CAPITOLO 6
LA VITA DEL CRISTIANO E GLI ARGOMENTI TRATTI DALLA SCRITTURA PER ESORTARCI AD ESSA
1. SCOPO della nostra rigenerazione, abbiamo detto, è che si scorga nella nostra vita una correlazione ed un accordo fra la giustizia di Dio e la nostra obbedienza e che, con questo mezzo, ratifichiamo l'adozione mediante la quale Dio ci ha accettati come suoi figli. Benché la legge di Dio contenga in se questa novità di vita per cui l'immagine di Dio è ricostituita in noi, tuttavia poiché la nostra lentezza ha bisogno di molti pungoli e aiuti, sarà utile cogliere, da vari passi della Scrittura, il modo per regolare bene la nostra vita affinché coloro che desiderano convertirsi a Dio non si smarriscano in pensieri erronei.
Accingendomi a tratteggiare la vita del cristiano, mi rendo conto di affrontare un argomento ampio e vario che potrebbe riempire un gran volume, se volessi trattarne esaurientemente. Sappiamo infatti quanto siano prolisse le esortazioni degli antichi Dottori, che pure affrontano soltanto alcune virtù particolari. Questo non deriva da chiacchiere troppo lunghe: qualunque virtù ci si proponga di lodare e di raccomandare, la vastità dell'argomento darà l'impressione di non averne discusso con correttezza se non si sarà impiegato un gran numero di parole.
Non è mia intenzione dilatare l'insegnamento di vita che intendo dare, al punto da trattare di ogni singola virtù facendo lunghe esortazioni. Questo potrà essere ricavato dai libri degli altri, e in particolare dalle omelie degli antichi Dottori, cioè dalle loro prediche popolari. Mi basterà indicare un certo ordine, in base al quale il cristiano sia condotto e rivolto al retto fine di orientare bene la sua vita. Mi accontenterò, ripeto, di indicare brevemente una regola generale a cui egli possa riferire tutte le sue azioni. Avremo forse talvolta l'occasione di trarre delle deduzioni simili a quelle reperibili nelle prediche degli antichi Dottori: l'opera che abbiamo in mano richiede che includiamo un insegnamento semplice e per quanto possibile breve.
Come i filosofi hanno alcuni princìpi generali di onestà e dirittura da cui deducono compiti particolari e tutti gli atti di virtù, così la Scrittura, a questo proposito, ha un suo modo di procedere, migliore e più sicuro di quello dei filosofi. La differenza è che costoro, pieni di ambizione, hanno ricercato con cura un'apparenza per quanto possibile degna di considerazione, per dar lustro al criterio e alla disposizione di cui si servivano, onde evidenziare la loro finezza di spirito. Al contrario lo Spirito Santo, insegnando senza esigenze formali, non si è attenuto sempre, e in modo cosi rigoroso, ad un certo ordine e metodo; dato però che talvolta se ne serve, ci indica che non lo dobbiamo disprezzare.
2. L'ordine della Scrittura, di cui parliamo, consta di due elementi: imprimere nei nostri cuori l'amore della giustizia, cui non siamo affatto inclini per natura; fornirci una norma sicura che ci impedisca di errare qua e là, o smarrirci nel tentativo di dare un indirizzo alla nostra vita.
Riguardo al primo punto, la Scrittura ha numerosi e ottimi argomenti per disporre il nostro cuore ad amare il bene: ne abbiamo sottolineati parecchi in vari passi, e ne esamineremo ancora alcuni. Quale migliore punto di partenza ci poteva essere proposto dell'invito ad essere santi in quanto il nostro Dio è santo (Le 19.2; 1 Pi. .1.16) aggiungendo che, quando eravamo come pecore disperse nel labirinto di questo mondo, egli ci ha raccolti per riunirci a sé? Quando udiamo menzionare l'unione di Dio con noi, dobbiamo ricordarci che il legame di essa è la santità. Non che per merito della nostra santità noi giungiamo alla comunione Cl. nostro Dio, visto che ci è necessario, prima di esser santi, aderire a lui affinché spanda la sua santità su noi perché lo seguiamo là dove egli ci chiama; ma, dato che l'astenersi dall'iniquità e dalle cose immonde è inerente alla sua gloria, dobbiamo assomigliargli, poiché siamo suoi.
Pertanto la Scrittura ci insegna che questo esser santi è il fine della nostra vocazione, a cui dobbiamo sempre guardare se vogliamo rispondere al nostro Dio. Infatti perché essere liberati dalla sozzura e corruzione in cui eravamo immersi, per poi rotolarci in essa tutta la vita? La Scrittura ci ricorda altresì che se vogliamo far parte del popolo di Dio dobbiamo abitare a Gerusalemme, sua città santa. Avendola egli consacrata e dedicata al suo onore, non è lecito che sia contaminata e corrotta da abitanti impuri e profani. Ne derivano le promesse secondo cui chi camminerà senza macchia e si sforzerà di vivere correttamente, abiterà nel tabernacolo del Signore (Sl. 24.3; 15.2; Is. 35.8) , poiché non si addice al santuario nel quale abita essere insozzato come una stalla.
3. Anzi, per spronarci maggiormente, la Scrittura ci dice che non solo Dio si è riconciliato con noi nel suo Cristo, ma ci ha dato in lui un esempio e modello al quale ci dobbiamo attenere (Ro 6.18).
Coloro che pensano che solo i filosofi hanno affrontato in modo corretto e adeguato il problema morale, mi indichino, nei libri di costoro, un criterio altrettanto valido quanto quello enunciato più sopra. Quando ci vogliono esortare alla virtù, con tutto il loro potere, non sanno dire altro, se non che dobbiamo vivere in armonia con la natura. La Scrittura ci fornisce ben altra motivazione quando non solo ci ordina di riferire tutta la nostra vita a Dio, che ne è l'autore ma, dopo averci avvertiti che abbiamo degenerato dalla vera origine della nostra creazione, aggiunge che Cristo, riconciliandoci con Dio suo padre, ci è dato come esempio di innocenza, la cui immagine deve essere rappresentata nella nostra vita. Che si potrebbe dire di più radicale ed efficace? Anzi, che cos'altro si richiederebbe? Poiché se Dio ci adotta come suoi figli a condizione che l'immagine di Cristo appaia nella nostra vita, se non ci diamo alla giustizia e alla santificazione, non solo abbandoniamo il nostro Creatore in modo veramente sleale, ma anche lo rifiutiamo come salvatore. Di conseguenza la Scrittura prende spunto da tutti i benefici di Dio e da tutte le componenti della nostra salvezza per esortarci dicendo: "Poiché Dio si è dato a noi come Padre, siamo dà rimproverare per vile ingratitudine se non ci comportiamo come suoi figli " (Ma.1.6; Ef. 5.1; 1 Gv. 3.1). "Poiché Cristo ci ha purificati Cl. lavacro del suo sangue e ci ha trasmesso questa purificazione per mezzo del battesimo, non c'è motivo che ci sporchiamo di altra immondizia " (Ef. 5.26; Eb. 10.10; 1 Co. 6.2; 1 Pi. .1.15e 19). "Poiché ci ha associati e innestati sul suo corpo, dobbiamo guardarci con cura dal contaminarci in qualunque modo, visto che siamo sue membra " (1 Co. 6.15; Gv. 15.3; Ef. 5.23). "Poiché colui che è nostro Capo è salito al cielo, dobbiamo abbandonare ogni terrena disposizione d'animo, per aspirare con tutto il nostro cuore alla vita celeste " (Cl. 3.1). "Poiché lo Spirito Santo ci consacra per essere templi di Dio, dobbiamo far sì che la gloria di Dio sia esaltata in noi e guardarci dal ricevere qualunque impurità " (1 Co. 3.16e 6.19; 2 Co. 6.16). "Poiché la nostra anima ed il nostro corpo sono destinati all'immortalità del regno di Dio e alla corona incorruttibile della sua gloria, dobbiamo sforzarci di conservare l'uno e l'altro puri ed immacolati fino al giorno del Signore " (1 Ts. 5.23).
Sono queste motivazioni adatte a ben indirizzare la nostra vita; non se ne troveranno di simili presso i filosofi. Essi infatti non vanno mai oltre la menzione della dignità naturale dell'uomo, quando si tratta di indicargli qual sia il suo dovere.
4. Devo qui rivolgermi a coloro che, non avendo nulla di Cristo all'infuori del nome, vogliono tuttavia essere ritenuti cristiani. Come ardiscono gloriarsi del suo santo nome, se nessuno ha familiarità con lui, all'infuori di chi l'ha conosciuto rettamente per mezzo della parola dell'Evangelo? San Paolo nega che un uomo abbia ricevuto una retta conoscenza di Cristo, senza aver imparato a spogliarsi dell'uomo vecchio che si corrompe in desideri disordinati, per essere rivestito da Cristo (Ef. 4.22-24).
È dunque chiaro che questo tipo di persone pretende ingiustamente di conoscere Cristo; così facendo gli reca grande ingiuria, per quante belle chiacchiere abbiano sulla lingua. Poiché l'Evangelo non è una dottrina, ma una vita; non deve essere capito solo dalla ragione e dalla memoria, come le altre discipline, ma deve possedere l'anima intera, ed avere sede e adesione nel profondo del cuore: altrimenti non è ben ricevuto. Perciò, o cessano di vantarsi, con gran disprezzo per Dio, di essere quel che non sono, oppure dimostrino di essere discepoli di Cristo.
Abbiamo sì dato il primo posto all'insegnamento, in materia di religione, in quanto esso è l'inizio della nostra salvezza; ma per essere utile e fruttuoso, esso deve penetrare completamente all'interno del cuore, e palesare la sua potenza nella nostra vita, anzi trasformarci secondo la sua natura. Se i filosofi hanno buone ragioni per adirarsi contro coloro che fanno professione della loro arte, che definiscono maestra di vita, e tuttavia la trasformano in un chiacchierio da sofisti, quanto più abbiamo ragione di essere insofferenti verso quei chiacchieroni che si accontentano di avere in bocca l'Evangelo, disprezzandolo con la loro vita intera, visto che la sua efficacia dovrebbe penetrare nel profondo del cuore, essere radicata nell'anima centomila volte più di tutte le esortazioni filosofiche, che in confronto non hanno grande peso.
5. Non richiedo che la condotta del cristiano sia Evangelo puro e perfetto, sebbene ciò sia da desiderare e ci si debba sforzare in tal senso; né richiedo una perfezione evangelica in modo così rigoroso da non voler riconoscere per cristiano se non chi l'abbia raggiunta. Infatti in tal modo tutti gli uomini del mondo sarebbero esclusi dalla Chiesa, visto che non se ne troverà uno che non ne sia ancora molto lontano, anche se ha tratto buon profitto, e la maggior parte non è ancora molto avanti: non per questo bisogna respingerli.
Che dunque? Certo dobbiamo avere questo fine davanti agli occhi, e tutte le nostre azioni devono essere regolate su di esso: tendere alla perfezione che Dio ci ordina. Dobbiamo, ripeto, sforzarci e aspirare a tanto. Non ci è lecito fare a metà con Dio, accogliendo una parte di quel che ci è ordinato nella sua Parola, e tralasciando l'altra a nostro piacimento. Poiché ci raccomanda sempre, anzitutto, l'integrità, termine con cui indica una pura semplicità di cuore, libera e netta da ogni finzione, opposta alla doppiezza d'animo. La regola fondamentale del ben vivere procede dallo Spirito, quando cioè la disposizione interiore dell'anima si dà a Dio senza finzione, per camminare in giustizia e santità. Ma poiché, mentre viviamo in questa prigione terrena, nessuno di noi è così forte e ben disposto da impegnarsi in questa corsa con la dovuta prontezza, anzi la maggior parte è così debole che vacilla e zoppica, tanto da non poter progredire molto, andiamo avanti ognuno secondo le sue possibilità, e non cessiamo di proseguire la strada intrapresa. Nessuno camminerà così poco da non avanzare un po', ogni giorno, per guadagnar terreno.
Sforziamoci dunque di progredire costantemente nella via del Signore; non perdiamo coraggio, anche se i progressi sono minimi. Anche se la realtà non corrisponde al nostro desiderio, pure non tutto è perso quando l'oggi segna un progresso su ieri.
Guardiamo la nostra meta con pura e retta semplicità e sforziamoci di giungere al nostro fine, senza ingannarci con vane lusinghe e senza indulgere ai nostri peccati, ma sforzandoci di diventare di giorno in giorno migliori di quanto siamo, fino al raggiungimento della bontà assoluta, che dobbiamo cercare e perseguire per tutto il tempo della nostra vita, per possederla quando, spogliati dall'infermità della nostra carne, ne saremo fatti pienamente partecipi: quando cioè Dio ci riceverà nella sua compagnia.
CAPITOLO 7
IL SOMMARIO DELLA VITA CRISTIANA: LA RINUNCIA A NOI STESSI
1. Veniamo ora al secondo punto. Benché la legge di Dio abbia un ottimo metodo ed un ben ordinato criterio per dar forma alla nostra vita, è tuttavia parso opportuno a questo buon maestro celeste formare i suoi ad una dottrina più eccellente della regola che aveva dato loro nella Legge.
L'inizio dunque del suo agire è questo: il compito dei credenti è di offrire i loro corpi a Dio in sacrificio vivente, santo ed accettevole, ed in ciò consiste il culto legittimo che dobbiamo rendergli (Ro 12.1). Ne deriva questa esortazione: i credenti non si adattino alla figura del mondo presente, ma siano trasformati da un rinnovamento della mente, per cercare e conoscere la volontà di Dio. È già una grande affermazione il dire che siamo consacrati e dedicati a Dio, per non più pensare, d'ora in poi, né parlare, né meditare, né agire se non alla sua gloria; poiché non è lecito servirsi di qualcosa di sacro per un uso profano.
Se non apparteniamo a noi stessi ma al Signore, se ne può dedurre quel che dobbiamo fare per non errare, e in che direzione dobbiamo rivolgere tutta la nostra vita. Non apparteniamo a noi stessi: la nostra ragione e la nostra volontà non dominino dunque nei nostri propositi ed in ciò che dobbiamo fare. Non apparteniamo a noi stessi: non perseguiamo dunque lo scopo di cercare quel che ci è giovevole secondo la carne. Non apparteniamo a noi stessi: dimentichiamo dunque noi stessi, per quanto possibile, e tutto ciò che è intorno a noi. Al contrario, apparteniamo al Signore: la sua volontà e la sua sapienza presiedano dunque a tutte le nostre azioni. Apparteniamo al Signore: tutte le componenti della nostra vita siano riferite a lui, come al loro unico fine. Quanto giovamento ha tratto l'uomo che, sapendo di non appartenere a se stesso, ha tolto la signoria e il governo di se alla sua ragione, per metterli nelle mani di Dio! Come il compiacere a se stessi è la peggior peste che gli uomini abbiano per perdersi e distruggersi, così il solo porto della salvezza consiste nel non aver saggezza di per se, nel non voler nulla da per se stessi, ma nel seguire soltanto il Signore.
Sia quello dunque il nostro primo passo per ritirarci da noi stessi, per applicare tutta la forza della nostra mente al servizio di Dio. Chiamo servizio non solo l'ubbidire alla sua Parola, ma l'atteggiamento per cui la mente dell'uomo, svuotata del suo proprio sentire, si converte interamente e si sottomette allo Spirito di Dio.
Questa trasformazione, che san Paolo definisce rinnovamento della mente (Ef. 4.23) è stata ignorata da tutti i filosofi, benché costituisca il primo passo per entrare nella vita. Essi infatti insegnano che la ragione sola deve reggere e moderare l'uomo, pensano che si debba ascoltare e seguire solo lei e le affidano il governo della vita. Al contrario, la filosofia cristiana vuole che la ragione ceda, che si ritiri per far posto allo Spirito Santo, per essere domata sotto la sua guida, affinché l'uomo non viva più per forza sua, ma abbia in se e porti il Cristo vivente e regnante.
2. Di qui deriva l'altro punto che abbiamo stabilito, cioè che non cerchiamo le cose che ci piacciono, ma quelle che piacciono a Dio e sono proprie ad esaltare la sua gloria. È gran virtù che, quasi dimentichi di noi stessi, o per lo meno non preoccupandoci di noi, ci sforziamo di applicare la nostra perseveranza e di consacrarla fedelmente a seguire Dio e i suoi comandamenti. Infatti, quando la Scrittura ci vieta di avere particolare riguardo a noi, non solo cancella dal nostro cuore l'avarizia, il desiderio di imporci, di giungere a grandi onori o affermazioni, ma vuole anche estirpare ogni ambizione, desiderio di gloria umana ed altre pesti nascoste. Bisogna, certo, che il cristiano pensi che ha a che fare con Dio in tutta la sua vita. Se questo pensiero lo pervade ed egli sa di dovergli render conto di tutte le sue opere, orienterà ogni sua intenzione verso di lui, e la terrà radicata in lui. Poiché dunque ha di mira Dio in tutto il suo operare, storna facilmente il suo spirito da ogni vano pensiero. È la rinuncia a noi stessi, che Cristo richiede con tanta cura da tutti i suoi discepoli, come loro primo apprendistato (Mt. 16.24) , e una volta che il cuore dell'uomo è occupato da Cristo, orgoglio, fierezza, ostentazione ne sono estirpati, poi anche avarizia, intemperanza, cose superflue e piacevolezze, con gli altri peccati che nascono dall'amore per sé.
Al contrario, ovunque egli non regna, o l'uomo si lascia andare senza pudore né vergogna ad ogni grossolanità oppure, quando vi sia qualche parvenza di virtù, è corrotta da una cattiva cupidigia di gloria. Mi si indichi un uomo che eserciti gratuitamente la benignità nei confronti dei suoi simili se non ha rinunciato a se stesso, secondo quest'ordine del Signore. Poiché coloro che non hanno avuto una tale disposizione d'animo seguendo la virtù, hanno per lo meno cercato la lode. Anche i filosofi (che hanno maggiormente lottato per dimostrare che la virtù è desiderabile in sé) , si sono talmente gonfiati di orgoglio e di presunzione, che si può vedere che non hanno desiderato la virtù se non per avere di che inorgoglirsi. Ora gli ambiziosi che cercano la gloria mondana, o le persone divorate interiormente dall'arroganza, sono lungi dal piacere a Dio, poiché egli afferma che i primi hanno ricevuto la loro ricompensa in questo mondo e che i secondi sono più lontani dal regno di Dio dei pubblicani e delle prostitute.
Non abbiamo ancora chiaramente esposto però quanti impedimenti trattengano l'uomo dal darsi al bene, se non ha rinunciato a se stesso. È stato infatti detto molto bene dagli antichi, che c'è un mondo di peccati nascosti nell'animo dell'uomo; e non vi troveremo altro rimedio, se non rinunciando a noi stessi e, senza aver riguardo a quel che ci piace, dirigendo e orientando la nostra mente alla ricerca delle cose che Dio ci chiede, cercandole per il solo fatto che gli sono gradite.
3. San Paolo, in un altro passo, elenca più distintamente, ancorché in breve, tutti i modi di regolare bene la nostra vita.
