel senso che non meritino la morte, ma per il fatto che in virtù della misericordia di Dio non vi è alcuna condanna su coloro che sono in Gesù Cristo, in quanto i loro peccati non sono loro imputati, ma cancellati per grazia.
So quanto calunnino una tal dottrina, dicendo che si tratta del "paradosso degli Stoici ", i quali mettevano sullo stesso piano tutti i peccati. Saranno però facilmente convinti in base alle loro stesse tesi. Chiedo se fra i peccati che considerano mortali non ne riconoscono uno più grande dell'altro. Ne deriva dunque che i peccati non sono equivalenti, pur essendo ugualmente mortali. Se la Scrittura stabilisce che la morte è il salario del peccato, essi non possono sfuggire a questa affermazione, poiché l'obbedienza alla Legge è la via della vita mentre la trasgressione è morte. Quale scappatoia troveranno dunque per espiare una simile moltitudine di peccati? Se non è possibile in un giorno espiare un peccato, nel momento in cui cercheranno di farlo ne commetteranno parecchi altri, visto che non passa giorno senza che il giusto pecchi parecchie volte. E quando vorranno espiare parecchi peccati, ne commetteranno un numero ancora maggiore, fino a giungere ad un abisso senza fondo. E con questo mi riferisco agli uomini più giusti. Ecco svanire così la fiducia di poter compensare i peccati commessi. Che altro pensano o aspettano? Come osano ancora parlare di riparazione?
29. Fanno di tutto per cavarsi d'impiccio, ma non riescono. Distinguono fra pena e colpa riconoscendo che quest'ultima è rimessa dalla misericordia di Dio, rimane però la pena, che la giustizia di Dio richiede sia pagata; gli atti riparatori concernono perciò la remissione della pena.
Come è possibile essere così superficiali? Ora la remissione della colpa diventa gratuita, mentre in altra sede raccomandano di meritarla con preghiere, lacrime ed altre preparazioni. Tutto l'insegnamento della Scrittura si oppone esplicitamente a questa distinzione e quantunque pensi che tutto questo è stato molto ben dimostrato in precedenza, citerò ancora qualche testimonianza in grado, come spero, di uccidere del tutto questi serpenti, sì che non possano più muovere nemmeno la punta della coda.
Geremia dice: "Questo è il nuovo patto che Dio ha stipulato con noi nel suo Cristo: egli non si ricorderà più delle nostre iniquità " (Gr. 31.31.34). L'altro profeta ci insegna quel che intende il Signore quando dice: "Se il giusto abbandona la via della sua giustizia, dimenticherò tutti i suoi atti giusti. Se il peccatore si allontana dalla sua iniquità, dimenticherò tutte le sue colpe " (Ez. 18.24.27). Dicendo che non si ricorderà più degli atti giusti, vuol dire che non avrà alcun riguardo per le buone opere, per remunerarle. Al contrario, il non ricordarsi dei peccati significa non punirli. Questo è detto anche in altri passi: "Gettarli dietro la schiena (Is. 38.17) , cancellarli come una nuvola (Is. 44.22) , gettarli nel profondo del mare (Mic 7.19) , non imputarli e tenerli nascosti " (Sl. 32.1). Con questi modi di dire, lo Spirito Santo ci rivela abbastanza chiaramente quel che intende, se siamo docili nell'ascoltarlo. Certo, se Dio punisce i peccati li imputa; se ne fa vendetta, se li ricorda; se li chiama in giudizio, non li tiene nascosti; se li esamina, non li mette dietro la schiena; se li guarda, non li ha cancellati come una nube; se li mette avanti, non li ha gettati in fondo al mare.
Sant'Agostino l'interpreta chiaramente in questo modo: "Se Dio ha nascosto i peccati ", dice "non ha voluto guardarli; se non li ha voluti guardare, non ha voluto farci caso; se non ha voluto farci caso, non li ha voluti punire; non li ha voluti riconoscere ed ha preferito perdonarteli. Perché dunque è detto che i peccati sono nascosti? Affinché non appaiano. E che significa che Dio non vede i peccati, se non che non li punisce? ".
Ascoltiamo ora, da un altro passo del Profeta, in che modo e a quale condizione il Signore perdona i peccati: "Se i vostri peccati, "dice "fossero come porpora, saranno resi bianchi come neve; se sono rossi come la cocciniglia, diventeranno bianchi come lana " (Is. 1.18). In Geremia è detto: "In quel giorno si cercherà l'iniquità di Giacobbe, ma non sarà trovata. Essa infatti verrà annullata, in quanto farò grazia al residuo santo, da me protetto " (Gr. 50.20).