"La grazia di Dio "dice "è apparsa per la salvezza di tutti gli uomini, insegnandoci a respingere ogni empietà e cupidigia mondana, e così a vivere sobriamente, con giustizia e santità in questo mondo, aspettando la beata speranza e la manifestazione della gloria del gran Dio e nostro Salvatore Gesù Cristo, che si è dato per riscattarci da ogni iniquità e purificarci perché fossimo il popolo suo erede, dedito a buone opere " (Tt 2.11-14). Dopo aver proposto la grazia di Dio per infonderci coraggio, volendoci anche tracciare la strada perché camminiamo al servizio di Dio, toglie due ostacoli che ci potrebbero bloccare: l'empietà, cui siamo per natura troppo inclini, e le cupidigie mondane, che si estendono più lontano. Con il termine "empietà "indica non solo le superstizioni, ma comprende tutto ciò che è contrario al vero timor di Dio. Le cupidigie mondane equivalgono alle inclinazioni della carne. Perciò ci ordina di spogliare la nostra indole naturale quanto alle due parti della Legge, e di respingere lontano tutto quello che la nostra ragione e la nostra volontà ci propongono.
Per il resto, riconduce tutta la nostra azione a tre elementi: sobrietà, giustizia e pietà.
La prima, la sobrietà, significa certamente castità, padronanza di se, uso puro e moderato di tutti i beni di Dio, pazienza nella povertà.
La parola giustizia comprende la dirittura, in cui dobbiamo vivere la relazione con i nostri simili, per dare a ciascuno ciò che gli spetta.
La pietà, che egli pone al terzo posto, ci purifica da ogni impurità del mondo, per unirci a Dio in santità.
Quando queste tre virtù sono unite fra loro da un legame inscindibile, danno come risultato una perfezione completa. Poiché nulla è più difficile che far abdicare la nostra ragione, domare i nostri desideri, anzi rinunciarvi del tutto per dedicarci a Dio ed ai nostri fratelli e per meditare in questo fango terreno una vita angelica, san Paolo, per liberare le nostre anime da ogni vincolo, ci richiama alla speranza della beata immortalità, dicendo che non combattiamo invano in quanto Gesù Cristo, apparso una volta quale redentore, rivelerà nella sua venuta finale il frutto della salvezza che ci ha acquistata. In tal modo ci ritrae da tutti gli allettamenti, che di solito ci abbagliano, impedendoci di aspirare dovutamente alla gloria celeste, mentre ci avverte che siamo di passaggio in questo mondo, onde l'eredità celeste non sia vana per noi.
4. In queste parole vediamo che la rinuncia a noi stessi concerne in parte gli uomini e in parte Dio. Infatti quando la Scrittura ci ordina di comportarci verso gli uomini in modo tale da preferirli a noi in onore, e da cercare con perseveranza di far progredire quel che giova a loro (Ro 12.10; Fl. 2.3) essa dà dei comandamenti di cui il nostro cuore non è capace, se prima non è stato svuotato del suo modo di sentire naturale. Poiché siamo tutti così accecati e presi dal nostro amore per noi stessi, che non c'è nessuno il quale non ritenga di avere buone ragioni per innalzarsi al di sopra degli altri, e disprezzare tutti in confronto a sé.
Se Dio ci ha fatto qualche dono, degno di considerazione subito con quel pretesto il nostro cuore si innalza; non solo ci gonfiamo, ma quasi scoppiamo per l'orgoglio. I peccati di cui siamo pieni, li nascondiamo accuratamente agli sguardi degli altri e diamo da credere che sono piccoli e leggeri, o talvolta li stimiamo come se fossero delle virtù. Quanto ai doni che abbiamo ricevuto, li stimiamo a tal punto da considerarli con ammirazione. Se essi sono visibili negli altri, se anzi sono evidenti, per non essere costretti a riconoscerli li oscuriamo e disprezziamo il più possibile. Al contrario, non ci accontentiamo di osservare con severità qualunque peccato dei nostri simili, ma lo ampliamo in maniera odiosa.
Ne deriva quell'insolenza per cui ciascuno di noi, come se fosse esente dalla condizione comune, cerca preminenza su tutti gli altri e, senza eccettuarne uno, li disprezza tutti, ritenendoli inferiori a sé. I poveri cedono sì ai ricchi, i contadini ai nobili, i servi ai loro padroni, gli ignoranti ai dotti: ma nessuno rinuncia a fantasticare in cuor suo sulla sua presunta dignità di eccellere al di sopra di tutti gli altri. Così ognuno, adulandosi, alimenta, per quanto lo concerne, un regno nel suo cuore. Attribuendosi le cose di cui si compiace, censura gli spiriti ed i costumi degli altri. Ma se si viene a disputa, allora il veleno esce e diventa visibile. Ce ne sono sì parecchi che hanno qualche parvenza di mansuetudine e modestia, finché non vedono nulla che li disturbi: ma quanto poco numerosi sono coloro che conservano dolcezza e modestia, quando li si punge e li si irrita?
Né può accadere diversamente, a meno che quella peste mortale dell'amore e dell'esaltazione di se stessi non sia sradicata dal profondo del cuore, come ve la sradica la Scrittura. Se ascoltiamo il suo insegnamento, dobbiamo ricordare che tutti i doni che Dio ci ha fatto non sono beni che ci appartengono, ma doni gratuiti della sua generosità. Se qualcuno, dunque, se ne inorgoglisce, dimostra così la sua ingratitudine. "Chi è che ti magnifica? ", dice san Paolo. "E se hai ricevuto ogni cosa, perché te ne glorii, come se non ti fossero date? " (1 Co. 4.7). D'altra parte, riconoscendo con assiduità i nostri peccati, ci dobbiamo ridurre all'umiltà. Perciò non rimarrà nulla in noi di cui ci possiamo gonfiare; piuttosto avremo validi motivi per essere abbattuti.
Inoltre, ci viene ordinato di tenere in tale onore e rispetto i doni di Dio, che vediamo nei nostri simili, da onorare a motivo loro le persone in cui risiedono. Sarebbe eccessiva audacia e arroganza il voler spogliare un uomo dell'onore che Dio gli ha fatto.
Ci è anche richiesto di non sottolineare i loro peccati, ma di coprirli; non per mantenerli mediante l'adulazione, ma perché non rechiamo offesa a colui che ha commesso qualche errore, visto che dobbiamo avere per lui amore e onore. Di conseguenza qualunque sia la persona con la quale abbiamo a che fare, non solo ci comporteremo con modestia e moderazione, ma con dolcezza ed amicizia. Non raggiungeremo una autentica mansuetudine se non avendo un cuore disposto ad abbassarsi e ad onorare gli altri.
5. Quanto al compimento del proprio dovere in vista di procacciare il vantaggio del nostro prossimo, quante sono le difficoltà? Se non tralasciamo la considerazione di noi stessi e non ci spogliamo di ogni inclinazione che è secondo la carne, non faremo nulla in questo senso. Chi infatti adempirà ai compiti che san Paolo richiede siano compiuti con amore, se non ha rinunciato a se, al fine di darsi interamente al suo prossimo? "La carità "dice "è paziente e benevola; non offende, non è insolente; non ha orgoglio, non prova invidia, non ricerca quel che le conviene, ecc. " (1 Co. 13.4). Se anche ci fosse soltanto richiesto di non cercare il nostro vantaggio, dovremmo forzare parecchio la nostra natura, la quale ci spinge talmente all'amore di noi stessi da non tollerare facilmente che rimaniamo indifferenti a quel che è bene per noi, per vegliare su quel che giova agli altri, o piuttosto che abbandoniamo quel che ci spetta come diritto, per cederlo al nostro prossimo.
La Scrittura, per condurci a questo punto, ci indica che tutto quel che abbiamo ricevuto dalla grazia del Signore, ci è stato affidato alla condizione che lo diamo per il bene comune della Chiesa. L'uso legittimo di questa grazia consiste nel dare con amore e generosità ai nostri simili, e per rendere effettivo un tal dono non si poteva trovare regola migliore e più certa di quando è detto che tutto quel che abbiamo di buono ci è stato dato in custodia da Dio, a condizione che sia dispensato a vantaggio degli altri (1 Co. 12).
La Scrittura procede ancora, paragonando i doni che ognuno di noi riceve come proprietà a quel che ogni membro ha nel corpo umano. Nessun membro riceve per se le sue facoltà e non le applica a suo proprio uso, ma a vantaggio degli altri; non ne riceve alcuna utilità se non quella che deriva dal vantaggio diffuso in modo uniforme per tutto il corpo. Così il credente deve mettere tutte le sue facoltà a disposizione dei suoi fratelli, senza provvedere a se in particolare, ma tenendo sempre la sua intenzione rivolta alla comune utilità della Chiesa. Di conseguenza, applichiamo questa regola nel fare il bene e nell'esercitare la bontà: siamo dispensatori di tutto quel che il Signore ci ha dato, per poter aiutare il nostro prossimo, dovendo un giorno render conto di come avremo eseguito il nostro compito. Inoltre, non c'è altro modo di dispensare bene e rettamente quanto ci viene affidato, se non quello che si attiene alla regola della carità. Ne deriverà che non solo uniremo la cura di giovare al nostro prossimo alla sollecitudine con cui cercheremo il nostro vantaggio, ma assoggetteremo il nostro interesse a quello degli altri.
Di fatto il Signore, per indicarci che quello è il modo di amministrare bene e con rettitudine quel che ci dà, l'ha raccomandato fin dai tempi antichi al popolo di Israele, di fronte ai più piccoli benefici che gli concedeva. Ha ordinato che i primi frutti del nuovo raccolto gli venissero offerti (Es. 22.29; 23.19) affinché il popolo attestasse in tal modo che non gli era lecito percepire alcun frutto dai beni, senza averli consacrati al Signore. Se i doni di Dio sono per noi santificati dopo che glieli abbiamo consacrati con la nostra mano, è chiaro che non v'è che abuso condannabile quando questa consacrazione non ha luogo. D'altra parte, sarebbe follia il cercar di arricchire Dio comunicandogli delle cose che abbiamo in mano. Poiché la nostra beneficenza non può dunque arrivare fino a lui, come dice il Profeta, la dobbiamo esercitare verso i suoi servitori, che si trovano nel mondo (Sl. 16.3). Pertanto le elemosine sono paragonate a oblazioni sante, per indicare che sono esercizi che corrispondono, ora, all'osservanza antica che vigeva sotto la Legge, osservanza di cui ho parlato poc'anzi (Eb. 13.16; 1/ Corinzi 9.5).
6. Inoltre, affinché non ci stanchiamo di fare il bene (cosa che altrimenti avverrebbe ad ogni istante) , ci dobbiamo ricordare di quanto aggiunge l'Apostolo: che la carità è paziente e non si irrita facilmente (1 Co. 13.4). Il Signore ordina, senza eccezione, di fare il bene a tutti, ma la maggior parte delle persone ne e indegna, se le valutiamo secondo i loro meriti. La Scrittura ci previene, ammonendoci che non dobbiamo considerare quel che gli uomini meritano di per se, ma piuttosto che dobbiamo prendere in considerazione l'immagine di Dio in tutti e ad essa dobbiamo ogni onore e amore. In particolare la dobbiamo riconoscere nella famiglia dei credenti (Ga 6.10) , in quanto essa e in loro rinnovata e restaurata dallo Spirito di Cristo.
Perciò a chiunque si presenti a noi, avendo bisogno del nostro aiuto, non avremo motivo di rifiutare il nostro impegno. Se lo consideriamo estraneo, il Signore gli ha impresso un segno che ci dev'essere familiare. Per questa ragione ci esorta a non disprezzare la nostra carne (Is. 58.7). Se adduciamo che è persona disprezzabile e di nessun valore, il Signore risponde dimostrandoci di averlo onorato Cl. far risplendere in lui la sua immagine. Se diciamo di non esser in nulla tenuti ad impegnarci nei suoi confronti, il Signore ci dice che lo sostituisce a se stesso, affinché riconosciamo verso costui i benefici che egli ci ha accordati. Se diciamo che non è degno che muoviamo un passo per lui, l'immagine di Dio, che dobbiamo contemplare in lui, è ben degna che ci esponiamo per lei con tutto ciò che è nostro. Quand'anche si trattasse di un uomo, che non solo non ha meritato nulla da noi, ma che anzi ci ha ingiuriati e oltraggiati molto, non sarebbe motivo sufficiente per smettere di amarlo, di fargli piacere e di rendergli servizio. Poiché se diciamo che ha meritato soltanto male da noi, Dio ci potrà chiedere quale male egli, dal quale riceviamo tutto il bene che abbiamo, ci ha fatto. Quando ci ordina di perdonare agli uomini le offese che ci hanno fatte (Lu 17.3) , egli le riceve su di sé.
Non c'è altra via per giungere a quel che non solo è difficile per la natura umana, ma le è assolutamente estraneo, anzi contrario, che cioè amiamo quelli che ci odiano, che rendiamo bene per male, che preghiamo per coloro che sparlano di noi (Mt. 5.44). Giungeremo, ripeto, a questo punto, se ci ricorderemo che non ci dobbiamo fermare alla cattiveria degli uomini, ma piuttosto contemplare in loro l'immagine di Dio, che per la sua eccellenza e dignità ci può e deve spingere ad amarli, e a cancellare tutti i peccati che ci potrebbero distogliere da ciò.
7. Questa mortificazione si compirà dunque in noi quando avremo un amore compiuto. Esso non consiste nell'adempiere tutti i compiti inerenti alla carità, ma nel compierli con un vero sentimento di amore.
Potrà accadere che uno faccia al suo prossimo tutto quel che gli deve, per quanto concerne il dovere esteriore, senza per questo aver compiuto il suo dovere come gli si addice. Molti di quelli che vogliono esser considerati generosi non danno nulla senza farlo sentire, o con un viso altero o con parole superbe. Attualmente siamo giunti al punto, che la maggior parte della gente non fa alcuna elemosina se non con disprezzo; perversità, questa, che non doveva essere tollerabile neanche fra i pagani.
Il Signore chiede ai cristiani più che un viso gioioso e allegro, affinché rendano piacevole per bontà e dolcezza la loro beneficenza. Anzitutto, bisogna che assumano in loro la persona di colui che necessita di soccorso, che abbiano pietà della sua sorte come se fossero loro a sentirla e a sopportarla, e che siano spinti ad aiutarlo dallo stesso sentimento di misericordia che avrebbero per se stessi. Colui che avrà un tal modo di sentire, nel far piacere ai suoi fratelli non solo non contaminerà la sua beneficenza con arroganza o rimproveri, né disprezzerà, a causa della sua indigenza, colui al quale fa del bene, né lo vorrà soggiogare come se questi gli fosse obbligato; non più di quanto non insultiamo una delle nostre membra, quando tutto il resto del corpo lavora per rinvigorirla, e non pensiamo che sia particolarmente obbligata alle altre membra, per aver chiesto loro più cure di quante ne abbia avute per loro. Che le membra comunichino reciprocamente non pare gratuito, ma piuttosto un pagare e un soddisfare quel che è dovuto per legge di natura; né si potrebbe rifiutare senza considerare motivo di orrore un tal rifiuto.
Così, contrariamente al parere comune, non ci parrà di essere scaricati e di aver compiuto quel che dobbiamo quando, su qualche punto, avremo fatto il nostro dovere. Quando infatti un uomo ricco ha dato qualcosa di suo, tralascia tutti gli altri oneri e se ne esenta, come se non lo concernessero affatto. Al contrario, ognuno riterrà di essere debitore verso i suoi simili di tutto quel che ha e di tutto ciò che può, senza in altro modo limitare l'obbligo di far loro del bene, se non quando gliene manca là possibilità, la quale finché si può estendere deve uniformarsi all'amore.
8. Riferiamoci ancora all'altra parte della rinuncia a noi stessi, quella che concerne Dio. Ne abbiamo già parlato qua e là e sarebbe superfluo ripetere tutto quel che è stato detto. Basterà indicare come essa ci deve disporre alla mansuetudine.
In primo luogo, dunque, nel presentarci il modo di vivere in riposo e serenità, la Scrittura ci conduce sempre ad abbandonarci a Dio con tutto ciò che ci appartiene, a sottomettergli gli affetti del nostro cuore per domarlo o soggiogarlo.
La nostra è una intemperanza furiosa e una cupidigia sfrenata nel desiderare stima e onori, nel cercare potenza, nell'accumulare ricchezza, nel raccogliere tutto quel che ci pare proprio a conferire pompa e magnificenza. D'altra parte temiamo e odiamo stranamente la povertà, la piccolezza e l'ignominia, evitandole di conseguenza con tutti i mezzi. Perciò vediamo l'inquietudine di spirito in cui si dibattono tutti coloro che orientano la loro vita secondo il loro desiderio, quanti mezzi tentano, in quanti modi si tormentano per giungere là dove la loro ambizione e avarizia li trasporta e per evitare la povertà o una bassa condizione.
Ecco perché i credenti, per non lasciarsi avvolgere in tali reti, dovranno seguire quest'altra via. Anzitutto, non devono desiderare o sperare o immaginare altro mezzo per raggiungere la prosperità all'infuori della benedizione di Dio, su cui devono poggiare con sicurezza riposandovisi. Quantunque sembri che da per noi stessi siamo capaci di raggiungere il nostro scopo quando aspiriamo ad onori e ricchezze con la nostra abilità, con i nostri sforzi o perché aiutati dal favore degli uomini, è certo tuttavia che tutte queste cose non sono nulla, e che non potremo mai trarne alcun vantaggio né con la nostra abilità né con il nostro lavoro, se non nella misura in cui il Signore farà trarre vantaggio all'uno e all'altro. Al contrario, la sua sola benedizione si farà strada in mezzo a tutti gli impedimenti, per darci un buon risultato in ogni cosa.
Infine, quand'anche potessimo senza di lei acquistare qualche onore o ricchezza (poiché ogni giorno vediamo i malvagi giungere a grandi ricchezze e a buone posizioni) tuttavia poiché là dove regna la maledizione di Dio non è possibile godere di un sol briciolo di felicità se la sua benedizione non è su noi, non otterremo nulla che non si volga a nostra infelicità. Sarebbe grande follia il desiderare quello che non ci può che rendere infelici.
9. Se dunque crediamo che ogni mezzo di prosperare riposa nella sola benedizione di Dio, e che senza di lei ogni miseria e calamita ci attendono, è nostro compito non aspirare con troppa cupidigia a ricchezze e onori, confidando nella nostra abilità o diligenza, nel favore degli uomini o della fortuna, ma guardare sempre a Dio affinché, guidati da lui, siamo condotti alla condizione che gli parrà buona. Accadrà che non ci sforzeremo di attirare a noi le ricchezze, di rubare gli onori con mezzi leciti o illeciti, con violenza o astuzia, o con altri mezzi obliqui; ma cercheremo soltanto i beni che non ci distoglieranno dall'innocenza. Chi infatti spererà che la benedizione di Dio lo debba aiutare nel commettere frodi e rapine ed altre cattiverie? Essa non viene in aiuto se non a coloro che sono retti nei loro pensieri nelle loro opere: l'uomo che la desidera deve pertanto allontanarsi da ogni iniquità e cattivo pensiero.
Inoltre essa sarà come una briglia che ci frena, affinché non bruciamo di una disordinata cupidigia di arricchirci, e non cerchiamo ambiziosamente di elevarci. Che impudenza, pensare che Dio ci deve aiutare ad ottenere le cose che desideriamo contro la sua Parola! Mai aiuterà con la sua benedizione quel che maledice con la bocca!
Infine, quando le cose non accadranno secondo la nostra speranza ed il nostro augurio, la considerazione che sarebbe un mormorare contro Dio, per volontà del quale sono dispensati povertà e ricchezza, disprezzo e onori, ci impedirà di lasciarci andare all'impazienza, detestando la nostra condizione. Insomma, chiunque si affiderà alla benedizione di Dio (come è stato detto) , non aspirerà con mezzi malvagi e obliqui ad alcuna delle cose che gli uomini cercano con rabbiosa cupidigia, visto che egli saprà che questo mezzo non gli gioverebbe affatto. Se gli viene incontro qualche prosperità, non l'imputerà né alla sua diligenza né alla sua abilità né alla fortuna, ma riconoscerà che proviene da Dio. D'altra parte se non riesce a progredire molto, mentre gli altri si innalzano secondo il loro desiderio, o se gli accade di andare indietro, non smetterà di sopportare la sua povertà con pazienza e moderazione più di quanto un non credente si adatterebbe a ricchezze mediocri, inferiori al suo desiderio. Proverà un sollievo in cui potrà acquietarsi meglio che in tutte le ricchezze del mondo quand'anche le avesse radunate a sua disposizione: penserà cioè che tutte le cose sono stabilite da Dio così come giova alla sua salvezza. Vediamo che Davide ha avuto questa disposizione d'animo e, seguendo Dio e lasciandosi governare da lui, afferma di esser simile ad un fanciullo da poco svezzato, che non cammina in cose alte che sopraffanno la sua natura (Sl. 131.1).
10. I credenti non devono applicare tale pazienza e moderazione a questo punto soltanto, ma la devono estendere a tutti gli eventi ai quali la vita presente è sottomessa. Pertanto nessuno ha dovutamente rinunciato a se stesso, se non si è a tal punto abbandonato a Dio, da accettare volontariamente che tutta la vediamo considerando a quanti inconvenienti siamo soggetti. Mille malattie ci molestano assiduamente le une dopo le altre: la peste, la guerra, il gelo o la grandine che ci portano sterilità e ci minacciano di povertà; la morte ci fa perdere mogli, bambini ed altri parenti, e il fuoco può appiccarsi alla nostra casa. Queste cose fanno sì che gli uomini maledicano la loro vita, detestino il giorno della loro nascita, esecrino il cielo e la luce, accusino ingiustamente Dio; e poiché sono loquaci nel bestemmiare, lo accusano di ingiustizia e crudeltà.
Al contrario, il credente deve contemplare perfino in quelle cose la clemenza di Dio e la sua paterna benignità. Desolato dalla morte di tutti i suoi cari, malgrado la sua casa sia deserta non smetterà di benedire Dio, anzi penserà che, poiché la grazia di Dio abita nella sua casa, essa non la lascerà desolata. Che i suoi campi e le sue vigne siano rovinati e distrutti dal gelo, dalla grandine o da altra tempesta e che per questo motivo preveda un pericolo di carestia, non si perderà ancora d'animo e non si dimostrerà scontento di Dio, ma piuttosto persisterà in una ferma fiducia, dicendo in cuor suo: "Siamo pur sempre sotto la tutela del Signore, siamo le pecore del suo pascolo " (Sl. 79.13); per quanto grande sia la sterilità, egli ci darà sempre di che vivere. Pur sopportando l'afflizione di una malattia, non sarà abbattuto dal dolore al punto di lasciarsi andare all'impazienza e lamentarsi di Dio; piuttosto, considerando la giustizia e la bontà del Padre celeste che lo castiga, si ridurrà in questo modo alla pazienza. In breve, qualunque cosa accada, sapendo che tutto procede dalla mano del Signore, riceverà ogni cosa con cuore tranquillo e non ingrato, senza resistere alla volontà di colui al quale si è una volta affidato.
Soprattutto, stia lontana da un cuore cristiano la misera e ridicola consolazione dei pagani, di imputare alla sorte le avversità, per sopportarle con maggior pazienza. I filosofi si valgono infatti dell'argomento che sarebbe follia corrucciarsi contro la sorte temeraria e cieca, che getta i suoi dardi al volo, per ferire i buoni e i malvagi senza discernimento. Al contrario, la regola della pietà e che la sola mano di Dio conduce e regge la buona e la cattiva sorte, non secondo un impeto sconsiderato, ma dispensando il bene e il male secondo una giustizia ben ordinata.
CAPITOLO 8
IL SOPPORTARE PAZIENTEMENTE LA CROCE FA PARTE DELLA RINUNCIA A NOI STESSI
1. Bisogna che la disposizione d'animo del credente salga ancora più in alto: Cristo chiama tutti i suoi a portare la propria croce (Mt. 16.24). Tutti coloro che il Signore ha adottati e ricevuti come figli devono prepararsi ad una vita dura, travagliata, piena di tribolazioni e di mali di ogni genere. Piace al Padre celeste esercitare in questo modo i suoi servitori, al fine di metterli alla prova. Ha iniziato questo procedimento in Cristo, suo figlio primogenito, e lo prosegue nei confronti di tutti gli altri. Sebbene Cristo fosse il suo figlio prediletto nel quale sempre si è compiaciuto (Mt. 3.17; 17.5) , vediamo che non è stato trattato mollemente e con delicatezza in questo mondo; non solo ha sofferto costante afflizione, ma l'intera sua vita è stata una croce continua. L'Apostolo ne stabilisce la causa nella necessità che fosse istruito all'obbedienza da quel che ha sofferto (Eb. 5.8). Come dunque ci esenteremo dalla condizione cui è stato necessario che si sottomettesse Cristo il nostro capo, il quale vi si è sottomesso per causa nostra, al fine di darci esempio di pazienza? L'Apostolo insegna che Dio ha destinato tutti i suoi figli a questo scopo: renderli conformi a Cristo (Ro 8.29).
Ce ne deriva una singolare consolazione: sopportando tutte le miserie che chiamiamo avversità e malvagità, noi abbiamo comunione con la croce di Cristo affinché, come egli è entrato nella gloria celeste attraverso un abisso di male, anche noi vi perveniamo attraverso varie tribolazioni (At. 14.22). San Paolo ci insegna che quando sentiamo in noi una partecipazione alle afflizioni di Cristo, parimenti afferriamo la potenza della sua risurrezione; e quando siamo fatti partecipi della sua morte, questa è una preparazione per giungere alla sua gloriosa eternità (Fl. 3.10). Con quale efficacia questo addolcisce l'amarezza insita nella croce? Quanto più siamo afflitti e sopportiamo le sofferenze, con tanto maggior certezza la nostra comunione con Cristo riceve conferma; e quando abbiamo questa comunione con lui, le avversità non solo sono per noi benedette, ma ci sono di aiuto per far progredire di molto la nostra salvezza.
2. Il Signor Gesù non ha avuto bisogno di portare la croce e soffrire tribolazioni, se non per attestare e provare la sua obbedienza verso Dio suo padre; a noi invece è necessario, per parecchie ragioni, essere del continuo afflitti in questa vita.
Anzitutto, essendo per natura troppo inclini ad esaltarci e ad attribuirci ogni cosa, se la nostra debolezza non ci è messa sotto gli occhi noi subito valutiamo oltre misura la nostra forza, e non esitiamo a crederla invincibile contro tutte le difficoltà che potremmo incontrare. Ne deriva che ci innalziamo in una vana e folle fiducia della carne, la quale poi ci incita ad inorgoglirci contro Dio, come se la nostra capacità ci fosse sufficiente senza la sua grazia. Non può fiaccare in modo migliore questo orgoglio se non mostrandoci, con l'esperienza, quanta debolezza e quanta fragilità sono in noi. Ecco perché ci affligge, con umiliazione o povertà, con malattia, con perdita di parenti o con altre calamità alle quali, per quanto ci concerne, soccombiamo istantaneamente perché non abbiamo in noi la forza di sopportarle. Umiliati, impariamo allora ad implorare la sua potenza che sola ci permette di resistere e star saldi sotto il peso di quei fardelli.
Anche i più santi, pur sapendo che la loro stabilità è fondata sulla grazia di Dio e non sulle loro forze, sarebbero ancora eccessivamente consci della propria capacità e costanza se il Signore non li conducesse ad una più autentica conoscenza di se, mettendoli alla prova per mezzo della croce. Davide stesso fu vittima di una tal presunzione, e reso come insensato, secondo quanto egli stesso confessa: "Ho detto nella mia sicurezza: Non sarò mai scosso. O Dio, tu avevi reso forte il mio monte, perché così ti piaceva; tu hai nascosto il tuo volto, e sono stato spaventato " (Sl. 30.7e ). Egli riconosce che la prosperità ha inebetito e abbrutito tutti i suoi sensi al punto che, senza curarsi della grazia di Dio da cui doveva dipendere, ha voluto confidare in se stesso, e ha osato promettersi stabilità. Se ciò è accaduto ad un così grande profeta, chi di noi non temerà e non starà in guardia? Finché ogni cosa va per il suo verso si ingannano considerandosi capaci di grande forza e costanza, dopo essere stati colpiti dalla prova si rendono conto di quanto fosse ipocrita il loro atteggiamento.
In questo modo dunque i credenti devono essere consapevoli delle proprie debolezze, al fine di fortificarsi nell'umiltà e di spogliarsi da ogni perversa fiducia della carne, per sottoporsi completamente alla grazia di Dio. Allora sentono che la sua potenza è presente ed in questa trovano sufficiente garanzia di sicurezza.
3. È quanto insegna san Paolo dicendo che dalla tribolazione nasce la pazienza, e dalla pazienza l'esperienza (Ro 5.3). Avendo il Signore promesso a coloro che credono in lui di assisterli nelle tribolazioni, sentono che ciò si avvera quando rimangono saldi nella pazienza, sostenuti dalla sua mano; non lo potevano fare con le loro forze. La pazienza reca dunque ai santi l'esperienza del fatto che Dio dà veramente il soccorso che ha promesso, quando è necessario. La loro speranza è in tal modo confermata, poiché sarebbe somma ingratitudine il non credere per l'avvenire nella veracità di Dio, già sperimentata come sicura ed immutabile.
Vediamo dunque quale serie ininterrotta di vantaggi derivano dalla croce. Rovesciando la falsa opinione che la nostra natura alimenta riguardo alla sua potenza, e scoprendo la nostra ipocrisia che ci seduce ed inganna con le sue lusinghe, essa fiacca la pericolosa presunzione della nostra carne. Avendoci umiliati, ci insegna così a riposare in Dio, nostro fondamento, che non ci lascia soccombere né perdere coraggio. Da questa vittoria scaturisce la speranza in quanto il Signore, compiendo quel che ha promesso, garantisce per l'avvenire la sua verità.
Quand'anche si limitasse a questo, è chiaro quanto la prova della croce ci è necessaria. Non è vantaggio trascurabile che sia eliminato l'amore di noi stessi, che ci acceca, sì che prendiamo veramente coscienza della nostra debolezza; che ne abbiamo coscienza per imparare a diffidare di noi stessi; che diffidiamo di noi stessi, onde trasferiamo la nostra fiducia in Dio; che ci appoggiamo su Dio con sicura fiducia di cuore onde, per mezzo del suo aiuto, perseveriamo vittoriosi fino alla fine; che dimoriamo con fermezza nella sua grazia, affinché sappiamo che egli e verace e fedele nelle sue promesse; che ci diventi chiara la certezza delle sue promesse, affinché la nostra speranza ne riceva conferma.
4. Il Signore ha un altro motivo per affliggere i suoi servitori: mettere alla prova la loro pazienza ed educarli all'obbedienza; non che possano avere altra obbedienza all'infuori di quella che ha dato loro; ma gli piace indicare così e attestare i doni che ha messo in coloro che credono in lui, affinché questi doni non rimangano oziosi e nascosti nei credenti. Quando dunque evidenzia la forza e la costanza di soffrire che ha dato ai suoi servi, è detto che mette alla prova la loro pazienza. Di qui il modo di dire: egli ha messo alla prova Abramo ed ha conosciuto la sua pietà, per il fatto che questi non ha rifiutato di immolare il suo figlio per compiacergli (Ge 22.1.12). Anche san Pietro dice che la nostra fede è provata dalla tribolazione, come l'oro è vagliato nella fornace (1 Pi. 1.7). Chi negherà che un dono così eccellente, fatto dal Signore ai suoi servi, debba essere messo in uso per esser reso noto e manifesto? Altrimenti non lo si valuterebbe mai come gli si addice. Se il Signore ha un giusto motivo per dar corpo alle forze che ha posto nei suoi credenti, e le mette in luce onde non rimangano nascoste e non siano inutili, non senza ragione manda le afflizioni, senza le quali la loro pazienza sarebbe nulla. Dico pure che con questo mezzo li istruisce all'obbedienza, poiché così imparano a vivere non secondo il loro desiderio ma secondo quanto piace a Dio. Se ogni cosa accadesse loro come la chiedono, non saprebbero che cosa significhi seguire Dio.
Seneca, filosofo pagano, dice che secondo un antico proverbio quando si voleva esortare qualcuno a sopportare pazientemente le avversità, ci si serviva dell'espressione: bisogna seguire Dio. Intendevano dire che l'uomo si sottomette al giogo del Signore allorché si lascia castigare, e presta volontariamente la mano e la schiena alle sue punizioni. Se è ragionevole che prestiamo in tutti i modi obbedienza al Padre celeste, non dobbiamo rifiutare che ci educhi, in ogni maniera, all'obbedienza.
5. Non avremmo ancora inteso quanto l'obbedienza ci è necessaria, se non avessimo coscienza di quanto la nostra carne sia pronta a respingere il giogo del Signore, non appena essa è trattata con un po' di delicatezza. Ci accade come ai cavalli ribelli che, dopo esser stati qualche tempo nella stalla oziosi e ben pasciuti, non si lasciano poi domare, e non riconoscono il loro padrone dal quale prima si lasciavano condurre. In breve, quel che è accaduto al popolo di Israele e di cui il Signore si lamenta, si riscontra di solito in tutti gli uomini: ingrassati con un troppo dolce nutrimento, essi si ribellano a colui che li ha nutriti (De 32.15). Era opportuno, certo, che la benevolenza di Dio ci conducesse a valutare e amare la sua bontà, dato però che la nostra ingratitudine è tale che la dolcezza e un trattamento generoso rischiano di corromperci anziché incitarci al bene, è più che necessario che ci tenga in pugno e ci sottometta ad una certa disciplina per evitarci di finire in una simile petulanza.
Affinché non insuperbiamo per troppo grande abbondanza di beni, gli onori non ci inorgogliscano, i doni che abbiamo, sia fisici sia spirituali, non generino orgoglio ed eccessi in noi, il Signore ci previene e mette ordine, frenando e domando Cl. rimedio della croce l'insolenza della nostra carne, in modi diversi, secondo quanto ritiene giovevole e salutare per ciascuno. Non siamo, né gli uni né gli altri, malati nella stessa misura né di una medesima malattia: non è dunque necessario che la cura sia identica per tutti. Questa è la ragione per cui esercita gli uni con un tipo di croce, gli altri con un altro. Pur volendo provvedere alla salute di tutti, usa nei riguardi degli uni, una medicina più dolce, una più aspra e rigorosa verso gli altri, senza però lasciarne privo neanche uno, sapendo che tutti sono malati.
6. È anche necessario che il nostro buon Padre non solo prevenga la nostra infermità per il futuro, ma altrettanto spesso corregga i nostri errori passati per mantenerci obbedienti a lui. Di conseguenza, appena abbiamo qualche afflizione, ci dobbiamo ricordare della nostra vita passata. Così facendo, scopriremo senz'altro di aver commesso qualche errore degno di un tal castigo, anche se non dobbiamo attingere dalla coscienza del nostro peccato l'argomento principale per esortarci alla pazienza; la Scrittura ci dà in mano una ben migliore considerazione dicendo che il Signore ci corregge per mezzo delle avversità, per non condannarci con questo mondo (1 Co. 11.32).
Dobbiamo dunque riconoscere la clemenza e la benignità del nostro Padre in mezzo all'amarezza più grande insita nelle tribolazioni, poiché neanche così cessa di far progredire la nostra salvezza. Ci affligge, non per perderci o rovinarci, ma per liberarci dalla condanna di questo mondo. Un tal pensiero ci condurrà a quel che la Scrittura ci insegna altrove, quando dice: "Figlio mio, non respingere la correzione del Signore e non offenderti quando egli ti riprende, poiché Dio corregge coloro che ama, e li circonda di affetto come suoi figli " (Pr 3.2). Quando udiamo dire che le sue correzioni sono come il bastone paterno, non è forse nostro dovere diventare figli docili piuttosto che, con la nostra resistenza, seguire la gente senza speranza, indurita nei suoi misfatti? Il Signore ci perderebbe se non ci attirasse a se mediante correzioni, quando abbiamo sbagliato. Come ben dice l'Apostolo: "Siamo figli bastardi, non legittimi, se egli non ci tiene sotto la sua disciplina " (Eb. 12.8). Siamo dunque troppo perversi se non lo sappiamo sopportare, quando ci dichiara la sua benevolenza e la cura che ha della nostra salvezza.
La Scrittura nota questa differenza fra increduli e credenti: i primi, alla maniera dei servi antichi, di natura perversa, non fanno che peggiorare e indurirsi sotto la frusta; i secondi traggono giovamento, si pentono e si correggono, come figli ben disposti. Scegliamo dunque dalla parte di chi vogliamo stare. Questo argomento essendo stato trattato altrove, Ci basti averlo menzionato qui.
7. La consolazione maggiore consiste nel sopportare la persecuzione a motivo di giustizia. Ci dobbiamo allora ricordare quale onore ci è fatto dal Signore, nell'affidarci le insegne del suo esercito.
Definisco persecuzione per la giustizia non solo il soffrire per la difesa dell'Evangelo, ma altresì di ogni giusta causa. Sia dunque che ci tocchi incorrere nell'odio e nell'indignazione del mondo per difendere la verità di Dio contro le menzogne di Satana, oppure per sostenere gli innocenti contro i malvagi e impedire che si faccia loro torto o ingiustizia, mettendo così in pericolo il nostro onore, i nostri beni o la nostra vita, non ci dispiaccia questo impegno totale al servizio di Dio, e non riteniamoci infelici, quando egli stesso ci dichiara beati (Mt. 5.10). È pur vero che la povertà, considerata in se stessa, è miseria; così pure l'esilio, il disprezzo, l'ignominia, la prigione; e infine la morte, che è l'estrema calamità. Ma laddove Dio è presente Cl. suo favore, nessuna di queste cose accade senza volgersi a nostro beneficio e a nostra felicità.
Accontentiamoci dunque della testimonianza di Cristo piuttosto che di una falsa opinione della nostra carne: così accadrà che sull'esempio degli apostoli, ci rallegreremo tutte le volte che egli ci riterrà degni di sopportare obbrobrio per il suo nome (At. 5.41). Se, innocenti e di buona coscienza, siamo spogliati dei nostri beni dalla cattiveria degli iniqui, siamo sì impoveriti di fronte agli uomini, ma in quel modo le vere ricchezze aumentano per noi presso Dio, in cielo. Se siamo cacciati e banditi dal nostro paese, siamo tanto più prontamente accolti nella famiglia del Signore. Se, vessati e molestati, facciamo ricorso alla fede nel nostro Signore, tanto più siamo confermati in essa. Se riceviamo obbrobrio e ignominia, tanto più siamo esaltati nel regno di Dio. Se siamo uccisi, ci si apre davanti la vita beata. Non sarebbe per noi gran vergogna stimare le cose a cui il Signore ha dato tanto prezzo meno delle delizie di questo mondo che svaniscono come fumo?