Per intendere il senso di queste parole si considerino, al contrario, altre affermazioni con cui il Signore dice che lega le iniquità in un sacco (Gb. 14.17) , che le piega in un fascio (Ho 13.12) , che le incide con una punta di ferro su una durissima pietra (Gr. 17.1). Certo, se bisogna dire che il Signore punirà (e su questo non c'è dubbio) , non bisogna d'altra parte mettere in dubbio che le prime affermazioni promettono che Dio non punirà le colpe che avrà perdonato. Devo a questo punto invitare i lettori non a prestare ascolto alle mie glosse, ma a far posto alla Parola di Dio.
30. Che cosa ci avrebbe recato Cristo, se per i nostri peccati fosse sempre richiesta la pena? Quando diciamo che ha portato nel suo corpo, sul legno della croce, tutti i nostri peccati, non intendiamo dire altro se non che egli ha preso su di se tutta la pena e la vendetta dovuta ai nostri peccati. Isaia lo esprime nel modo più esplicito, affermando che la punizione o la correzione che ci dà pace hanno pesato su di lui (Is. 53.5). E che cos'è la correzione che ci dà pace, se non la punizione dovuta ai nostri peccati, e che dovevamo assolvere prima di poter essere riconciliati con Dio, se Cristo non l'avesse assolta al posto nostro? Vediamo qui con evidenza che Cristo ha sofferto le pene dei peccati per liberarne i suoi. Quando san Paolo cita la redenzione compiuta da Cristo, la chiama comunemente in greco apolutrosis (Ro 3.24;1 Co. 1.30; Ef. 1.7; Cl. 1.14) , termine che non soltanto significa redenzione, come intende l'uomo comune, ma il prezzo e l'espiazione che in francese chiamiamo rançon. Per questo motivo, afferma che Cristo si è fatto prezzo di riscatto per noi (1 Ti. 2.6) , che cioè si è costituito garante al nostro posto onde liberarci pienamente da tutti i debiti dei nostri peccati. "Che cos'è la propiziazione verso Dio "dice sant'Agostino "se non sacrificio? E qual è il sacrificio, se non quello che è stato offerto nella morte di Cristo? ".
Un valido argomento è rappresentato soprattutto dalle norme della legge mosaica sulle modalità dell'espiazione, cioè della riparazione dei peccati. Il Signore, infatti, non ne indica molte forme, ma stabilisce come sola ricompensa i sacrifici, pur enumerando, con diligente ordine, tutti i sacrifici che si dovevano fare, a seconda della diversità dei peccati. Che cosa significa dunque che non sono ordinati al peccatore, per ottenere il perdono, atti riparatori costituiti da buone opere e meriti, ma che gli è richiesto, per ogni espiazione, di compiere un sacrificio? Che significa se non che, così facendo, vuole attestare che c'è un solo tipo di espiazione da cui la sua giustizia sia placata? Poiché i sacrifici che gli Israeliti immolavano allora, non erano considerati opera d'uomo ma derivavano il loro valore dalla verità che annunciavano profeticamente, cioè dall'unico sacrificio di Cristo.
Riguardo alla riparazione che Dio riceve da noi, il profeta Osea l'ha riassunta molto bene in una parola, dicendo: "Signore, tu abolirai tutte le nostre iniquità ": questa è la remissione dei peccati. "E ti renderemo dei sacrifici con le nostre labbra " (Ho 14.3). Questa è l'espiazione, che non è altro se non rendimento di grazie.
So bene che c'è un altro sofisma per sfuggire: si distingue fra punizione eterna e punizioni temporanee. Il pretendere che, ad eccezione della morte eterna, ogni male ed avversità che soffriamo nei nostri corpi come nelle nostre anime, è una punizione temporale, non è grande scappatoia. Infatti i passi citati dimostrano, in particolare, che Dio ci accoglie nella sua grazia a questa condizione, che rimettendoci la colpa, ci libera anche dall'intera punizione che meritavamo. Ogniqualvolta Davide ed i profeti chiedono a Dio perdono dei loro peccati, chiedono pure che sia perdonata loro la pena; anche la paura del giudizio di Dio li spinge a ciò. D'altra parte, quando i passi della Scrittura promettono che Dio userà misericordia, si soffermano apertamente e quasi in modo deliberato sull'affermazione che egli condonerà la punizione. Quando Dio promette per bocca di Ezechiele di ritirare il suo popolo dalla prigionia di Babilonia, per amor di se stesso e non a motivo del popolo (Ez. 36.21.32) , mette in evidenza il fatto che questo è gratuito. Infine, se Cristo ci libera dal giudizio di Dio suo Padre, onde non siamo più considerati colpevoli, ne deriva che contemporaneamente vengono meno le pene a cui eravamo soggetti.