8. Confortandoci così la Scrittura in ogni ignominia e calamità che abbiamo da sopportare per la difesa della giustizia, siamo troppo ingrati se non le accettiamo pazientemente e con cuore allegro; tanto più che questo tipo di croce è proprio dei credenti, e per mezzo suo Cristo vuol essere glorificato in loro, come dice san Pietro (1 Pi. 4.12e ). Essendo per gente fiera e coraggiosa più difficile e penoso sopportare l'umiliazione della morte, san Paolo ci ricorda che, se speriamo in Dio, non solo saremo soggetti a persecuzioni, ma anche a vituperio (1 Ti. 4.10). Altrove ci esorta Cl. suo esempio a camminare nell'infamia come nell'apprezzamento (2 Co. 6.8).
Dio non ci richiede un'allegrezza tale da togliere ogni amarezza al dolore, altrimenti la sopportazione della croce da parte dei santi sarebbe nulla, se non fossero tormentati dal dolore, e non provassero angoscia quando si fa loro qualche torto. Similmente, se la povertà non fosse per loro dura e penosa, se non sopportassero qualche tormento nelle malattie, se l'ignominia non li pungesse, se non avessero in orrore la morte, quale forza o moderazione ci sarebbe nel disprezzare tutte queste cose? Ognuna di esse comporta un'amarezza che per natura punge i cuori di noi tutti, perciò la forza di un credente si dimostra nel fatto che, messo alla prova da questo dolore, pur soffrendo gravemente, tuttavia resiste, la sormonta e riesce a superarla. La sua sopportazione si palesa quando, stimolato da quello stesso sentimento, è tuttavia frenato dal timor di Dio come da una briglia, senza lasciarsi andare a qualche irritazione o altro eccesso. La sua gioia e allegrezza sono visibili quando, oppresso da tristezza e dolore, si sottomette tuttavia alla consolazione che proviene dallo Spirito di Dio.
9. La lotta, che con pazienza e moderazione i credenti sostengono contro il sentimento naturale del dolore, è molto ben descritta da san Paolo: "Noi sopportiamo tribolazione in ogni cosa, ma non siamo in distretta; sopportiamo la povertà, ma non siamo dimenticati; sopportiamo la persecuzione, ma non siamo abbandonati; siamo come abbattuti, ma non periamo " (2 Co. 4.8).
Portare pazientemente la croce non significa essere completamente insensibili e non provare alcun dolore; in passato i filosofi stoici pazzescamente definivano magnanimo un uomo che, essendosi spogliato della sua umanità, non era toccato né da avversità né da prosperità, né da cose tristi né da cose gaie, era insomma privo di reazioni, come una pietra. Che vantaggio hanno tratto da così alta saggezza? Hanno dipinto una immagine di sopportazione, mai vista fra gli uomini ed inesistente; anzi, volendo avere una pazienza troppo perfetta, ne hanno tolto l'uso fra gli uomini. Ci sono, ora, dei nuovi stoici anche fra i cristiani, i quali pensano che sia peccato non solo il gemere e il piangere, ma anche il contristarsi e l'essere tormentati. Queste opinioni paradossali procedono per lo più da gente oziosa che, esercitandosi a speculare piuttosto che a fare, non può che inventare simili fantasie.
Per parte nostra non sappiamo che fare di questa filosofia così ascetica e rigorosa, che il nostro Signor Gesù ha condannato non solo a parole, ma anche Cl. suo esempio. Poiché egli ha conosciuto gemito e pianto, sia per il suo dolore, sia perché ebbe pietà degli altri, e non ha insegnato ai suoi discepoli ad agire in modo diverso. "Il mondo "dice "si rallegrerà, e voi sarete presi da tristezza; riderà, e voi piangerete " (Gv. 16.20). E affinché non lo si considerasse peccato, dichiara felici coloro che piangono (Mt. 5.4). Questo non stupisce: se si dIs.pprovano tutte le lacrime, che diremo del Signore Gesù dal cui corpo caddero una dopo l'altra gocce di sangue? (Lu 22.44). Se si taccia di incredulità ogni spavento, che cosa penseremo dell'orrore da cui fu colto? Se ogni tristezza ci dispiace, come accetteremo che la sua anima sia triste fino alla morte, come dichiara egli stesso?
10. Ho voluto dire queste cose per allontanare dalla disperazione tutti i cuori pii, affinché non rinuncino all'esercizio della pazienza, anche se non sono adatto liberati dal sentimento naturale del dolore. Coloro i quali scambiano la pazienza con l'insensibilità, facendo di un uomo forte e costante un tronco di legno, perdono coraggio e si disperano non appena vogliono esercitarsi nella pazienza. La Scrittura, al contrario, definisce pazienti i santi quando, afflitti dalla durezza dei loro mali, non ne sono tuttavia colpiti al punto di venir meno; quando, punti dall'amarezza, provano contemporaneamente gioia spirituale; quando, incalzati dall'angoscia, non per questo cessano di respirare, rallegrandosi nella consolazione di Dio. Ma nei loro cuori avviene una lotta: il senso naturale fugge e ha in orrore tutto quel che gli è contrario; d'altra parte, il sentimento di pietà li conduce ad obbedire alla volontà di Dio anche attraverso queste difficoltà.
È la lotta a cui Gesù Cristo si riferisce parlando a san Pietro: "Quando eri giovane, ti cingevi da solo e camminavi dove ti pareva; quando sarai vecchio, un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorrai " (Gv. 21.18). Non è certo verosimile che san Pietro, dovendo glorificare Dio con la morte, sia stato trascinato a questo passo per costrizione e suo malgrado; altrimenti il suo martirio non avrebbe gran valore. Ma, per quanto ottemperasse all'ordine di Dio con cuore libero e allegro, per il fatto che non si era spogliato della sua umanità, era diviso in un duplice volere. Quando considerava la morte cruenta che doveva soffrire, spaventato dall'orrore, sarebbe volentieri fuggito. D'altra parte, quando considerava che vi era chiamato per ordine di Dio, vi si presentava volentieri ed anzi gioiosamente, vincendo ogni timore.
Se dunque vogliamo essere discepoli di Cristo, dobbiamo sforzarci a che i nostri cuori siano ripieni di un tal timore ed ubbidienza a Dio, da poter domare e soggiogare tutti i sentimenti contrari al suo volere. Ne deriverà che, in qualunque tribolazione ci troviamo, per quanto grande sia l'infelicità che il nostro cuore può provare, non cesseremo di avere costantemente pazienza. Le avversità ci intaccheranno sempre con la loro acredine: per questa ragione, afflitti dalla malattia, gemeremo e ci lamenteremo e desidereremo la salute; incalzati dalla povertà, saremo punti da perplessità e timore. E l'ignominia, il disprezzo ed ogni altra ingiuria ci strazieranno il cuore. Quando qualche nostro parente morirà, daremo alla natura le lacrime che le sono dovute. Ma verremo sempre alla conclusione: Dio l'ha voluto, seguiamo la sua volontà. Anzi bisogna che questo pensiero intervenga, fra le fitte del dolore, le lacrime ed i gemiti, per ricondurre il nostro cuore a sopportare gioiosamente le cose da cui è in tal modo contristato.
11. Avendo dedotto dalla considerazione della volontà di Dio la ragione principale del sopportare bene la croce, bisogna definire brevemente quale differenza corra fra la pazienza cristiana e la pazienza filosofica.
Pochi sono i filosofi saliti così in alto da capire che gli uomini sono messi alla prova dalla mano di Dio mediante afflizioni e che, di conseguenza, su questo punto dobbiamo ottemperare alla sua volontà. Ma anche quelli che sono arrivati a comprenderlo non sanno trovare altra ragione se non che questo è inevitabile. Ragionare così non significa forse sostenere che bisogna sottomettersi a Dio, perché invano ci si sforzerebbe di resistergli? Infatti, se obbediamo a Dio soltanto perché è inevitabile, non appena potremo fuggire, cesseremo di obbedirgli. La Scrittura vuole che sappiamo vedere altro nella volontà di Dio: anzitutto la sua giustizia ed equità, poi la cura che ha della nostra salvezza.
Le esortazioni cristiane sono dunque queste: se povertà, esilio, prigione, obbrobrio, malattia, perdita di parenti o altra avversità ci tormenta, dobbiamo pensare che nessuna di queste cose accade se non per volere e provvidenza del Signore; inoltre, che egli non fa nulla se non per una giustizia ordinata a buon fine. Che dunque? I peccati che quotidianamente commettiamo non meritano forse di essere puniti centomila volte più aspramente e con severità maggiore di quella di cui si vale? Non è forse giusto che la nostra carne sia domata, e come abituata al giogo, affinché non si perda in intemperanze come sarebbe portata per natura a fare? La giustizia e la verità di Dio non sono forse ben degne che soffriamo per loro? Se la giustizia di Dio appare con evidenza in tutte le nostre afflizioni, non possiamo mormorare né ribellarci senza commettere iniquità. Non intendiamo qui riferirci a quella fredda cantilena dei filosofi, secondo la quale ci si deve sottomettere in quanto è inevitabile; ma ci riferiamo ad un insegnamento vivo ed efficace secondo il quale bisogna ubbidire perché non è lecito resistere; bisogna aver pazienza perché l'impazienza è una rivolta contro la giustizia di Dio. Ma poiché nulla è per noi veramente piacevole all'infuori di ciò che sappiamo esserci buono e salutare, il padre di misericordia ci consola in quanto afferma che, affliggendoci con una croce, provvede alla nostra salvezza. Se le tribolazioni sono per noi salutari, perché non le riceveremmo con cuore tranquillo anziché ingrato? Poiché sopportandole con pazienza non soccombiamo alla necessità, ma assentiamo al nostro bene. Queste considerazioni, dico, faranno sì che quanto più il nostro cuore sarà oppresso dalla tristezza naturale della croce, tanto più sarà dilatato da gioia spirituale. Da ciò deriverà pure l'azione di grazia, che non può essere senza gioia. Se la lode del Signore e le azioni di grazia non possono uscire che da un cuore gioioso e allegro, e se nulla al mondo le deve impedire, è evidente quanto sia necessario che l'amarezza insita nella croce venga temperata da gioia spirituale.
CAPITOLO 9
MEDITAZIONE SULLA VITA FUTURA
1. Qualunque sia il tipo di tribolazione da cui siamo afflitti, dobbiamo sempre volgerle a questo fine: imparare a disprezzare la vita presente per essere in tal modo incitati a meditare sulla vita futura. Il Signore sa molto bene che amiamo questo mondo di un amore cieco, anzi assoluto; egli si vale dunque di un mezzo radicale, atto ad allontanarcene e a scuotere la nostra pigrizia, per impedire al nostro cuore di radicarsi eccessivamente in questo amore assurdo.
Tutti, certo, vogliono far credere che durante tutta la vita hanno desiderato l'immortalità celeste, e si sono sforzati di ottenerla; ci vergogneremmo, infatti, di non aver nulla di diverso dalle bestie, la cui condizione non sarebbe per niente inferiore alla nostra qualora non avessimo la speranza dell'eternità dopo la morte. Se si esaminano però i proponimenti, le decisioni, le imprese e le opere di ognuno, non risulterà esserci altra presenza all'infuori della terra. Questa insensibilità deriva dal fatto che il nostro intelletto è come abbagliato dal vano risplendere delle ricchezze, degli onori e dei poteri, nel loro aspetto esteriore, e non può pertanto guardare oltre. Parimenti il nostro cuore, ripieno di avarizia, di ambizione e di altre malvagie concupiscenze, è talmente legato qui in basso, da non poter guardare più in alto. Infine, tutta quanta l'anima, avvolta e come impastoiata nei piaceri della carne, cerca la sua felicità su questa terra.
Per ovviare a questo male, il Signore insegna ai suoi servitori la vanità della vita presente mettendoli del continuo alla prova con diverse afflizioni. Perché non si ripromettano pace e riposo dalla vita presente, egli permette che questa sia spesso inquietata e molestata da guerre, tumulti, brigantaggi o altre sciagure. Affinché non aspirino con troppo grande cupidigia alle ricchezze caduche, o confidino in quelle che possiedono, li riduce in povertà sia rendendo sterile la terra, sia per mezzo del fuoco, o in altro modo ancora; oppure li mantiene nella mediocrità. Affinché non prendano troppo gusto al matrimonio, dà loro delle mogli difficili e di cattivo carattere che li tormentano, o dei figli malvagi che li umiliano, oppure li affligge togliendo loro mogli e figli. Se pure li tratta con dolcezza in tutte queste cose, affinché non si inorgogliscano di vana gloria e si elevino in un sentimento di sconsiderata fiducia, li avverte per mezzo di malattie e pericoli mettendo loro davanti agli occhi la fragilità e la breve durata di tutti i beni soggetti a morte.
Di conseguenza, traiamo grande vantaggio nella disciplina della croce, allorché impariamo che la vita presente, considerata di per se, è piena di inquietudini, di disordini e di miserie, e non è felice in alcun frangente; che tutti i suoi beni da noi stimati sono di breve durata ed incerti, frivoli e mischiati a infinite tribolazioni. Ne deduciamo pertanto che non bisogna cercare né sperare quaggiù altro che lotta; quando è questione della nostra corona, dobbiamo innalzare gli occhi al cielo. : È infatti indubbio che il nostro cuore non si volgerebbe mai spontaneamente al desiderio ed alla meditazione della vita futura, se non fosse dapprima mosso dal disprezzo per la vita terrena.
2. Non c'è via di mezzo fra questi due estremi: o la terra è da noi considerata con disprezzo, oppure ci tiene legati a se con un amore assoluto. Perciò, se abbiamo qualche pensiero di immortalità, dobbiamo cercare diligentemente di liberarci da codesti vincoli malvagi. Poiché la vita presente offre sempre una gran quantità di piaceri per attrarci, e possiede un'apparenza di grande amenità, di grazia e di dolcezza per allettarci, ci è ben d uopo esserne allontanati di ora in ora per non essere ingannati e come stregati da tali adulazioni. Infatti, che cosa accadrebbe, vi prego, se godessimo qui di una perenne felicità, visto che, neppure così, spinti assiduamente da tanti sproni, prendiamo in dovuta considerazione la nostra miseria? Non i saggi soltanto sanno che la vita umana è simile ad un'ombra o ad un fumo: è un proverbio frequente anche fra il popolo. Essendo ritenuta verità molto utile da conoscere, la si è espressa in molti bei pensieri; non c'è però cosa al mondo che consideriamo con minor attenzione o che dimentichiamo più facilmente; ci impegniamo infatti in tutte le nostre imprese come se dovessimo costruire la nostra immortalità su questa terra. Se si seppellisce un morto o se ci troviamo in un cimitero, quando cioè abbiamo davanti agli occhi un'immagine esplicita di morte, siamo capaci di riflessioni filosofiche eccellenti sulla fragilità della vita; anche se questo non accade sempre perché talvolta queste cose non ci commuovono affatto! Ma si tratta, quando ciò accade, di una filosofia passeggera che svanisce non appena abbiamo voltato la schiena, e di cui non rimane alcun ricordo; in breve, essa passa come un applauso a teatro. Avendo dimenticato non solo la morte, ma anche la nostra condizione di mortali, come se non ne avessimo mai udito parlare, ricadiamo in una assurda ed eccessiva fiducia nell'immortalità terrena. Qualcuno ci ricorda l'antico proverbio: l'uomo è animale d'un giorno? lo approviamo, ma in modo così meccanico che rimane sempre fissa nel nostro cuore l'idea di vivere perennemente quaggiù.
Chi dunque negherà che ci è estremamente necessario essere ammoniti e convinti, attraverso il maggior numero possibile di esperienze, di quanto sia infelice la condizione dell'uomo relativamente alla vita di questo mondo, visto che, pur essendone convinti, ci è così difficile smettere di ammirarla fino ad esserne storditi, come se contenesse in se ogni felicità? Se è necessario che il Signore ci istruisca in questo modo, il nostro compito è di ascoltare i suoi rimproveri, per mezzo dei quali scuote la nostra indifferenza affinché, disprezzando il mondo, aspiriamo con tutto il nostro cuore alla meditazione della vita futura.
3. I credenti devono abituarsi a un disprezzo della vita presente, che però sia tale da non generare odio per essa, né ingratitudine verso Dio. Benché questa vita sia cosparsa di infinite tribolazioni, a buon diritto è annoverata fra le benedizioni di Dio, le quali non sono da disprezzare. Se non riconoscessimo alcun dono di Dio in essa, saremmo colpevoli di grande ingratitudine Essa deve essere una testimonianza della benevolenza del Signore per i credenti, visto che è interamente destinata a far progredire la loro salvezza. Il Signore, infatti, prima di rivelarci appieno l'eredità della gloria immortale, vuole rivelarsi a noi quale Padre nelle cose minime: nei benefici che riceviamo giornalmente dalla sua mano.
Se questa vita ci serve a capire la bontà di Dio, non la terremo dunque in nessun conto, come se non avesse in se alcun bene? Dobbiamo dunque avere un sentimento e una disposizione d'animo tali da reputarla un dono della benignità divina, da non rifiutare. Se anche mancassero testimonianze della Scrittura, che tuttavia non mancano, la natura stessa ci esorterebbe a render grazie a Dio che ci ha creati e messi in questo mondo, ci conserva in esso e ci largisce tutte le cose necessarie per sussistervi. C'è una ragione ancor più grande, se consideriamo che qui egli ci prepara alla gloria del suo Regno. Poiché ha voluto che coloro i quali devono essere incoronati in cielo combattano anzitutto sulla terra, onde trionfino solo dopo aver sormontato le difficoltà della lotta ed aver ottenuto la vittoria.
Anche l'altra motivazione ha il suo peso: nei suoi benefici noi cominciamo quaggiù ad assaporare la dolcezza della sua benignità, affinché la nostra speranza ed il nostro desiderio siano incitati a ricercarne la piena rivelazione. Quando avremo stabilito che la vita terrena è un dono della bontà divina, dono per il quale gli dobbiamo essere riconoscenti, essendone debitori verso di lui, allora potremo scendere a considerarne la condizione infelice per liberarci da quella troppo grande cupidigia a cui (come abbiamo dimostrato) siamo per natura inclini.
4. Tutto quel che togliamo all'amore disordinato di questa vita, bisogna trasferirlo al desiderio della vita celeste. Coloro che hanno reputato che il nostro maggior bene sarebbe di non nascere affatto, o di morire presto, hanno avuto una giusta opinione, secondo il loro sentire umano. Essendo pagani, privi della luce di Dio, e di vera religione, che cosa potevano vedere nella vita terrena se non povertà ed orrore? Non senza ragione gli Sciti piangevano alla nascita dei loro figli, e quando qualcuno dei loro parenti moriva, se ne rallegravano facendo una festa solenne: ma questo non era di nessuna utilità. Mancando loro il vero insegnamento della fede, essi non capivano come quel che di per se non è né felice né desiderabile, si volga in salvezza per i credenti. Il che li portava alla disperazione.