31. Per parte loro si prevalgono di affermazioni della Scrittura, vediamo dunque quali sono i loro argomenti.
Davide, dicono, rimproverato dal profeta Nathan per il suo adulterio e per il suo omicidio, riceve il perdono del suo peccato, ma è in seguito punito con la morte di quel figlio, nato dal suo adulterio (2 Re 12.13). Ci è pure insegnato, dicono, a riscattare con atti riparatori le pene e le punizioni che dovremmo sopportare dopo la remissione dei nostri peccati. Infatti Daniele esortava Nabucodonosor a riscattare i suoi peccati facendo elemosine (Da 4.24); Salomone scrive che le iniquità sono condonate all'uomo, a causa della sua giustizia e della sua pietà; e che la moltitudine dei peccati è coperta dalla carità (Pr 16.6; 10.12) : affermazione confermata pure da san Pietro (1 Pi. 4.8). In san Luca, il nostro Signore dice, della donna peccatrice, che parecchi peccati le erano stati perdonati perché ella aveva molto amato (Lu 7.47).
Con che mente contorta sono soliti considerare le opere di Dio! Se, al contrario, avessero tenuto presente quel che non si deve sottovalutare, che cioè ci sono due tipi di giudizio divino, avrebbero visto, in quella correzione di Davide, ben altro che vendetta o punizione del peccato. Ci è molto utile capire a quale scopo tendono i castighi che Dio ci manda per correggere i nostri peccati e quanto differiscono dalle punizioni che manda sui reprobi; non sarà dunque superfluo, penso, soffermarci brevemente su questo punto.
Definiamo genericamente ogni punizione Cl. termine "giudizio ", distinguendo però due casi: il giudizio di vendetta e il giudizio di correzione. Cl. giudizio di vendetta, il Signore punisce i suoi nemici in modo tale da manifestare la sua collera contro di loro per perderli, distruggerli e annientarli. C'è dunque vendetta di Dio quando la punizione che manda è congiunta alla sua collera. Cl. giudizio di correzione invece non punisce perché adirato e non castiga per perdere o confondere: perciò non si può propriamente parlare di "vendetta ", ma di "ammonimento "o "rimostranza ". Un atteggiamento è caratteristico di un giudice, l'altro di un padre. Infatti il giudice, Cl. punire un malfattore, ne punisce la colpa ed il misfatto; un padre, Cl. correggere suo figlio, non tende al fine di trarre vendetta da quell'errore, ma piuttosto cerca di ammaestrarlo e di renderlo più attento in avvenire.
Crisostomo si vale di quel paragone in un senso un po' diverso, ma giunge alla medesima conclusione: "Il figlio è battuto "dice "come il servo; ma questa azione punisce il servo perché ha sbagliato e questi riceve quel che ha meritato; il figlio invece è castigato con una disciplina amichevole. Il castigo è somministrato al figlio per correggerlo e ricondurlo sulla giusta via; il servo riceve quel che ha meritato perché il padrone è indignato contro di lui ".
32. Ma per capire più facilmente il tutto, dobbiamo fare due distinzioni.
La prima è che dovunque la punizione tende alla vendetta, là si rivelano la collera e la maledizione di Dio, che egli non rivolge mai sui suoi credenti. Al contrario, la correzione è una benedizione di Dio ed una testimonianza del suo amore, come dice la Scrittura (Gb. 5.17; Pr 3.2; Eb. 12.5).
Questa differenza è spesso sottolineata. Poiché tutte le afflizioni che gli iniqui sopportano in questo mondo sono, per loro, simili ad una porta d'ingresso all'inferno, attraverso la quale scorgono in lontananza la loro condanna eterna; lungi dall'essere mezzo per emendarsi o trarne qualche frutto, è il modo con cui il nostro Signore li prepara a ricevere l'orribile pena che alla fine li aspetta.
Al contrario, il Signore castiga i suoi servi, ma non per condannarli a morte. Colpiti dalle sue verghe, riconoscono che questo è per loro un utile insegnamento (Sl. 118.18; 119.71). Perciò, mentre i credenti hanno sempre ricevuto con pazienza e con animo sereno un castigo di questo tipo, hanno sempre avuto in orrore punizioni che rivelassero loro la collera di Dio. "Castigami, Signore "dice Geremia "ma per emendarmi e non nella tua ira, perché temo di essere sopraffatto, ecc. Spandi il tuo furore sui popoli che non ti conoscono, e sui regni che non invocano il tuo nome " (Gr. 10.24). E Davide: "Signore, non accusarmi nel tuo furore e non riprendermi nella tua ira! " (Sl. 6.2; 38.2).