I servi di Dio seguano dunque questo criterio, nel valutare la vita mortale: vedendo che non c'è in essa altro che miseria, siano più liberi e più disposti a meditare sulla vita futura ed eterna. Quando le avranno paragonate, non solo potranno trascurare la prima, ma anche disprezzarla e non tenerla in nessun conto, a confronto con la seconda. Se il cielo è la nostra patria, che altro è la terra, se non un passaggio in terra straniera e, nella misura in cui essa è maledetta per noi a motivo del peccato, un esilio, anche, ed una proscrizione? Se la partenza da questo mondo è un entrare nella vita, che altro è questo mondo se non un sepolcro? E il dimorarvi, che altro se non essere tuffati nella morte? Se l'essere liberati da questo corpo è libertà, che altro è il corpo se non una prigione? E se la nostra maggior felicità sta nel godere della presenza di Dio, non è una condizione di miseria il non goderne? Finché non usciremo da questo mondo, saremo lontani da Dio (2 Co. 5.6). Se paragonata alla vita celeste, non c'è dubbio che la vita terrena possa essere disprezzata, anzi considerata sterco. È pur vero che non la dobbiamo mai odiare, se non nella misura in cui ci mantiene sottomessi al peccato, anche se questo non è propriamente da imputare ad essa.
Comunque sia, pur essendone stanchi e stufi, al punto da desiderarne la fine, dobbiamo però essere pronti a dimorarvi secondo che piace a Dio, onde il nostro tedio sia scevro da ogni mormorio e impazienza. È come una tappa assegnataci dal Signore, in cui dobbiamo dimorare finché egli ce ne richiami. San Paolo si lamenta sì della sua condizione, del suo esser trattenuto e legato nella prigione del corpo più a lungo di quanto vorrebbe, e sospira con ardente desiderio di esser liberato (Ro 7.24). Ma, per ubbidire al volere di Dio, afferma che è pronto all'una e all'altra cosa, poiché si sapeva debitore di Dio per glorificarne il nome con la vita e con la morte (Fl. 1.23). È compito del Signore stabilire quel che giova alla sua gloria. Se è necessario vivere e morire per lui lasciamo che il suo volere decida e della nostra vita e della nostra morte, pur desiderando sempre la nostra morte, meditandola con assiduità, disprezzando questa vita mortale a paragone dell'immortalità futura e desiderando rinunciarvi quando piacerà al Signore, poiché essa ci mantiene nella servitù del peccato.
5. È mostruoso che parecchi che si vantano di essere cristiani, lungi dal desiderare la morte, l'abbiano in tale orrore che appena ne odono parlare tremano, come se si trattasse della peggior disgrazia che possa loro accadere. Non fa meraviglia se per natura siamo spaventati quando udiamo dire che il nostro corpo deve separarsi dall'anima; ma è intollerabile che in un cuore cristiano non ci sia abbastanza luce da sormontare e travolgere questo timore con una consolazione più grande. Se pensiamo che la tenda del nostro corpo, inferma, piena di peccato, corruttibile, caduca e tendente all'imputridimento, è disfatta e demolita per essere in seguito restaurata in una gloria perfetta, sicura, incorruttibile e celeste, la fede non ci costringerà a desiderare con ardore quel che la natura fugge e ha in orrore? Se pensiamo che, per mezzo della morte, siamo richiamati da un triste esilio per abitare nella nostra patria, anzi nella nostra patria celeste, non dovremmo da ciò trarre una particolare consolazione?
Ma qualcuno obietterà che tutte le cose desiderano mantenersi come sono. Lo ammetto, e perciò sostengo che dobbiamo aspirare all'immortalità futura, dove godremo di una condizione sicura, non reperibile sulla terra. San Paolo insegna molto bene ai credenti a camminare con allegrezza verso la morte, non già desiderando di essere spogliati, ma di essere meglio rivestiti (2 Co. 5.2). È forse ragionevole che le bestie e perfino le creature insensibili, come il legno e le pietre, avendo per così dire una qualche percezione della loro vanità e corruzione, siano in attesa del giorno del giudizio per esserne liberati (Ro 8.19) e che noi, al contrario, avendo anzitutto qualche lume datoci dalla natura, ed essendo per di più illuminati dallo Spirito di Dio, quando si tratta del nostro essere, non sappiamo alzare gli occhi oltre questo marciume terreno?
Ma non è mia intenzione polemizzare qui a lungo contro un così grave errore. Ho dichiarato fin dall'inizio che non intendo trattare qui ogni argomento in forma esortativa. Consiglierò a chi ha così poco coraggio, di leggere il libro di san Cipriano intitolato la mortalità, oppure i filosofi, presso i quali troveranno un disprezzo della morte che dovrebbe far loro vergogna.
Dobbiamo tener presente questo criterio: ha frequentato con profitto la scuola di Cristo colui che aspetta con gioia e letizia il giorno della morte e dell'ultima risurrezione, poiché san Paolo contraddistingue così tutti i credenti (Tt 2.13). La Scrittura è solita richiamarci a questo quando ci vuol proporre un motivo di allegrezza: "Rallegratevi "dice il Signore "e rialzate il capo, poiché la vostra redenzione è vicina " (Lu 21.28). Perché mai, vi prego, dovrebbe generare in noi tristezza e paura quel che Gesù Cristo ha pensato essere adatto a rallegrarci? Se è così, perché ci gloriamo di essere suoi discepoli? Assumiamo dunque un atteggiamento più confacente, e sebbene la cupidigia della nostra carne, cieca e stupida, rifugga da un tal pensiero, non esitiamo ad augurare la venuta del Signore quale felice avvenimento, non solo con un semplice desiderio, ma gemendo e sospirando dietro ad essa. Poiché egli verrà a noi come redentore per introdurci nell'eredità della sua gloria, dopo averci tratti fuori da questo abisso di mali e tribolazioni.
6. In verità, bisogna che tutti i credenti, mentre abitano su questa terra, siano come pecore destinate al macello (Ro 8.36) , al fine di esser resi conformi ai loro capo, Gesù Cristo. Sarebbero dunque disperatamente infelici, se non volgessero in alto il loro intendimento per sormontare tutto quel che è nel mondo e passare oltre la visione delle cose presenti (1 Co. 15.19).
Al contrario, se hanno imparato ad innalzare i loro pensieri al di sopra delle cose terrene, quando vedranno i malvagi prosperare in ricchezze e onori, godere di tranquillità, avere tutto ciò che desiderano, vivere in lusso e delizie, anzi, quando saranno da costoro trattati in modo disumano e fatti oggetto di umiliazioni, quando saranno depauperati e offesi da qualsiasi forma di oltraggio, sarà loro facile, in tali mali, trovar conforto. Infatti avranno sempre presente quell'ultimo giorno, nel quale sanno che il Signore dovrà raccogliere i suoi credenti nel riposo del suo Regno, asciugare le lacrime dei loro occhi, incoronarli di gloria, vestirli di allegrezza, saziarli con la dolcezza infinita delle sue delizie, innalzarli alla sua altezza, farli insomma partecipi della sua felicità (Is. 25.8; Re 7.17) e, al contrario, gettare in estrema vergogna gli iniqui che hanno trionfato su questa terra, trasformare le loro delizie in orribili tormenti, il loro ridere e la loro gioia in pianti e stridor di denti, turbare il loro riposo con orribili crisi di coscienza; immergerli insomma nel fuoco eterno e sottometterli ai credenti che avranno maltrattato iniquamente. Infatti questa è la giustizia, come attesta san Paolo: dar riposo a coloro che sono infelici e ingiustamente afflitti e rendere afflizione ai malvagi che affliggono i buoni, nel giorno in cui il Signore sarà rivelato dal cielo (2 Ts. 1.6).
Ecco la nostra unica consolazione; se ci venisse tolta, dovremmo o perdere coraggio, oppure ingannarci e distrarci con vane e frivole consolazioni che si volgerebbero a nostra rovina. Perfino il Profeta confessa di aver vacillato e che i suoi piedi sono scivolati, mentre si fermava troppo a considerare la presente felicità degli iniqui, e che non è potuto rimaner saldo finché non ha ricondotto il suo pensiero a contemplare il luogo santo di Dio, cioè a considerare quale sarà un giorno la fine dei buoni e degli iniqui (Sl. 73.2).
Per concludere in una parola, affermo che la croce di Cristo trionfa in modo definitivo nel cuore dei credenti sul diavolo, la carne, il peccato, la morte e gli iniqui, quando essi volgono gli occhi a guardare la potenza della sua risurrezione.
CAPITOLO 10
IN CHE MODO DOBBIAMO USARE DELLA VITA PRESENTE E DEI SUOI AIUTI
1. Con questa stessa lezione, la Scrittura ci istruisce anche sul retto uso dei beni terreni: cosa da non trascurare, trattandosi di saper impostare la nostra vita. Infatti dovendo vivere, dobbiamo anche servirci degli aiuti necessari alla vita. Né ci possiamo privare di quelle cose che paiono rispondere più al piacere che alla necessità. Bisogna dunque avere un criterio per servirsi di queste cose con pura e sana coscienza, sia per la nostra necessità sia per il nostro piacere.
Questo criterio ci è indicato da Dio, quando insegna che la vita presente è per i suoi servi come un pellegrinaggio attraverso il quale essi tendono al regno dei cieli. Se dobbiamo soltanto passare sulla terra, non c'è dubbio che dobbiamo usare dei suoi beni in modo tale che questi facciano piuttosto avanzare la nostra marcia, anziché frenarla. Per questo motivo san Paolo ci ammonisce, a ragione, ad usare di questo mondo né più né meno che se non ne usassimo, e ci ricorda che dobbiamo comprare eredità e possedimenti Cl. medesimo sentimento con cui li si vende (1 Co. 7.31). Ma poiché questo argomento esige riflessione, e c'è pericolo di cadere sia nell'uno sia nell'altro estremo, provvediamo a dare un saldo insegnamento, in cui ci si possa orientare con certezza.
Alcuni buoni e santi personaggi, vedendo l'intemperanza degli uomini irrompere sempre come a briglia sciolta, se non è frenata con severità, e volendo d'altra parte correggere un male cosi grande, hanno permesso all'uomo di usare dei beni materiali solo nella misura in cui la necessità lo richiede. Hanno agito così non vedendo altro rimedio. La loro intenzione procedeva certo da una retta disposizione d'animo, ma lo hanno attuato con eccessivo rigore. Hanno fatto qualcosa di molto pericoloso: vincolato cioè le coscienze più strettamente di quanto non siano vincolate dalla Parola di Dio. Infatti stabiliscono che il necessario consiste nell'astenersi da ogni cosa di cui si possa fare a meno. Perciò, volendo prestare loro fede, non sarebbe lecito aggiungere qualcosa al pane bigio e all'acqua. In alcuni, c'è stata un'ascesi ancor maggiore, come in Cratete, cittadino di Tebe, che gettò, a quanto si dice, le sue ricchezze in mare pensando che se queste non perivano, egli stesso sarebbe stato perduto.
Al contrario, parecchi, oggi, volendo cercar pretesto per scusare ogni intemperanza nell'uso delle cose esteriori e allentare la briglia alla carne, anche troppo pronta a rivendicare libertà, considerano fondamentale una tesi che non ammetto: non bisogna in alcun modo limitare questa libertà, ma piuttosto permettere alla coscienza di ognuno di usarne come le sembra lecito.
Ammetto che non dobbiamo, né possiamo, su questo punto, costringere le coscienze in formule e precetti fissi; ma poiché la Scrittura dà delle regole generali intorno all'uso legittimo delle cose, perché non regolarlo e limitarlo su questa base?
2. Dobbiamo anzitutto ricordare questo: l'uso dei doni di Dio non è sregolato quando li riconduciamo allo scopo per il quale Dio li ha creati e destinati; per il nostro bene cioè e non per il nostro male. Per questo motivo, nessuno camminerà più rettamente di colui che considererà con attenzione questo scopo.
Se consideriamo perché Dio ha creato gli alimenti, vedremo che egli non ha soltanto voluto provvedere alle nostre necessità, ma anche al nostro piacere e diletto. E, riguardo ai vestiti, oltre alla necessità ha considerato quel che è onesto e decente. Riguardo alle erbe, gli alberi, i frutti, oltre agli usi svariati che ne facciamo, ha voluto rallegrare la nostra vista con la loro bellezza e darci ancora un altro piacere con il loro profumo. Infatti, se così non fosse, il Profeta non direbbe che, fra i benefici di Dio, il vino rallegra il cuore dell'uomo e l'olio fa risplendere il suo volto (Sl. 104.15). La Scrittura non menzionerebbe in vari passi, per ricordare la benignità di Dio, il fatto che egli ha creato tutti questi beni per l'uomo. Anche le buone qualità naturali di tutte le cose ci indicano come ne dobbiamo godere, e a quale scopo, e fino a qual punto.
Nostro Signore avrebbe forse dato tanta bellezza ai fiori, da colpire i nostri occhi senza che sia lecito ricavarne piacere vedendola? Avrebbe forse dato loro un così buon profumo, se non volesse che l'uomo ne goda? E non ha forse distinto i colori in modo tale che gli uni abbiano maggior grazia degli altri? Non ha dato un certo fascino all'oro, all'argento, all'avorio e al marmo, per renderli più preziosi e nobili degli altri metalli e pietre? Infine, non ci ha dato molte cose che dobbiamo tenere in considerazione senza che ci siano necessarie? 3. Abbandoniamo dunque quella filosofia disumana, che non concede all'uomo l'uso di alcuna delle cose create da Dio, all'infuori dello stretto necessario; essa non solo ci priva, senza motivo, del lecito frutto della bontà divina, ma non può sussistere a meno di privare l'uomo di ogni sentimento, rendendolo simile ad un pezzo di legno.
Bisogna d'altra parte prevenire, con altrettanta diligenza, la concupiscenza della nostra carne, che irrompe senza misura se non è tenuta sotto controllo poiché, come ho detto, vi sono persone che, Cl. pretesto della libertà, le concedono ogni cosa.
Dobbiamo dunque imbrigliare la nostra carne anzitutto con questa regola: tutti i beni che abbiamo, sono stati creati per noi affinché ne riconosciamo l'autore e magnifichiamo con azioni di grazia la sua benignità. Dove sarà, dunque, l'azione di grazia, se per golosità ti riempi di vino e di cibo al punto da istupidirti e da renderti inutile per il servizio di Dio e per il compimento della tua vocazione? Dov'è la riconoscenza verso Dio se la carne, incitata dalla troppo grande abbondanza a malvage concupiscenze, infetta l'intelletto con la sua sozzura, fino ad accecarlo e a togliergli il discernimento del bene e del male? Come ringrazieremo Dio che ci dà i vestiti che portiamo, se sono così sontuosi da farci inorgoglire e da renderci sprezzanti verso gli altri? Se coltiviamo una civetteria tale, che diventi motivo di impudicizia? Come, ripeto, riconosceremo il nostro Dio, se abbiamo gli occhi inchiodati a contemplare la magnificenza dei nostri abiti? Molti infatti assoggettano tutti i loro sensi ai piaceri, seppellendo in essi il loro spirito. Molti provano tal piacere nell'oro, nel marmo e nei dipinti, da diventare come pietre, trasfigurandosi in metalli, e diventando simili a idoli. Alcuni sono talmente rapiti dal profumo della cucina, da esserne inebetiti e incapaci di afferrare alcunché di spirituale. Si può dire altrettanto di ogni altra cosa.
È dunque chiaro, con questa considerazione, che la licenza di abusare dei doni di Dio è già in parte limitata, ed è confermata la regola di san Paolo, secondo cui non dobbiamo aver cura della nostra carne per compiacere alle sue cupidigie (Ro 13.14); se si concede loro troppo, ribollono senza misura.
4. Ma la via più sicura e più breve per ottenere questo, si ha quando l'uomo ha imparato a disprezzare la vita presente e a meditare sull'immortalità celeste. Da essa derivano due regole.
La prima consiste nel fatto che chi usa di questo mondo deve essere nei suoi riguardi come se non ne usasse; chi si sposa deve essere come se non si sposasse; chi compra, come se non possedesse, secondo l'esortazione di san Paolo (1 Co. 7.29-31).
L'altra consiste nell'imparare sia a sopportare pazientemente e con cuore tranquillo la povertà, sia ad usare con moderazione dell'abbondanza.
Colui che decide di usare di questo mondo come se non ne usasse, non solo elimina ogni intemperanza nel bere e nel mangiare, ogni piacere, ogni eccessiva ambizione, ogni orgoglio, ogni scontento importuno, nella casa, nel vestire come nel modo di vivere, ma corregge anche ogni preoccupazione e sentimento che distoglie o impedisce di pensare alla vita celeste, e di ornare la nostra anima con i suoi veri ornamenti. Questo è stato detto molto bene, anticamente, da Catone: là dove ci si cura molto della civetteria, si trascura molto la virtù. Anche il proverbio antico afferma che coloro i quali sono molto occupati a trattare con mollezza il loro corpo e ad ornarlo, non si preoccupano granché della loro anima.
Perciò, sebbene la libertà dei credenti nelle cose esteriori non si debba restringere a certe formule, è tuttavia soggetta a questa legge: essi si permettano soltanto il minimo indispensabile. Al contrario, siano vigilanti nell'eliminare ogni superfluo ed ogni vana abbondanza; non siano intemperanti e si guardino con diligenza dal mutare in impedimenti cose che devono esser loro di aiuto.
5. L'altra regola sarà che i poveri imparino a far a meno con pazienza di quel che manca loro, per paura di esser tormentati da una eccessiva preoccupazione.
Coloro che possono osservare questa moderazione hanno tratto grande profitto alla scuola del Signore. Come, d'altra parte, colui che non ha per nulla approfittato a questa scuola, potrà a fatica avere qualcosa in cui dar prova di essere discepolo di Cristo. A parte il fatto che parecchi altri peccati tengono dietro al desiderio smodato delle cose terrene, avviene quasi sempre che chi sopporta la povertà con impazienza, dà prova del peccato opposto quando è nell'abbondanza. Con questo intendo dire che chi si vergogna di un brutto vestito si glorierà di un vestito prezioso; chi non è contento di un magro pasto, si tormenterà desiderandone uno migliore, non potrà contenersi con sobrietà quando si troverà davanti una tavola ben imbandita, chi non saprà resistere nella condizione di semplice privato, ma ne proverà molestia e vergogna, non potrà trattenersi dall'orgoglio e dalla arroganza se giunge a qualche onore.
Per questo motivo, tutti coloro che vogliono servire Dio senza ipocrisia, devono cercare di poter sopportare, seguendo l'esempio dell'Apostolo, l'abbondanza e la povertà (Fl. 4.12) : cioè comportarsi con moderazione nell'abbondanza e sopportare di buon grado la povertà.
La Scrittura ci offre ancora una terza regola per moderare l'uso delle cose terrene, regola a cui abbiamo brevemente accennato trattando dei precetti della carità. Essa indica che tutte le cose ci sono date dalla benignità di Dio, e sono destinate alla nostra utilità, simili ad un deposito di cui dovremo un giorno render conto. Dobbiamo perciò amministrarle in modo da aver sempre presente che ci sarà chiesto di render conto di tutto quel che il nostro Signore ci ha affidato. Parimenti, dobbiamo tener presente chi e colui che ci chiama a render conto, Dio, il quale avendoci tanto raccomandato l'astinenza, la sobrietà, la temperanza e la modestia, ha in orrore ogni intemperanza, orgoglio, ostentazione e vanità; egli non approva nessuna gestione di beni che non sia volta a carità; egli ha già condannato con la sua bocca tutti i piaceri che distraggono il cuore dell'uomo da castità e purezza, o che istupidiscono il suo intelletto.
6. Dobbiamo anche prestare attenzione al fatto che Dio ordina ad ognuno di noi di tenere a mente la sua vocazione in ogni atto della vita. Poiché sa quanto l'intelletto dell'uomo bruci di inquietudine, quale leggerezza lo trasporti qua e là e quale ambizione e cupidigia lo solleciti ad abbracciare contemporaneamente parecchie cose diverse.
Temendo dunque che sconvolgiamo ogni cosa con la nostra follia e temerarietà, Dio, enumerando queste condizioni e questi modi di vivere, ha ordinato ad ognuno il da farsi. Affinché nessuno oltrepassi con leggerezza i suoi limiti, ha chiamato tali modi di vivere "vocazioni ". Ognuno, per proprio conto, deve considerare che il suo stato è per lui come un punto fermo assegnato da Dio, perché non volteggi e svolazzi sconsideratamente per tutto il corso della sua vita.
Questa distinzione è a tal punto necessaria, che tutte le nostre opere sono valutate in base ad essa, davanti a Dio, e spesso in modo diverso da come supporrebbe il giudizio della ragione umana o filosofica. Non solo l'individuo comune ma anche i filosofi ritengono che il liberare il proprio paese dalla tirannia sia l'atto più nobile ed eccelso che si possa compiere. Al contrario, ogni singolo individuo che avrà messo la mano su un tiranno, è apertamente condannato dalla voce di Dio. Non mi voglio soffermare ad annoverare tutti gli esempi che si potrebbero citare: ci basti sapere che la vocazione di Dio è per noi il principio ed il fondamento per dirigerci rettamente in ogni frangente, e che colui che non vi si sarà attenuto non seguirà mai la retta via per compiere il suo dovere. Potrà sì fare talvolta qualche atto esteriormente lodevole, ma non sarà accetto al giudizio di Dio, per quanto stimato sia dinanzi agli uomini.
Infine, se non consideriamo la nostra vocazione come una regola perenne, non esisterà ferma condotta né armonia fra le varie parti della nostra vita.
Di conseguenza, colui che avrà rivolto la sua vita a quello scopo, l'avrà molto ben orientata, poiché nessuno oserà tentare più di quanto la sua vocazione comporti, e non si lascerà spingere dalla sua temerarietà, ben sapendo che non gli è lecito superare i suoi limiti. Chi è di modeste condizioni si accontenterà del suo stato, con tranquillità, temendo di uscire dalla condizione in cui Dio lo ha posto. In ogni preoccupazione, tormento, travaglio ed altro aggravio, sarà anche un grande sollievo l'esser persuasi che Dio ci guida e ci conduce. I magistrati si daranno più volentieri alla loro carica; un padre di famiglia compirà con maggior coraggio il suo dovere; in breve, ognuno sopporterà con maggior pazienza il suo stato e sormonterà le difficoltà, le inquietudini, i dispiaceri e le angosce che vi si trovano, ben sapendo che nessuno porta altro fardello all'infuori di quello che Dio gli ha messo sulle spalle.
Ne deriverà per noi una singolare consolazione: non ci sarà compito così disprezzato né così basso che non risplenda davanti a Dio e non sia estremamente prezioso, se in esso adempiamo la nostra vocazione.
CAPITOLO 11
LA GIUSTIFICAZIONE MEDIANTE LA FEDE: DEFINIZIONE DEL TERMINE E DELLA COSA
1. Mi pare di aver esposto precedentemente con abbastanza diligenza come non rimanga agli uomini che un solo rifugio di salvezza: la fede, poiché secondo la Legge tutti sono maledetti. Mi pare anche di aver sufficientemente illustrato la natura della fede, quali grazie di Dio essa comunichi all'uomo, quali frutti produca in lui. La conclusione è che riceviamo e possediamo Gesù Cristo per mezzo della fede, come ci è presentato dalla bontà di Dio; essendone partecipi, ne riceviamo una duplice grazia. La prima perché, riconciliati con Dio per mezzo della sua innocenza, Invece di avere un giudice in cielo per condannarci abbiamo un Padre molto clemente. La seconda, perché siamo santificati dal suo Spirito per meditare santità ed innocenza di vita. Della rigenerazione, che è la seconda grazia, ho parlato nel modo che mi pareva opportuno.
La giustificazione è stata trattata più superficialmente, poiché era necessario capire anzitutto quanto la fede non sia oziosa e priva di buone opere, benché per mezzo suo otteniamo giustizia gratuita nella misericordia di Dio; poi era necessario capire quali siano le buone opere dei santi, a cui si riferisce una parte del problema da trattare.
Ora dobbiamo dunque soffermarci più a lungo sulla giustificazione per fede, e considerarla in modo tale da ricordarci bene che è la dottrina fondamentale della religione cristiana, affinché ognuno metta maggior impegno e diligenza per conoscerne il contenuto. Come non abbiamo alcun fondamento per accertare la nostra salvezza, non conoscendo la volontà di Dio a nostro riguardo, così manchiamo di ogni fondamento per edificarci nella pietà e nel timor di Dio. Ma la necessità di ben comprendere questo argomento sarà più evidente quando lo avremo esposto.
2. Per non inciampare fin dai primi passi (il che accadrebbe se entrassimo in discussione su un problema incerto ) dobbiamo anzitutto spiegare il significato delle locuzioni: "essere giustificati davanti a Dio ", e "essere giustificato per fede "o "per opere ".
È giustificato davanti a Dio colui che è ritenuto giusto dinanzi al giudizio di Dio, ed è gradito per la sua giustizia. Come l'iniquità è abominevole a Dio, anche il peccatore, in quanto tale, non può trovar grazia dinanzi a lui. Di conseguenza, dovunque c'è peccato, lì si manifesta l'ira e la vendetta di Dio. È dunque giustificato colui che non è considerato peccatore, ma giusto, e per questo motivo può rimanere in piedi dinanzi al tribunale di Dio, là dove tutti i peccatori cadono e sono confusi. Come di qualcuno che, accusato a torto, dopo esser stato esaminato dal giudice, assolto e dichiarato innocente, si dirà che è giustificato dalla giustizia, così diremo che è giustificato dinanzi a Dio l'uomo che, separato dal numero dei peccatori, ha Dio come testimone e garante della sua giustizia.
Allo stesso modo diremo che è giustificato dinanzi a Dio per mezzo delle sue opere l'uomo nella cui vita ci sarà tal purezza e santità da meritare l'attestato di giustizia dinanzi al tribunale di Dio; oppure, che per l'integrità delle sue opere potrà rispondere e soddisfare al giudizio di Dio.
Al contrario, si dirà che è giustificato per mezzo della fede colui che, escluso dalla giustizia delle opere, afferra per fede la giustizia di Gesù Cristo ed essendone rivestito appare dinanzi a Dio non già come peccatore, ma come giusto. Perciò, in conclusione, diciamo che la nostra giustizia dinanzi a Dio è un'accettazione per mezzo della quale, ricevendoci nella sua grazia, ci considera giusti; e diciamo che essa consiste nella remissione dei peccati, e nel fatto che ci viene attribuita la giustizia di Gesù Cristo.
3. Abbiamo a conferma parecchie testimonianze della Scrittura, e molto esplicite. Anzitutto non si può negare che quello sia il significato proprio del termine, ed il più frequente. Ma poiché sarebbe troppo lungo raccogliere tutti i passi per confrontarli fra loro, basterà darne qualche nozione ai lettori. Ne citerò dunque alcuni tra i più pertinenti.
Anzitutto, quando san Luca afferma che il popolo, avendo udito Gesù Cristo, rese giustizia a Dio, e quando Gesù Cristo dice che alla sapienza è stata resa giustizia dai suoi figli (Lu 7.29.35) , non significa che gli uomini rendano giustizia a Dio, poiché la giustizia rimane sempre perfetta in lui sebbene tutti cerchino di sottrargliela, oppure che possano rendere giusta la dottrina della salvezza, la quale ha di per se questa caratteristica. Ma il significato è che coloro dei quali ha parlato hanno attribuito a Dio ed alla sua parola la lode che meritavano. All'opposto, quando Gesù Cristo rimprovera ai farisei di giustificarsi da soli (Lu 16.15) , non è perché cercassero di acquistare giustizia compiendo il bene, ma perché la loro ambizione perseguiva lo scopo di acquistare fama di giustizia, benché ne fossero privi. È abbastanza chiaro alle persone esperte in lingua ebraica, la quale chiama peccatori o malfattori non solo coloro che si sentono colpevoli, ma coloro che sono condannati. Infatti Bethsabé, dicendo che lei e suo figlio Salomone saranno peccatori (3Re 1.21) , non intende addossarsi un crimine, ma si lamenta che lei e suo figlio saranno esposti ad obbrobrio, e saranno posti al livello dei malfattori, se Davide non provvede. È chiaro, dal seguito della citazione, che questo verbo, anche in greco ed in latino, non può essere inteso altrimenti che Cl. Significato di esser ritenuto giusto, e non comporta una qualità di effetto.
Quanto all'argomento che stiamo trattando, laddove san Paolo dice che la Scrittura ha previsto che Dio giustificherebbe i Gentili per mezzo della fede (Ga 3.8) , che cosa possiamo leggere, se non che egli li accoglie come giusti per mezzo della fede? E quando dice che Dio giustifica il peccatore che crede in Gesù Cristo (Ro 3.20) , quale può essere il senso, se non che egli libera i peccatori dalla condanna che la loro empietà meritava? È ancora più esplicito nella conclusione, quando dice: "Chi accuserà gli eletti di Dio, quando Dio li giustifica? Chi li condannerà, poiché Cristo è morto? Ora che è risuscitato, intercede per noi " (Ro 8.33). È come se dicesse: chi accuserà coloro che Dio assolve? Chi condannerà coloro di cui Gesù Cristo ha preso in mano la causa per esserne l'avvocato? Giustificare, dunque, equivale ad assolvere colui che era accusato, come se fosse stata provata la sua innocenza. Dio ci giustifica per intercessione di Gesù Cristo: non ci assolve per la nostra innocenza, ma perché ci considera gratuitamente giusti, reputandoci giusti in Cristo, per quanto non lo siamo in noi stessi.
È quanto viene spiegato nella predicazione di san Paolo al tredicesimo capitolo degli Atti, dove è detto: "Per mezzo di Gesù Cristo vi è annunciata la remissione dei peccati; e di tutte le cose per le quali non potevate esser giustificati in base alla legge di Mosè, chiunque crede in lui è giustificato " (At. 13.38). Notiamo che il termine "giustificazione "è situato, in questo passo, dopo la remissione dei peccati, come una interpretazione; che è chiaramente adoperato in luogo di assoluzione; che la giustificazione è scissa dalle opere, è una pura grazia in Gesù Cristo, è ricevuta per mezzo della fede; ed infine l'espiazione di Gesù Cristo è interposta, in quanto è lui che ci fa ottenere un tal bene.
Così quando è detto che il pubblicano scese dal tempio giustificato (Lu 18.14) , non si può dire che avesse acquistato giustizia per qualche merito delle sue opere; bisogna dire che, dopo aver ottenuto il perdono dei suoi peccati, è stato considerato giusto davanti a Dio. Non è divenuto giusto grazie alla dignità delle sue opere, ma per assoluzione gratuita. Ottima è dunque l'affermazione di sant'Ambrogio quando dice che la confessione dei nostri peccati è la nostra vera giustificazione.
4. Ma, tralasciando l'esame del termine, se consideriamo attentamente la cosa, non troveremo difficoltà. San Paolo ricorre al concetto che Dio ci accoglie, quando vuol significare che Dio ci giustifica. Dice ad esempio: "Siamo predestinati ad essere figli di Dio, adottivi in Gesù Cristo, a lode della sua meravigliosa grazia, per mezzo della quale ci ha accolti e bene accetti " (Ro 3.24). Con questi termini egli non intende altro se non quello che dice in altri testi, che Dio ci giustifica gratuitamente.
Nel quarto capitolo dell'epistola ai Romani, dice anzitutto che siamo giusti in quanto Dio ci considera tali nella sua grazia e include la nostra giustificazione nella remissione dei peccati: "È definito beato da Davide, colui al quale Dio imputa o attribuisce la giustizia senza le opere, secondo quanto sta scritto: "Beati coloro ai quali i peccati sono perdonati ", ecc. " (Ro 4.6). Certo non considera qui soltanto una parte della nostra giustificazione, ma tutta la sua realtà. Dice che Davide l'ha definita nel dichiarare beati quelli che hanno ottenuto gratuitamente il perdono dei loro peccati. Di conseguenza egli considera opposte queste due cose: essere giustificato ed essere considerato colpevole, affinché sia fatto il processo a chi avrà sbagliato.
Nessun testo prova meglio quanto sto dicendo, del passo in cui insegna che il centro dell'evangelo sta nel riconciliarci con Dio, volendoci egli accogliere gratuitamente in Cristo, senza imputarci i nostri peccati (2 Co. 5.18). I lettori meditino attentamente tutto il testo, che poco dopo aggiunge che Cristo, puro e senza peccato, e stato fatto peccato per noi, palesando così il mezzo della riconciliazione. Cl. Termine "riconciliare ", egli non intende altro se non giustificare. In realtà, quanto dice in un altro testo, che siamo fatti giusti per mezzo dell'obbedienza di Cristo (Ro 5.19) , non avrebbe significato se non fossimo reputati giusti in lui, e non in noi stessi.
5. Ma dato che Osiandro ha, nei nostri tempi, messo in giro l'assurdità di non so qual giustizia essenziale, mediante la quale se anche non ha voluto abolire la giustizia gratuita l'ha talmente oscurata che le povere anime non sanno più scorgere in queste tenebre la grazia di Cristo, prima di procedere sarà opportuno confutare questa fantasticheria.
In primo luogo questa speculazione è frutto di pura curiosità. Accumula, e vero, innumerevoli testimonianze scritturali per dimostrare che Gesù Cristo è uno con noi e noi uno con lui, cosa che ognuno riconosce in modo così evidente da rendere superflua ogni prova. Ma non considerando quale sia il legame di tale unità, si caccia in problemi da cui non si può liberare. Da parte nostra ci sarà facile sciogliere ogni difficoltà, sapendo che siamo uniti a Gesù Cristo mediante la potenza segreta del suo Spirito.
Il nostro uomo si è creato qualcosa di assai simile alla fantasticheria dei Manichei: che cioè l'anima è di essenza divina. Da qui ha ricavato un altro errore: Adamo è stato formato ad immagine di Dio perché, prima ancora della sua caduta, Gesù Cristo già era destinato ad essere modello della natura umana. Ma per brevità mi soffermerò solo su quanto è richiesto dal nostro tema.
Osiandro afferma, del continuo, che siamo uno con Cristo. Glielo concedo; quello che gli contesto però è il fatto che l'essenza di Cristo sia mischiata alla nostra. Sottolineo anche che è sciocco ricavare da simili illusioni l'affermazione che Cristo ci è giustizia in quanto è Dio eterno, e che è nel contempo la giustizia stessa e la sua sorgente. I lettori vorranno scusare se menziono ora brevemente dei punti che mi riservo di trattare altrove per esigenza di ordine. Quantunque ribadisca che Cl. Termine di "giustizia essenziale "non intende negare che siamo reputati giusti a causa di Cristo, tuttavia dice esplicitamente che non si accontenta della giustizia procurataci dall'obbedienza di Cristo e dal sacrificio della sua morte, ed immagina che siamo giusti sostanzialmente in Dio, per infusione della sua essenza.
Ragion per cui è spinto ad insistere fortemente sul fatto che non solo Gesù Cristo, ma il Padre e lo Spirito abitano in noi. Riconosco che è vero, ma affermo che egli lo travis. A sproposito. Era opportuno infatti precisare bene il termine "abitare ": il Padre e lo Spirito sono in Cristo e poiché ogni pienezza di divinità abita in lui, è per lui che possediamo Dio pienamente. Perciò tutto quel che afferma sul Padre e sullo Spirito a se stanti e separati da Gesù Cristo, non serve che a confondere i semplici e ad allontanarli da Gesù Cristo, impedendo loro di attenersi a lui.
Infine ha introdotto una mescolanza sostanziale, per cui Dio scendendo in noi ci fa essere parte di lui. Ritiene quasi senza significato il nostro essere uniti a Gesù Cristo per la potenza del Suo Spirito, affinché essendo nostro capo, ci faccia diventare sue membra, se la sua essenza non è mescolata alla nostra. Ma soprattutto affermando che la giustizia che abbiamo è quella del Padre e dello Spirito secondo la loro divinità, evidenzia meglio il suo pensiero: non siamo giustificati solo mediante la grazia del Mediatore, e la giustizia non ci è solo e semplicemente offerta nella persona di lui, ma siamo partecipi della giustizia di Dio quando Dio è essenzialmente unito a noi.
6. Si limitasse ad affermare che Gesù Cristo, giustificandoci, si fa nostro per mezzo di un'unione di essenza, e che è il nostro Capo non solo in quanto è uomo, ma perché fa scorrere su noi l'essenza della sua natura divina, si pascerebbe di tali fantasie con danno minimo, e forse allora si potrebbe evitare di sollevare una gran disputa. Ma poiché il suo principio è simile ad una seppia, che, gettando il suo sangue nero come inchiostro, intorbida l'acqua tutto intorno per nascondere una gran moltitudine di tentacoli, se non vogliamo accettare consapevolmente che ci si sottragga la giustizia, che sola ci dà fiducia per glorificarci della nostra salvezza, dobbiamo resistere con forza e fermezza a queste illusioni.
Osiandro in tutta questa disputa estende i termini giustizia e giustificare, a due cose. Infatti, secondo lui, siamo giustificati non soltanto per esser riconciliati con Dio, quando ci perdona gratuitamente le nostre colpe, ma per essere giusti realmente e di fatto: di modo che la giustizia non è accettazione gratuita ma santità e virtù ispirate dall'essenza di Dio, che risiede in noi. Inoltre egli nega, e su questo punto è esplicito, che la nostra giustizia sia Gesù Cristo che si sacrifica per noi e che, cancellando i nostri peccati, ha pacificato l'ira di Dio; ma pretende che questo titolo gli appartenga in quanto è Dio eterno e vita.
Per dimostrare la prima affermazione, che cioè Dio ci giustifica non solo perdonandoci i nostri peccati ma anche rigenerandoci, domanda se lascia coloro che giustifica quali erano per natura, senza cambiarvi nulla, o no. È facile rispondergli. Come non si può far a pezzi Gesù Cristo, così la giustizia e la santificazione sono inseparabili, poiché le riceviamo insieme e unitamente a lui. Tutti coloro dunque che Dio accoglie per grazia, li riveste anche dello Spirito di adozione, per virtù del quale li riforma secondo la sua immagine. Ma se la luce del sole non può esser separata dal calore, diremo forse per questo che la terra è scaldata dalla luce, o illuminata dal calore? Nulla è più adatto di questa similitudine, per liquidare la disputa. Il sole nutre la terra dandole fecondità Cl. Suo calore e luce coi suoi raggi. Ecco un legame reciproco ed inseparabile, ma la ragione non permette che quel che è proprio dell'uno sia trasferito all'altro.