Non contraddicono questo le frequenti affermazioni del Signore quando afferma di adirarsi contro i suoi servitori nel punire e castigare le loro colpe, come in Isaia: "Ti loderò, Signore, perché sei stato adirato contro di me; ma la tua ira ha preso fine e mi hai consolato " (Is. 12.1). E in Abacuc: "Dopo esser stato sdegnato, ti ricorderai di essere misericordioso " (Abacuc 3.2). Quando Michea dice: "Sopporterò l'ira di Dio, poiché lo ho offeso " (Mic 7.9) , in tal modo non solo ricorda che coloro i quali sono puniti, a ragion veduta, non si avvantaggiano Cl. mormorare, ma anche che i credenti hanno motivo di addolcire la loro tristezza meditando sull'intenzione di Dio. : È anche detto che egli profana la sua eredità ma, come sappiamo, non la profanerà mai. Questo dunque non si riferisce alla volontà di Dio o al proponimento che dimostra Cl. castigare i suoi, ma al dolore profondo da cui sono colpiti tutti coloro verso i quali egli manifesta rigore o severità.
Accade che, talvolta, non solo egli sproni i suoi servitori ma li colpisca talmente sul vivo, da dar loro l'impressione di non essere lontani dall'inferno. Così facendo, li avverte che hanno meritato la sua ira: questo giova a far sì che provino dolore per i loro mali, siano mossi da un più vivo desiderio di riconciliarsi con lui e siano meglio incitati a chiedere immediatamente perdono. Ma in questo modo attesta loro più la sua clemenza che il suo rigore. Il patto che egli ha una volta stabilito con Gesù Cristo e con i suoi membri rimane, poiché ha promesso che non potrà mai essere infranto. "Se i figli di Davide "dice "trascurano la mia Legge e non camminano secondo la mia giustizia, se trasgrediscono i miei comandamenti e non osservano le cose che ho loro ordinate, punirò le loro iniquità con la verga ed i loro peccati con la disciplina; ma non ritirerò da loro la mia misericordia " (Sl. 89.31). Per confermarci questo fatto, afferma che le verghe con cui ci percuoterà sono verghe d'uomo (2 Re 7.14). Con questa parola, facendo capire che ci tratterà con dolcezza e benignità, dimostra che coloro che vuol colpire con la sua mano non possono che essere interamente confusi e disorientati. La dolcezza che ha verso il suo popolo è parimenti indicata dal Profeta: "Ti ho "dice "purificato con il fuoco; ma non come si fa con l'argento, poiché saresti stato del tutto consumato" (Is. 48.10); per quanto, cioè, le tribolazioni che manda al suo popolo abbiano lo scopo di purificarlo dai suoi peccati, egli tuttavia le modera, onde non incidano su lui oltre misura.
Questa moderazione è particolarmente necessaria: nella misura in cui uno infatti teme Dio, lo riverisce e cerca di ubbidirgli con santità, è indifeso e debole dovendone sostenere l'ira. Per quanto, infatti, i reprobi si lamentino o digrignino i denti sotto i suoi colpi, non sapendone considerare la causa ma volgendo la schiena sia ai loro peccati sia ai giudizi di Dio, non fanno che indurirsi; o perché si ribellano rivoltano e recalcitrano, o perché tengono fieramente testa al loro giudice; una tale violenza e furia li rende ancora più insensibili, come gente insensata. Ma i credenti, non appena sono ammoniti dalla verga di Dio, cominciano a considerare i loro peccati e, spaventati da timore e paura, cercano rifugio nel supplicare Dio per ottenerne il perdono. Se Dio non temperasse le angosce da cui queste povere anime sono tormentate, esse soccomberebbero cento volte, quand'anche non desse che un piccolo segno della sua ira.
33. L'altra differenza consiste in questo: quando i malvagi sono battuti in questo mondo dai flagelli di Dio, cominciano già a sperimentare il rigore del suo giudizio. Il non aver tratto giovamento da questi avvertimenti della collera di Dio non sarà loro perdonato, tuttavia non vengono ora puniti perché si correggano, ma unicamente perché si rendano conto del fatto che hanno un giudice che non li lascerà sfuggire senza ripagarli in base ai loro meriti.
Al contrario, i credenti sono colpiti non per soddisfare l'ira di Dio o pagare quel che è dovuto al suo giudizio, ma perché si pentano e tornino sulla retta via. Perciò vediamo che simili punizioni si riferiscono piuttosto al futuro che al passato.
Preferisco esprimere questo con le parole di Crisostomo che con le mie: "Il Signore "dice "ci punisce dei nostri errori, non per trarre qualche ricompensa per i nostri peccati, ma ammonendoci per l'avvenire ".

Anche sant'Agostino afferma: "Quello che soffri e di cui gemi, è per te una medicina e non una pena, un castigo e non una condanna; non allontanare da te la verga, se non vuoi essere privato dell'eredità ". E: "Tutta la miseria del genere umano, sotto la quale il mondo geme, sappiate, fratelli, che è un dolore causato dalla medicina e non una punizione ". Ho voluto riferirmi a questi passi, onde quello che dico non paia nuovo. A questo mirano i lamenti indignati con cui spesso Dio denuncia l'ingratitudine dei Giudei, perché avevano disprezzato con superbia i castighi ricevuti dalla sua mano. Come in Isaia: "Vi colpirò io ancora? Dalla pianta dei piedi fino alla sommità del capo non vi è nulla di sano " (Is. 1.5). Ma poiché nei Profeti queste affermazioni sono frequenti, è sufficiente accennare che Dio punisce la sua Chiesa con la sola intenzione di educarla e tenerla a freno, affinché essa si corregga.
In base a questa differenza, privando Saul del suo regno intendeva punirlo con la vendetta (1 Re 15.23) , ma togliendo a Davide suo figlio (2 Re 12.18) , lo correggeva per migliorarlo. Bisogna intendere in questo senso l'affermazione di san Paolo, che quando il Signore ci affligge, vuole correggerci per non doverci condannare con questo mondo (1 Co. 11.32). Le afflizioni che ci manda non sono perciò punizioni per rattristarci, ma castighi per educarci. Sant'Agostino concorda con noi, quando dice che dobbiamo considerare in modo diverso i castighi con cui nostro Signore visita gli eletti e i reprobi. "Per i primi' infatti, si tratta di esercizi che seguono l'aver ottenuto grazia; per i secondi, sono condanne senza grazia ". In seguito riferisce gli esempi di Davide e degli altri, affermando che il nostro Signore, nel punirli, non ha avuto altro scopo che esercitarli nell'umiltà.
Da quel che dice Isaia, che cioè l'iniquità è stata perdonata al popolo giudaico in quanto esso aveva ricevuto piena correzione dalla mano del Signore (Is. 40.2) , non dobbiamo dedurre che la remissione dei nostri peccati dipenda dai castighi che riceviamo. È: come se Dio avesse detto: vi ho sufficientemente puniti e afflitti, tant'è vero che il vostro cuore è oppresso da tristezza e angoscia; è dunque tempo che, ricevendo l'annuncio della misericordia, ai vostri cuori sia ridata allegrezza e che mi consideriate come padre. Dio infatti si dichiara padre laddove, essendo stato costretto a mostrarsi aspro verso un suo figlio, si dispiace della sua severità, per quanto giusta sia.
34. È necessario che i credenti, nell'amarezza della loro afflizione ricordino questa affermazione: "Ecco il tempo in cui inizia il giudizio, nella casa del Signore, dove il suo nome è stato invocato " (1 Pi. 417; Gr. 25.29). Che farebbero i figli di Dio se pensassero che la tribolazione che sopportano è una vendetta di Dio su loro? Se colui che, colpito dalla mano di Dio, lo considera nei suoi confronti come un giudice che punisce, non può che immaginarlo adirato e ostile, e non può che detestare la verga di Dio, simile ad una maledizione e ad una condanna. Insomma, se uno pensa che Dio nutre nei suoi riguardi l'intenzione di volerlo ancora punire, non si potrà mai persuadere di essere amato da lui.
Ma non possiamo trarre giovamento dalla sua disciplina a meno che, pensando che è indignato per i nostri peccati, non lo riteniamo propizio verso di noi e pronto ad amarci. Altrimenti dovrebbe esserci accaduto quel che il Profeta dice che è accaduto a lui: "Signore, il tuo furore è passato su di me; la tua ira mi ha abbattuto " (Sl. 88.17). Così è detto anche nel salmo di Mosè: "Signore, siamo venuti meno per la tua ira e siamo stati confusi dalla tua indignazione. Tu hai posto le nostre iniquità dinanzi ai tuoi occhi e le nostre colpe nascoste nella luce del tuo volto. Così tutti i nostri giorni sono venuti meno nella tua ira; i nostri cuori sono stati consumati e perduti come una parola, quando è uscita di bocca " (Sl. 90.7). Davide al contrario, parlando dei castighi paterni, per dimostrare che essi giovano ai credenti più che rattristarli, dice: "Beato l'uomo che avrai corretto, Signore, e che avrai istruito nella tua legge, affinché tu gli dia riposo nel giorno dell'afflizione, quando la fossa si apre per i peccatori" (Sl. 94.12). È una dura prova quando Dio, risparmiando gli increduli e sorvolando sulle loro colpe, si mostra più duro e severo verso i suoi. Eppure aggiunge, per sollevarli e rincuorarli, l'avvertimento e l'istruzione nella Legge, che cioè vuole la loro salvezza nel ricondurli sulla buona strada; mentre i reprobi cadono e si perdono, precipitando nella fossa di perdizione.