La stessa assurdità si riscontra nei fatto che Osiandro confonde due grazie diverse. Poiché Dio in verità rinnova tutti coloro che accoglie gratuitamente come giusti, e li dispone a vivere rettamente e con santità, questo imbroglione mescola il dono di rinnovamento con l'accettazione gratuita, e pretende che tutti e due siano una cosa sola. Ma la Scrittura, congiungendoli, li separa tuttavia in maniera distinta, affinché la varietà delle grazie di Dio ci appaia tanto più evidente. Non è infatti superflua l'affermazione di san Paolo: "Cristo ci è stato dato come giustizia e santificazione " (1 Co. 1.30). E tutte le volte che, volendoci esortare a santità e purezza di vita, ci propone come argomento la salvezza che ci e stata acquistata, l'amore di Dio e la bontà di Cristo, indica abbastanza chiaramente che l'essere giustificati è altra cosa che l'esser fatti nuove creature.
Quanto alla Scrittura, distorce tutti i passi che cita. Chiosa in questo modo il passo di san Paolo, in cui è detto che la fede e imputata a giustizia a coloro che non hanno opere ma credono in colui che giustifica il peccatore (Ro 4.5) : Dio cambia i cuori e la vita, per render giusti i credenti. In breve, deforma con presunzione l'intero quarto capitolo dell'epistola ai Romani. Distorce anche il passo che ho precedentemente citato: "Chi accuserà gli eletti di Dio, poiché Egli li giustifica? "come se fosse detto che sono realmente giusti. E tuttavia è perfettamente chiaro che l'Apostolo parla semplicemente dell'assoluzione per mezzo della quale il giudizio di Dio viene distolto da noi. Sia dunque nella sua argomentazione principale, sia in tutto quello che cita dalla Scrittura, rivela la sua pazzia.
Gli accade altrettanto, dicendo che la fede è stata imputata come giustizia ad Abramo, poiché avendo accettato Cristo (che è la giustizia di Dio, perciò Dio stesso ) aveva camminato ed era vissuto con giustizia. Ora la giustizia di cui parla quel passo, non si estende a tutto il corso della vita di Abramo; ma piuttosto lo Spirito Santo vuole attestare che Abramo, per quanto eccellente sia stato nella virtù e per quanto, perseverando in essa, abbia accresciuto la sua lode, tuttavia non è piaciuto a Dio per altra ragione se non perché ha accolto la misericordia che gli era offerta per mezzo della promessa. Ne consegue che Dio, nel giustificare l'uomo, non prende in considerazione merito alcuno, come san Paolo deduce e correttamente conclude intorno a questo passo.
7. Quel che aggiunge, che la fede non ha di per se la forza di giustificare, ma l'ha in quanto accoglie Gesù Cristo, è vero, e glielo concedo volentieri. Infatti se la fede, sempre debole ed imperfetta, giustificasse per sua virtù propria, non otterrebbe che in parte tale effetto; così la giustizia non sarebbe che a metà, e ci darebbe soltanto qualche brandello di salvezza. Non immaginiamo nulla di quel che ci rimprovera, ma affermiamo, parlando con esattezza, che Dio solo giustifica; poi riferiamo questo a Gesù Cristo, che ci è stato dato come giustizia. In terzo luogo paragoniamo la fede a un recipiente, poiché se non ci accostiamo a Gesù Cristo vuoti ed affamati, con la bocca dell'anima aperta, non siamo adatti a riceverlo. Da ciò appare chiaramente che non gli togliamo la potenza di giustificare, visto che diciamo che lo si riceve per fede, prima di ricevere la sua giustizia.
Quanto ad altre follie stravaganti di Osiandro, ogni uomo dotato di sano intendimento le respingerà; come quando dice che la fede è Gesù Cristo, come se dicesse che un vaso di terra si identifica Cl. Tesoro nascosto al suo interno. La fede, benché non abbia di per se alcuna dignità né valore, ci giustifica offrendoci Gesù Cristo, così come un vaso pieno d'oro arricchisce colui che lo ha trovato. Dico dunque che è eccessivamente rozzo da parte sua confondere la fede, che è soltanto strumento, con Gesù Cristo che è la sostanza della nostra giustizia, autore e ministro di un tal bene. Abbiamo già sormontato anche l'ostacolo di come si debba intendere il termine fede, quando si parla della nostra giustificazione.
8. Ancor più assurda è la sua interpretazione del modo in cui riceviamo Gesù Cristo. Dice che la parola interiore è ricevuta per mezzo della parola esteriore: così facendo distoglie al massimo i lettori dalla Persona del Mediatore, che intercede per noi con il suo sacrificio, con la scusa di trasportarli direttamente alla sua divinità eterna.
Quanto a noi non dividiamo Cristo, ma diciamo che lui stesso, pur avendoci resi giusti Cl. Riconciliarci a suo Padre mediante la sua carne, è la Parola eterna di Dio, e che altrimenti non avrebbe potuto compiere il ruolo di mediatore e acquistarci la giustizia, se non fosse stato Dio eterno. La falsa chiosa di Osiandro è che Gesù Cristo, essendo Dio e uomo, è stato fatto giustizia per noi riguardo alla sua natura divina, e non riguardo alla sua natura umana. Se ciò appartiene in particolare alla divinità, non sarà caratteristico di Cristo, ma comune al Padre ed allo Spirito Santo, visto che la giustizia dell'uno è quella degli altri due. Inoltre, la locuzione "esser fatto "non si addirebbe a quel che per natura e da ogni eternità è esistito.
Quand'anche si riconoscesse legittima una affermazione così massiccia come questa: Dio "stato fatto "giustizia per noi, come conciliarla poi con la dichiarazione di san Paolo secondo cui Cristo è stato fatto giustizia da Dio? Certo ognuno vede che san Paolo attribuisce alla persona del Mediatore quel che le è proprio; benché in essa sia contenuta l'essenza di Dio, tuttavia non si rinuncerà a dare a Gesù Cristo le attribuzioni inerenti al suo ruolo, per distinguerlo dal Padre e dallo Spirito Santo.
Cantando poi vittoria con il passo di Geremia in cui è detto che l'Iddio eterno sarà la nostra giustizia (Gr. 51.10) , non fa che scherzare. Infatti non potrebbe dedurne altro, se non che Gesù Cristo, che è la nostra giustizia, è Dio manifestato in carne. Abbiamo altrove citato 6l'affermazione di san Paolo, che Dio si è acquistato la Chiesa Cl. Suo sangue (At. 20.28). Se qualcuno ne volesse dedurre che il sangue che è stato sparso per cancellare le nostre colpe era divino e apparteneva all'essenza di Dio, chi sopporterebbe un tale errore? Orbene Osiandro valendosi di un cavillo così infantile, pensa averla vinta. Alza la cresta e riempie molti fogli di vanterie, benché la soluzione sia semplice e facile: il Dio eterno, quando sarà fatto seme di Davide, come notoriamente si esprime il Profeta, sarà anche giustizia per i credenti; anzi proprio nel senso in cui Isaia dice per bocca del Padre: "Il mio servo, che è il giusto, renderà giusti i molti, per la sua conoscenza " (Is. 53.2). Notiamo che è il Padre che parla, che attribuisce a suo Figlio il compito di giustificare e ne aggiunge la ragione: poiché egli è giusto; e ne stabilisce il mezzo di farlo nell'insegnamento per cui Gesù Cristo è conosciuto.
Concludo pertanto che Gesù Cristo è stato fatto giustizia per noi, assumendo la figura di un servo; in secondo luogo, che ci giustifica in quanto ha ubbidito a Dio suo Padre. Perciò non ci comunica un tal bene secondo la sua natura divina, ma secondo l'incarico che gli è affidato. Infatti, sebbene Dio solo sia la sorgente della giustizia, e siamo giusti unicamente partecipando a lui, tuttavia avendoci l'infelice frattura, derivata dalla caduta di Adamo, alienati e allontanati da ogni bene celeste, dobbiamo valerci di questo rimedio inferiore, di ottenere giustizia nella morte e nella risurrezione di Gesù Cristo.
9. Se Osiandro replica che il giustificarci è opera così grande che nessuna facoltà umana è sufficiente, glielo concedo. Se egli ne deduce che soltanto la natura divina raggiunge quello scopo, dico che commette uno sbaglio grossolano. Infatti, Gesù Cristo non avrebbe potuto purificare le nostre anime Cl. Suo sangue, né placare il Padre verso di noi Cl. Suo sacrificio, né assolverci dalla condanna in cui eravamo avvolti né, in una parola, sostenere il ruolo di sacerdote, se non fosse stato vero Dio (poiché tutte le facoltà della carne non erano in grado di reggere un così greve fardello ); tuttavia è certo che egli ha compiuto queste cose secondo la sua natura umana. Infatti se chiediamo come siamo giustificati, san Paolo risponde: per mezzo dell'obbedienza di Cristo (Ro 5.19). Ma egli non ha potuto ubbidire, se non in qualità di servo. Perciò concludo che la giustizia ci è stata data nella sua carne. Similmente con queste parole, che Dio ha costituito come sacrificio di peccato Colui che non conosceva peccato affinché fossimo giusti in lui, dimostra che la fonte della giustizia è nella carne di Cristo. Tanto più mi chiedo come Osiandro non abbia vergogna di aver spesso in bocca questo passo che gli è così contrario.
Egli magnifica continuamente la giustizia di Dio: ma è per concludere trionfalmente, come se avesse vinto su questo punto, che la giustizia di Dio ci è essenziale. San Paolo afferma sì che siamo fatti giustizia di Dio, ma in senso molto diverso, in quanto Dio, cioè, approva l'espiazione del figlio suo. Del resto, gli scolari e i novizi sanno che per giustizia di Dio si intende quella che è ricevuta e accettata nel suo giudizio, come quando san Giovanni oppone la gloria di Dio a quella degli uomini (Gv. 12.43) , significando che coloro di cui parla hanno navigato fra due acque, poiché anteponevano la loro buona reputazione nel mondo all'essere apprezzati dinanzi a Dio. So bene che la giustizia è talvolta detta "di Dio ", perché egli ne è l'autore e ce la dà; ma che in quel passo il senso sia quello che ho esposto, cioè che noi sussistiamo davanti al tribunale di Dio in quanto poggiamo sull'ubbidienza di Cristo, lo si può vedere senza che ne parli più a lungo. Ma il termine non ha grande importanza, a condizione che concordiamo sulla sostanza, e che Osiandro riconosca che siamo giustificati in Cristo, in quanto è stato fatto per noi sacrificio di purificazione, atto del tutto estraneo alla sua natura divina. Per questa ragione, volendo egli stesso confermare nei nostri cuori sia la giustizia sia la salvezza che ci ha recato, ce ne offre il pegno nella sua carne.
È vero che si definisce il pane della vita; ma nello spiegare come e perché, aggiunge che la sua carne è veramente un nutrimento ed il suo sangue veramente una bevanda. Questo modo di insegnare si vede molto bene nei sacramenti che, pur indirizzando la nostra fede a Gesù Cristo, interamente Dio e uomo e non a metà, attestano che la sostanza della giustizia e della salvezza risiede nella sua carne: non che egli, unicamente in quanto uomo giustifichi e vivifichi di per se, ma perché è piaciuto a Dio manifestare nella persona del Mediatore quel che era incomprensibile e nascosto in lui. Per questo motivo ho l'abitudine di dire che Cristo è per noi come una fonte, da cui ognuno può attingere e bere a suo agio e a suo piacimento; e che per questo mezzo i beni celesti scaturiscono e giungono fino a noi, mentre se fossero rimasti nella maestà di Dio, simile ad una sorgente profonda, non ci sarebbero di alcuna utilità.
Non nego, in questo senso, che Gesù Cristo, in quanto Dio e uomo, ci giustifichi e che tale effetto sia comune al Padre ed allo Spirito Santo, infine che la giustizia di cui Gesù Cristo ci rende partecipi sia la giustizia eterna del Dio eterno, a condizione che siano mantenuti in tutta la loro forza gli argomenti irrefutabili da me addotti.
10. Inoltre, affinché costui non inganni i semplici con le sue astuzie, dichiaro che siamo privati di quel bene incomparabile che è l'esser giusti, fintantoché Gesù Cristo non diventa nostro. Tengo dunque in massima considerazione l'unione che abbiamo Cl. Nostro Capo, la dimora che egli tiene nei nostri cuori per mezzo della fede, la sacra unione per mezzo della quale godiamo di lui, affinché divenendo in tal modo nostro, ci comunichi i beni dei quali abbonda nella sua perfezione. Non dico dunque che dobbiamo considerare Gesù Cristo da lontano o fuori di noi, perché la sua giustizia ci sia accordata; ma in quanto siamo rivestiti di lui ed innestati sul suo corpo, in breve per il fatto che egli si è degnato di renderci una cosa sola con lui, ecco in che modo ci dobbiamo gloriare di aver diritto di partecipare alla sua giustizia. In questo si scopre la calunnia di Osiandro, quando ci rimprovera di tener la fede in conto di giustizia, come se, Cl. Dire che veniamo a lui vuoti e affamati al fine di essere riempiti e saziati di quel che lui solo ha, privassimo Gesù Cristo di quel che gli appartiene.
Ma Osiandro, disprezzando questa unione spirituale, ribadisce la sua grossolana mistura di Cristo con i credenti, che abbiamo già respinta, e condanna furiosamente coloro che non accettano la sua fantasticheria sulla giustizia essenziale perché, a suo giudizio, non credono che nella Cena si mangi Gesù Cristo nella sua sostanza. Quanto a me, reputo una gloria l'essere ingiuriato da un simile presuntuoso, inebriato nelle sue illusioni; soprattutto in quanto combatte generalmente tutti coloro che si sono unicamente attenuti alla Scrittura, senza risparmiare alcuno di coloro che doveva onorare con rispetto. E tanto più mi sento libero di trattare speditamente questo argomento, non essendo mosso da sentimenti personali, visto che egli non mi ha attaccato.
La sua tesi dunque, sostenuta con tanta insistenza e in modo così inopportuno, secondo cui la giustizia che abbiamo in Gesù Cristo è essenziale, e che egli abita in noi con la sua essenza, tende anzitutto a farci credere che Dio si mescoli a noi con una mistura simile a quella dei cibi che mangiamo. Ecco, infatti, come immagina che si riceva Gesù Cristo nella Cena! In secondo luogo, che Dio ci ispiri la sua giustizia, per mezzo della quale siamo realmente e di fatto giusti con lui. Questo sognatore pretende e afferma che Dio stesso è la sua giustizia, e poi la santità, dirittura e perfezione che sono in lui.
Non mi divertirò a lungo a confutare le testimonianze che distorce per applicarle al suo scopo. San Pietro dice che abbiamo dei doni superiori e preziosi, per esser resi partecipi della natura divina (2 Pi. 1.4); Osiandro ne deduce che Dio ha mescolato la sua essenza con la nostra, come se fossimo già quali l'Evangelo promette che saremo all'ultima venuta di Gesù Cristo. All'opposto, san Giovanni afferma che allora vedremo Dio quale è, poiché saremo simili a lui (1 Gv. 3.2).
Mi sono limitato a dare qualche assaggio di queste sciocchezze ai lettori, onde sappiano che non mi curo di confutarle, non perché mi sia difficile, ma per non esser noioso Cl. Trattare punti superflui.
2. C'è ancor più veleno nel passo in cui dice che siamo giusti con Dio. Penso aver già provato a sufficienza, anche se la sua dottrina non fosse così pestifera come in realtà è, che per la sua leggerezza ed inconsistenza, non contenendo che vento e vanità, dev'essere a buon diritto respinta come sciocca e inutile da tutti coloro che temono Dio ed hanno un sano intendimento. È insopportabile empietà il rovesciare tutta la fiducia nella nostra salvezza sotto l'apparenza di una doppia giustizia che questo sognatore ha voluto inventare, e il rapirci al di sopra delle nuvole per ritrarci dal riposo delle nostre coscienze fondato sulla morte di Gesù Cristo, e impedire che invochiamo Dio con serena fiducia.
Osiandro si beffa di coloro che dicono che il termine giustificare è tratto dal linguaggio giuridico comune, e significa "assolvere ". Infatti insiste su questo punto, che dobbiamo essere realmente giusti, e non ha nulla in maggior disprezzo che l'ammettere che siamo giustificati per mezzo di una attribuzione gratuita. Orbene, se Dio non giustifica perdonandoci e assolvendoci, che cosa significa l'affermazione da san Paolo spesso ripetuta, che Dio è in Cristo e riconcilia il mondo a se, senza imputare agli uomini i loro peccati, in quanto ha dato suo figlio in sacrificio per il peccato, affinché avessimo giustizia in lui? (2 Co. 5.21). Ho anzitutto risolto questo punto, che coloro i quali sono riconciliati con Dio sono reputati giusti. Il che significa che Dio giustifica perdonando, come nell'altro passo in cui l'accusa è contrapposta alla giustificazione. Da ciò risulta evidente che giustificare non significa altro che questo: Dio, giudice, vuole assolverci. Infatti, chiunque sarà mediocremente esperto nella lingua ebraica, se, al tempo stesso, è dotato di buon senso, non ignora la provenienza ed il significato di questo modo di parlare.
Ma mi risponda Osiandro, quando san Paolo dice che Davide ci descrive una giustizia senza opere con queste parole: "Beati coloro ai quali i peccati sono perdonati " (Ro 4.7; Sl. , . 32.1) : questa definizione è intera o a metà? Certo san Paolo non cita il Profeta come testimone del fatto che una parte della nostra giustizia sia situata nella remissione dei nostri peccati, ovvero che aiuti e supplisca alla giustificazione dell'uomo; ma include tutta la nostra giustizia nel perdono gratuito, per mezzo del quale Dio ci accoglie. Dichiarando felice l'uomo i cui peccati sono nascosti e al quale Dio ha perdonato le iniquità senza imputare le trasgressioni, fa risiedere la felicità non nel suo essere realmente giusto e di fatto, ma in quanto Dio lo riconosce e lo accoglie come tale.
Osiandro replica che sarebbe ingiusto da parte di Dio, e contrario alla sua natura, il giustificare coloro che, in realtà, rimarrebbero malvagi. Ma ci dobbiamo ricordare di quanto ho affermato, che la grazia di giustificare non è separata dalla rigenerazione, per quanto siano cose distinte. Ma poiché senza dubbio è noto, in base all'esperienza, che rimane sempre qualche traccia di peccato presso i giusti, bisogna pur che siano giustificati in altro modo, ma non perché rigenerati in novità di vita. Dio comincia a riformare i suoi eletti nella vita presente, prosegue quest'opera a poco a poco e non la porta a termine fino alla morte, di modo che sono sempre colpevoli di fronte al suo giudizio. Egli non giustifica solo in parte, ma fa in modo che i credenti, rivestiti della purezza di Cristo, osino comparire liberamente in cielo. Una porzione di giustizia non tranquillizzerebbe le coscienze, finché non sia chiaro che piacciamo a Dio in quanto siamo giusti dinanzi a lui senza eccezione. Ne consegue che il vero insegnamento concernente la giustificazione è pervertito e interamente capovolto quando si tormentano gli spiriti con dubbi, quando si scrolla in loro la fiducia della salvezza, quando si ritarda e si impedisce l'invocazione libera e franca di Dio, e quando non si dà loro riposo e tranquillità unite a gioia spirituale. San Paolo prende lo spunto da cose fra loro contrarie per indicare che l'eredità non si ha per mezzo della Legge (Ro 4.14); se così fosse, la fede sarebbe annullata, in quanto, se prende in considerazione le opere, non può che barcollare, visto che la persona più santa del mondo non troverà mai in esse di che confidare.