Non fa differenza se la pena è eterna o temporanea; infatti sono maledizioni di Dio tanto le guerre, le carestie, le pestilenze e le malattie quanto il giudizio stesso della morte eterna, quando il nostro Signore li manda allo scopo di valersene come strumenti della sua ira e vendetta sugli iniqui.
35. Ognuno vede, penso, a qual fine tenda la correzione di Dio su Davide: per insegnargli quanto gravemente gli dispiacciano l'omicidio e l'adulterio, a motivo dei quali manifesta così grande ira sul suo servitore, pur fedele e amato; per avvertirlo anche di non arrischiarsi più, in futuro, a commettere un tal fatto; non per dargli una punizione con cui possa in qualche modo ricompensare Dio del suo errore.
Bisogna considerare allo stesso modo l'altra punizione con cui Dio colpì il popolo giudaico: la terribile pestilenza (2 Re 24.15) causata dalla disobbedienza di Davide, commessa facendo fare il censimento del popolo. Egli perdonò la colpa a Davide, ma poiché sia l'esempio da dare alle età future sia l'umiliazione di Davide richiedevano che un tal fatto non rimanesse impunito, il nostro Signore lo punì aspramente con la sua verga.
Allo stesso scopo tende la maledizione universale che il nostro Signore ha pronunciato su tutto il genere umano. Dopo aver ottenuto grazia, portiamo ancora le miserie che furono imposte al nostro padre Adamo per la sua trasgressione: in questo modo il Signore ci ricorda quanto gli dispiace che trasgrediamo la sua legge, onde, umiliati e abbattuti dal riconoscimento della nostra povertà, aspiriamo con maggior ardore alla vera beatitudine.
Chi volesse pretendere che tutte le calamità, che sopportiamo in questa vita mortale, sono un ricompensare Dio per le nostre colpe, sarebbe a buon diritto considerato privo di ragione. È quanto, mi pare, ha voluto dire san Crisostomo, quando scrive: "Se il fine per il quale Dio ci castiga è che non persistiamo nel male o che non ci induriamo, non appena ci ha condotti al pentimento la punizione non ha più luogo, ". Perciò tratta gli uni più aspramente e gli altri con maggior dolcezza come si addice alla natura di ognuno. Volendo far vedere che non è eccessivo nel punire, rimprovera i Giudei che, per durezza e ostinazione, non smettono di fare il male, pur essendo battuti (Gr. 5.3).
In questo stesso senso lamenta che Efraim sia simile ad un dolce bruciato da una parte e crudo dall'altra (Ho 7.8) , poiché le punizioni di cm aveva sentito i colpi non erano giunte fino al cuore, per trasformarlo e renderlo capace di ottenere perdono. Dio afferma, con queste parole, che sarà placato quando ciascuno sarà tornato a lui; e se è rigido nel castigare le colpe, questo gli è strappato con forza, visto che i peccatori potrebbero prevenirlo correggendosi volontariamente. Tuttavia, dato che nessuno di noi segue la retta via e tutti abbiamo bisogno di essere puniti, questo buon Padre, che persegue il nostro bene, ci visita tutti, senza eccezione, con le sue correzioni.
È strano che si soffermino al solo esempio di Davide, senza considerarne tanti altri che ci parlano di remissione gratuita dei peccati. Si legge che il pubblicano è sceso giustificato dal tempio (Lu 18.14) : non subisce alcuna pena. A san Pietro è stato perdonato il suo peccato (Lu 22.61). "Noi leggiamo delle sue lacrime ", dice sant'Ambrogio "ma non ci è parlato di atti riparatori ". Fu detto al paralitico: "Alzati, i tuoi peccati ti sono perdonati " (Mt. 9.2) , e non gli fu imposta alcuna pena. Tutte le assoluzioni di cui parla la Scrittura sono gratuite. Si doveva piuttosto trarre la regola da questa moltitudine di esempi, non da quell'unico che contiene qualcosa di speciale.
36. Daniele, nell'esortazione in cui consigliava a Nabucodonosor di riscattare i suoi peccati con la giustizia, e le sue iniquità con l'aver compassione dei poveri (Da 4.24) , non ha voluto dire che giustizia e misericordia siano un propiziarsi Dio e un redimersi dalle pene. Non c'è mai stato, infatti, altro riscatto che il sangue di Cristo. Parlando di riscatto, lo riferisce agli uomini e non a Dio, come se dicesse: "O re, hai esercitato un dominio ingiusto e violento; hai oppresso i deboli, saccheggiato i poveri, trattato male e con iniquità il tuo popolo. Per le ingiuste rapine, oppressioni e violenze che hai loro fatte, rendi loro ora misericordia e giustizia".
Anche Salomone, quando dice che la moltitudine dei peccati è coperta dall'amore (Pr 10.12) , non intende riferirsi a Dio, ma alle relazioni degli uomini fra loro. La citazione intera suona infatti così: "L'odio muove a contesa, ma l'amore copre tutte le iniquità ". E, secondo il suo stile abituale, Salomone, confrontando gli opposti, oppone i mali che nascono dall'odio ai frutti che provengono dall'amore. Il senso è questo: quelli che si odiano fra loro, si aggrediscono, si accusano e si ingiuriano l'un l'altro, volgendo ogni cosa al male e al rimprovero. Quelli che si amano, sopportano, tollerano e si perdonano reciprocamente molte cose; non che uno approvi i peccati dell'altro, ma li sopporta e cerca di porvi rimedio con l'ammonimento, piuttosto che di irritare con le accuse. Senza dubbio, questo passo è stato citato in questo senso da san Pietro (1 Pi. 4.8) , a meno che non vogliamo imputargli di aver corrotto e frainteso la Scrittura.
Quando Salomone dice che i peccati ci sono rimessi per misericordia e benevolenza (Pr 16.6) , non intende dire che siano pagati a Dio di modo che, soddisfatto e contento, egli ci condoni le pene che altrimenti ci avrebbe mandato. Usando il linguaggio comune alla Scrittura, intende dire che lo troveranno propizio tutti coloro che, abbandonando la malvagità della loro vita, si convertiranno a lui in santità e buone opere. Come se dicesse che l'ira di Dio cessa ed è placata quando cessiamo di compiere il male. Ma non specifica la causa in virtù della quale Dio ci perdona; si limita a descrivere il modo adeguato e giusto di convertirci. Analogamente i profeti affermano che invano gli ipocriti si recano a Dio con manifestazioni esteriori e cerimonie invece di penitenza, poiché egli si compiace unicamente nell'integrità, nella pietà, nella dirittura e in simili cose.
Anche l'autore dell'Epistola agli Ebrei, raccomandando bontà e benevolenza, dice che Dio si compiace in simili sacrifici (Eb. 13.16). In realtà, quando il nostro Signor Gesù, dopo essersi beffato dei Farisei che ponevano ogni attenzione nel ripulire le loro ciotole ordina loro, se desiderano la purezza, di fare elemosine (Mt. 23.25; Lu 11.39) , non li invita a giustificarsi, ma si limita a renderli attenti al tipo di purezza che Dio approva. Ma di questa affermazione si è parlato altrove.
37. Riguardo al passo di san Luca, chi abbia letto con sano intendimento la parabola quivi narrata dal nostro Signore (Lu 7.36) , non ci contraddirà. Il Fariseo pensava in se stesso che nostro Signore non conosceva la donna peccatrice ammettendola così facilmente in sua compagnia. Egli, infatti, riteneva che non l'avrebbe mai fatto se avesse saputo che si trattava di una peccatrice. Da ciò deduceva che Gesù non era profeta, dato che si ingannava così facilmente. Ma il nostro Signore, per dimostrare che costei non era più una peccatrice, da quando egli le aveva perdonato i suoi peccati, racconta questa parabola: "Un usuraio aveva due debitori, dei quali uno gli doveva cinquanta franchi, l'altro cinquecento. Egli cancellò il debito ad entrambi; quale dei due doveva essergli più grato? "Il Fariseo risponde: "Certo colui al quale è stato cancellato il debito maggiore ". Nostro Signore aggiunge: "Perciò considera che molti peccati sono stati perdonati a questa donna, poiché essa ha molto amato ". Con queste parole egli non considera evidentemente l'amore di quella donna come causa della remissione dei suoi peccati, ma semplicemente come prova; queste parole infatti sono ricavate dal paragone col debitore, cui era stato annullato un debito di cinquecento franchi. Non dice che gli è stato annullato perché ha molto amato, ma dice che deve molto amare, perché gli è stato annullato. Bisogna applicare queste parole al paragone, in questo modo: tu consideri questa donna peccatrice; ma dovevi riconoscere in lei una persona diversa, poiché i suoi peccati le sono stati perdonati. E la remissione dei suoi peccati ti doveva essere manifestata dall'amore con cui ella rende grazie per il bene che le è stato fatto. È un argomento cosiddetto a posteriori, con cui dimostriamo qualcosa in base ai segni che ne seguono. Nostro Signore infine attesta con evidenza il mezzo con cui quella peccatrice fu perdonata dei suoi peccati: "La tua fede "dice "ti ha salvata ". Otteniamo dunque remissione per mezzo della fede; per mezzo dell'amore rendiamo grazie e riconosciamo la generosità del Signore.
38. Non mi turbano molto le affermazioni contenute nei libri degli antichi, riguardo all'espiazione. A dire il vero, alcuni di loro, e quasi tutti coloro le cui opere sono giunte a nostra conoscenza, o hanno errato su questo punto ovvero si sono espressi in modo eccessivamente rigido. Ma non mi pare che, per quanto rudi e ignoranti, si siano pronunciati nel senso in cui lo intendono questi nuovi teologi dell'espiazione.
Crisostomo dice, in un suo scritto: "Quando si chiede misericordia è perché non venga esaminato il proprio peccato, per non esser trattati secondo il rigore della giustizia, perché ogni punizione sia sospesa. Poiché dove c'è misericordia non c'è più né geenna, né esame, né rigore, né pena ". Queste parole, comunque si voglia cavillare, non potranno mai avallare la dottrina degli Scolastici. Inoltre, nel libro intitolato De Dogmatibus Ecclesiasticis, attribuito a sant'Agostino, è detto al cinquantaquattresimo capitolo: "L'espiazione della penitenza consiste nel togliere le cause del peccato e nel non cedere alle sue lusinghe ". È chiaro che in quel tempo era respinta l'opinione che bisognava, con l'espiazione, compensare le colpe passate. Ogni espiazione è qui riferita allo stare in guardia per il futuro e all'astenersi dal compiere il male.
Per tacere dell'affermazione di Crisostomo, che il Signore non richiede altro da noi, se non che confessiamo davanti a lui, con lacrime, i nostri peccati; tali affermazioni sono infatti spesso ripetute dagli antichi. Sant'Agostino definisce sì, in qualche suo passo, "rimedi per ottener perdono di fronte a Dio "le opere di misericordia. Ma onde nessuno sia tratto in inganno, spiega più ampiamente il suo pensiero in un altro passo: "La carne di Cristo "dice "è il vero ed unico sacrificio per i peccati; non soltanto per quelli che ci sono rimessi Cl. battesimo, ma per quelli che compiamo in seguito per la debolezza della nostra carne; per questi, la Chiesa prega ogni giorno: Rimettici i nostri debiti (Mt. 6.12). Infatti essi ci sono rimessi da questo unico sacrificio ".
39. Per lo più hanno chiamato "espiazione "non già una ricompensa resa a Dio, ma una pubblica testimonianza con cui i credenti puniti mediante la scomunica, quando rientravano nella comunione della Chiesa, davano alla comunità dei credenti un attestato del loro pentimento; infatti si prescrivevano loro digiuni ed altre pratiche, con cui dimostrare che si pentivano veramente e di cuore della loro vita passata, o piuttosto cancellare il ricordo della malvagità della loro vita. In tal modo si diceva che costoro soddisfacevano, non già a Dio, ma alla Chiesa: lo dice sant'Agostino, testualmente, nel libro che ha intitolato Enchiridion ad Laurentium. Da questa antica usanza derivano le confessioni e le espiazioni oggi in uso; e si tratta veramente d; una discendenza velenosa, che ha a tal punto soffocato quel che di buono c'era nella forma antica, che non ne è sopravvissuta nemmeno l'ombra.
So che talvolta gli antichi parlano in modo alquanto inappropriato e, come ho detto prima, non voglio negare che talvolta abbiano errato. Ma i loro libri che erano semplicemente intaccati da piccole macchie, sono completamente insozzati da quando questi porci li maneggiano. E se è questione di combattere valendosi dell'autorità degli antichi, quali antichi ci contrappongono? La maggior parte delle affermazioni di cui Pietro Lombardo, loro corifeo, ha riempito il suo libro è stata attinta da non so quali fantasticherie di pazzi monaci, divulgate coi nomi di sant'Ambrogio, Girolamo, Agostino e Crisostomo. Sull'argomento ora trattato, ad esempio, prende a prestito quasi tutto quel che dice da un libro intitolato Intorno alla penitenza che, cucito in malo modo da qualche ignorante ispiratosi ad autori buoni e meno buoni, è attribuito a sant'Agostino; ma è tale che un uomo, anche mediocremente colto, disdegnerebbe di riconoscerlo come suo.
I lettori mi perdoneranno se non passo in rassegna con ampia dIs.mina le scemenze di costoro. Non mi sarebbe difficile volgere in ridicolo tutti i grandi misteri di cui si vantano e lo potrei fare con plauso di molti, ma poiché desidero semplicemente edificare, me ne astengo.

Istituzioni della religione cristiana
di Giovanni Calvino (1559)
Biblioteca
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