Questa differenza fra giustificare e rigenerare, che Osiandro confonde, è espressa molto bene da san Paolo. Infatti parlando della sua giustizia reale, o della disposizione d'animo a vivere bene che Dio gli aveva data (quel che Osiandro chiama giustizia essenziale ) esclama gemendo: "O quanto sono misero! E chi mi libererà da questo corpo di morte? " (Ro 7.24). Poi, avendo il suo rifugio nella giustizia, fondata sulla sola misericordia di Dio, si gloria in modo meraviglioso contro la morte, gli obbrobri, la povertà, la spada ed ogni afflizione: "Chi "dice "accuserà gli eletti di Dio, dato che egli li giustifica? Sono assolutamente persuaso che nulla ci separerà dall'amore che egli ha per noi in Gesù Cristo " (Ro 8.33). Afferma con forza e chiarezza che è dotato di una giustizia che da sola gli basta interamente alla salvezza dinanzi a Dio; tanto che il misero asservimento per il quale aveva deplorato la sua condizione, non deroga in nulla alla fiducia di gloriarsi, e non gli può impedire di giungere al suo scopo. Questo contrasto è ben noto, anzi perfino familiare a tutti i credenti che gemono sotto il fardello delle loro iniquità, e tuttavia non cessano di avere una fiducia vittoriosa per sormontare ogni timore e dubbio.
Quel che Osiandro risponde, che ciò non si addice alla natura di Dio, ricade sul suo capo. Infatti rivestendo i santi di una duplice giustizia, come di un vestito imbottito, è tuttavia costretto ad ammettere che nessuno piace a Dio senza la remissione dei peccati. Se questo è vero dovrà ammettere, per lo meno, che siamo reputati giusti nella misura, come si dice, dell'imputazione per la quale Dio ci gradisce. Ma fino a che punto il peccatore capirà quella gratuità di Dio, la quale fa sì che egli sia ritenuto giusto pur non essendolo? Si tratterà di un'oncia o di tutta la libbra? Certo pencolerà brancolando ed esitando, da un lato e dall'altro, senza poter raggiungere quel tanto di giustizia che gli sarebbe necessaria per assicurarsi la salvezza. Fortunatamente questo presuntuoso, che vorrebbe dettar legge a Dio, non è arbitro in questa causa. Ma rimarrà salda l'affermazione di Davide, che Dio sarà giustificato nelle sue parole, e vincerà coloro che lo vorranno condannare (Sl. 51.6). Che arroganza è questa, vi prego, di condannare il giudice sovrano, quando assolve gratuitamente? Come se non gli fosse lecito fare quello che ha affermato: "Avrò pietà di colui del quale vorrò aver pietà " (Es. 33.19). Tuttavia l'intercessione di Mosè, cui Dio risponde a quel modo, non tendeva a che Egli non perdonasse ad alcuno, ma a che perdonasse tutti ugualmente, poiché tutti erano colpevoli. Del resto, insegniamo che Dio seppellisce i peccati degli uomini che giustifica, perché odia il peccato e non può amare se non coloro che ritiene giusti. Li mirabile la giustificazione per la quale i peccatori, ricoperti dalla giustizia di Gesù Cristo, non hanno timore del giudizio di cui sono degni, e trovando in se stessi motivo di condanna, ricevono una giustificazione che risiede fuori di loro.
12. I lettori siano accorti e riflettano bene al grande mistero che Osiandro si vanta di non voler loro nascondere. Infatti dopo aver a lungo dibattuto che non acquistiamo favore verso Dio per mezzo della sola imputazione della giustizia di Cristo, poiché non si vergogna di dire che sarebbe impossibile a Dio ritenere giusti coloro che non lo sono, conclude infine che Gesù Cristo non ci è stato dato come giustizia riguardo alla sua natura umana, ma per la sua natura divina; e benché la giustizia non si possa trovare che nella persona del Mediatore, tuttavia conclude che essa non gli appartiene in quanto è uomo, ma in quanto è Dio. Così parlando non tesse più una corda con le due giustizie, come fece prima, ma toglie interamente la potenza e il ruolo di giustificare alla natura umana di Gesù Cristo.
È necessario notare a quali argomenti ricorre. San Paolo, nel passo citato, dice che Gesù Cristo ci è stato fatto sapienza, il che non si addice, secondo Osiandro, che alla Parola eterna. Ne conclude che Gesù Cristo, in quanto uomo, non è la nostra sapienza. Rispondo che il figlio unico di Dio è sempre stato la sua sapienza, ma che san Paolo gli attribuisce questo titolo in senso diverso: cioè dopo che ha assunto la nostra carne, tutti i tesori di sapienza e di intelligenza sono nascosti in lui (Cl. 2.3). Quel che aveva in suo Padre, ce lo ha dunque manifestato; così, il dire di san Paolo non si riferisce all'essenza del figlio di Dio, ma al nostro uso ed è molto ben appropriato alla sua natura umana. Benché, prima di essere stato rivestito di carne, fosse la luce risplendente nelle tenebre, era tuttavia come una luce nascosta, finché si è manifestato nella sua umanità per essere sole di giustizia. Perciò si definisce luce del mondo (Gv. 8.12).
Altra grande sciocchezza di Osiandro è l'affermazione che la potenza di giustificare sovrasta di molto la possibilità degli angeli e degli uomini, visto che non disputiamo intorno alla dignità di qualche creatura, ma diciamo che ciò dipende dal decreto e dalla disposizione di Dio. Se gli angeli volessero compiere la nostra espiazione davanti a Dio non ci riuscirebbero, poiché non sono destinati e stabiliti a ciò; è stato invece il compito particolare di Gesù Cristo, che è stato assoggettato alla Legge per riscattarci dalla maledizione della Legge (Ga 3.13).
È altresì calunnia grossolana accusare quelli che cercano la loro giustizia nella morte e nella passione del nostro Signor Gesù, di ritenere una parte soltanto di Gesù Cristo o, peggio ancora, di fare due dèi perché, se lo si vuol credere, non confessano che siamo giusti per mezzo della giustizia di Dio. Rispondo: pur chiamando Gesù Cristo "autore di vita ", in quanto con la sua morte annientò colui che aveva il dominio della morte (Eb. 2.14) , tuttavia, riguardo alla sua divinità, non lo frodiamo di quell'onore, ma distinguiamo solamente in che modo la giustizia di Dio giunge fino a noi, perché ne possiamo godere. In questo, Osiandro sbaglia troppo grossolanamente. Anzi non neghiamo che quanto ci è stato dato apertamente in Gesù Cristo provenga dalla grazia e potenza segreta di Dio; e non facciamo obiezioni a che la giustizia dataci da Gesù Cristo sia la giustizia di Dio venuta a noi per mezzo suo. Ma rimaniamo fermi in questo, che non possiamo trovar giustizia e vita se non nella morte e risurrezione di Gesù Cristo.
Tralascio la gran quantità di passi della Scrittura che dimostrano facilmente la sua impudenza, come quando prende a sostegno del suo dire quel che è spesso ripetuto nei Sl. , che piace a Dio soccorrere secondo la sua giustizia i suoi servitori. C'è forse in questo, vi prego, un motivo per affermare che partecipiamo della sostanza di Dio, perché egli ci soccorra? Né esiste maggior consistenza nel suo addurre che la giustizia meglio definita è quella che ci spinge a compiere il bene.
Poiché Dio solo produce in noi il volere e il fare (Fl. 2.13) , egli conclude che solo da lui abbiamo giustizia. Non neghiamo che Dio ci riformi, Cl. Suo Spirito, in santità di vita, ma bisogna anzitutto considerare se lo fa direttamente, per così dire, oppure per mano e per mezzo di suo figlio, al quale ha affidato in deposito la pienezza del suo Spirito perché sovvenga, con la sua abbondanza, alla povertà e alla carenza dei suoi membri. E se pure la giustizia scaturisce per noi dalla maestà di Dio, come da una sorgente nascosta, ciò non significa che Gesù Cristo, che si è santificato per noi nella sua carne (Gv. 17.19) , sia la nostra giustizia soltanto per la sua divinità.
Altrettanto frivolo è l'altro argomento, che cioè Gesù Cristo stesso fu giusto di giustizia divina, perché se non l'avesse spinto la volontà del Padre, non avrebbe adempiuto il compito a lui affidato. Pur avendo detto altrove che tutti i meriti di Cristo scaturiscono dalla pura gratuità di Dio, come i ruscelli dalla loro fonte, questo non ha alcun peso per la fantasia di Osiandro, con la quale abbaglia gli occhi dei semplici ed i suoi. Chi mai, infatti, sarà così malaccorto da concedergli, se Dio è la causa ed il principio della nostra giustizia, che siamo giusti nella nostra essenza, e che l'essenza della giustizia di Dio abita in noi? Isaia dice che Dio, nel riscattare la sua Chiesa, si è rivestito della sua giustizia come di una corazza (Is. 49.17); sarebbe forse stato per spogliare Gesù Cristo delle sue armi, dategli per essere perfetto redentore? Ma il significato delle parole del Profeta è chiaro: Dio non ha preso a prestito nulla dal di fuori, per portare a termine la sua opera, e non è stato aiutato da nessuno.
È quanto san Paolo ha sinteticamente dichiarato con altre parole: ci ha dato la salvezza per dimostrare la sua giustizia (Ro 3.25). Non annulla tuttavia quel che dice altrove, che siamo giusti per l'obbedienza di un uomo (Ro 5.19).
Concludendo, chiunque ingarbuglia le due giustizie, per impedire che le povere anime trovino riposo nella sola e pura misericordia di Dio, intreccia una corona di spine a Gesù Cristo per beffarsi di lui.
13. Tuttavia, poiché la maggioranza degli uomini immagina una giustizia mista, composta dalla fede e dalle opere, spieghiamo anche, prima di procedere, che la giustizia della fede differisce a tal punto da quella delle opere, che dove si afferma l'una, l'altra viene annullata. L'Apostolo dice che ha reputato ogni cosa come spazzatura per guadagnar Cristo, ed esser trovato in lui senza una giustizia sua propria, derivante dalla Legge, ma con quella che procede dalla fede in Gesù Cristo, cioè la giustizia che proviene da Dio per mezzo della fede (Fl. 3.8). Vediamo che in questo passo le pone una accanto all'altra come cose contrarie, dicendo che colui il quale vuole ottenere la giustizia di Cristo deve abbandonare la propria. Per questa ragione, in un altro passo individua la causa della rovina dei Giudei nel loro volersi costruire la propria giustizia, senza assoggettarsi a quella di Dio (Ro 10.3). Se nel costruire la nostra giustizia noi rifiutiamo quella di Dio, per ottenere la seconda bisogna che la prima sia interamente abolita. È quanto intende anche laddove dice che la nostra gloria non è esclusa dalla Legge, ma dalla fede (Ro 3.27). Ne consegue che finché rimane qualche goccia di giustizia nelle nostre opere, abbiamo un qualche motivo per gloriarci. D'altronde, se la fede esclude ogni glorificazione, la giustizia della fede non può assolutamente coesistere con quella delle opere. Lo dimostra in modo così chiaro da non lasciar posto ad alcun cavillo nel quarto capitolo ai Romani: "Se Abramo "dice "è stato giustificato per mezzo delle sue opere, ha di che gloriarsi "; poi aggiunge: "Orbene, non ha affatto di che gloriarsi dinanzi a Dio " (Ro 4.2). Ne deriva, dunque, che non è affatto giustificato dalle sue opere. Si serve poi di un altro argomento dicendo: quando il loro salario è dato secondo le opere, ciò non avviene per grazia, ma secondo il dovuto. Ora la giustizia è data alla fede per grazia; non proviene dunque dal merito delle opere. È pertanto assurda fantasia pensare che la giustizia consista e nella fede e nelle opere.
14. I Sofisti, ai quali non importa degradare la Scrittura, e che si compiacciono in cavilli, pensano avere una scappatoia molto intelligente affermando che le opere, di cui parla san Paolo, sono quelle compiute dagli uomini non rigenerati, che presumono del loro libero arbitrio. Dicono pertanto che ciò non concerne affatto le buone opere dei credenti, compiute per mezzo della potenza dello Spirito Santo. Secondo loro, l'uomo è giustificato sia dalla fede sia dalle opere, a condizione che le opere non gli siano proprie, ma doni di Cristo e frutti della rigenerazione. Dicono che san Paolo ha affermato questo in polemica con i Giudei, folli ed arroganti al punto di pensare di acquistarsi giustizia con la loro virtù e la loro forza, mentre ce la dà il solo spirito di Cristo e non già il moto del nostro libero arbitrio.
Ma non considerano che san Paolo, in un altro passo, opponendo la giustizia della Legge a quella dell'evangelo, esclude tutte le opere, qualunque sia l'attributo che le adorna o le abbellisce. Infatti dice che la giustizia secondo la Legge consiste nel fatto che chi l'adempirà sarà salvato; che la giustizia derivante dalla fede è di credere che Gesù Cristo è morto e risuscitato (Ro 10.5.9). Inoltre, vedremo fra poco che santificazione e giustizia sono benefici diversi, provenienti da Cristo. Perciò, quando si attribuisce alla fede il potere di giustificare, neanche le opere compiute per virtù dello Spirito Santo sono tenute in conto.
Per di più, san Paolo, dicendo che Abramo non ha di che gloriarsi verso Dio, visto che non può essere giusto per mezzo delle sue opere, non limita questo ad una parvenza di giustizia o a qualche abbellimento esteriore, o ad una presunzione che Abramo avrebbe avuta nei confronti del suo libero arbitrio, ma sebbene la vita di questo santo patriarca sia stata quasi angelica, tuttavia non ha potuto avere meriti che gli acquistassero giustizia dinanzi a Dio.
15. I teologi della Sorbona hanno la mano un po' più pesante ancora nel mescolare i loro preparati. Tuttavia quelle volpi di cui ho parlato ingannano i semplici con una fantasticheria altrettanto perversa, seppellendo sotto il velo dello Spirito e della grazia la misericordia di Dio, che sola poteva rassicurare le povere coscienze timorose. Noi affermiamo con san Paolo che coloro che osservano la Legge sono giustificati dinanzi a Dio: ma poiché siamo ben lontani da una tal perfezione, dobbiamo concludere che le opere che ci devono valere per acquistar giustizia non ci servono a nulla, poiché ne siamo privi. Quanto ai Sorbonisti, s'ingannano doppiamente: infatti chiamano "fede "la certezza di aspettare la remunerazione di Dio per i loro meriti, e Cl. Nome di "grazia "non intendono il dono della giustizia gratuita che riceviamo, ma l'aiuto dello Spirito Santo per vivere bene e santamente. Leggono negli scritti dell'apostolo che chi si avvicina a Dio deve credere che egli remunera coloro che lo cercano (Eb. 11.6); ma non vedono qual è il modo di cercarlo, che indicheremo fra poco.
Che si ingannino sul termine grazia, appare chiaramente dai loro libri. Infatti il loro Maestro delle Sentenze espone la giustizia che abbiamo per mezzo di Cristo, in duplice modo: anzitutto, dice, la morte di Cristo ci giustifica quando genera nei nostri cuori carità, per mezzo della quale siamo resi giusti. In secondo luogo, essa estingue il peccato, sotto il quale il diavolo ci teneva prigionieri, tanto che non può più sopraffarci. Non considera dunque la grazia di Dio se non in quanto siamo condotti a buone opere per la potenza dello Spirito Santo.
Ha voluto seguire l'opinione di sant'Agostino; ma la segue molto da lontano, anzi si scosta grandemente da una sua retta interpretazione: infatti oscura quel che era chiaramente affermato da quel sant'uomo e corrompe interamente quel che era un po' macchiato dal peccato. La scuola sorbonista è sempre andata di male in peggio, fino ad incappare nell'errore di Pelagio, anche se non dobbiamo accettare per intero l'affermazione di sant'Agostino, o per lo meno considerare improprio il suo modo di parlare. Infatti sebbene spogli molto bene l'uomo da ogni lode di giustizia e l'attribuisca tutta a Dio, identifica tuttavia la grazia con la santificazione che ci rigenera in novità di vita.
16. La Scrittura, parlando della giustizia derivante dalla fede, ci conduce in ben altra direzione: ci insegna infatti a distogliere lo sguardo dalle nostre opere, per contemplare soltanto la misericordia di Dio e la perfetta santità di Cristo. Essa ci indica questo procedimento di giustificazione, secondo il quale inizialmente Dio accoglie il peccatore per sua pura e gratuita bontà, senza considerare in lui nulla, all'infuori della sua miseria, che lo muova a misericordia; vedendolo interamente privo e vuoto di buone opere, prende spontaneamente l'iniziativa di fargli del bene. In seguito raggiunge il peccatore Cl. Sentimento della sua bontà, affinché costui, diffidando di tutto quel che ha, ponga tutta quanta la sua salvezza nella misericordia che Dio gli concede. Ecco il sentimento della fede, per mezzo del quale l'uomo entra in possesso della sua salvezza quando riconosce, attraverso l'insegnamento dell'evangelo, di essere riconciliato con Dio poiché, avendo ottenuto il perdono dei suoi peccati per mezzo della giustizia di Cristo, è giustificato. Sebbene sia rigenerato dallo spirito di Dio, non si adagia sulle buone opere che fa, ma è certo che la sua giustizia perpetua si trova nella sola giustizia di Cristo.
Quando tutte queste cose saranno state esaminate in particolare, sarà facile spiegare quel che ha attinenza a questo argomento; ma queste cose saranno meglio assimilate se le poniamo in un ordine diverso da quello in cui le abbiamo proposte. Ciò del resto non ha importanza, a condizione che siano dedotte in modo tale che tutto il problema sia ben capito.
17. Ci dobbiamo qui ricordare della corrispondenza che abbiamo precedentemente stabilita tra la fede e l'Evangelo. Infatti diciamo che la fede giustifica in quanto accetta la giustizia offerta nell'evangelo. Se nell'evangelo la giustizia ci è offerta, con ciò è esclusa ogni valutazione delle opere. San Paolo lo indica spesso, ma soprattutto in due passi.
Nell'Epistola ai Romani, paragonando la Legge con l'Evangelo dice: "La giustizia che deriva dalla Legge, è che chiunque ubbidirà al comandamento di Dio vivrà; ma la giustizia derivante dalla fede annuncia la salvezza a colui che crederà con il cuore, e confesserà con la bocca Gesù Cristo, e che il Padre lo ha risuscitato dai morti " (Ro 10.5.9). Non vediamo forse chiaramente che egli stabilisce questa differenza fra Legge e Evangelo, che la Legge pone la giustizia nelle opere, l'Evangelo la dà gratuitamente, senza riguardo alle opere? Certo è un passo notevole, che può risolvere parecchie difficoltà, poiché è già molto se comprendiamo che la giustizia dataci nell'evangelo è libera dalle condizioni della Legge. Li la ragione per cui oppone tanto spesso la Legge e la promessa, come cose contrarie. "Se l'eredità "dice "viene dalla Legge, non è dalla promessa " (Ga 3.18) , e altre affermazioni simili, contenute nel medesimo capitolo. È certo che la Legge ha anche le sue promesse. Bisogna dunque che le promesse dell'evangelo abbiano qualcosa di speciale e di diverso, se non vogliamo dire che il paragone è inadatto. Che cosa sarà, se non che esse sono gratuite e poggiano sulla sola misericordia di Dio, mentre le promesse della Legge dipendono dalla condizione delle opere? E non bisogna che qualcuno suggerisca che qui san Paolo ha semplicemente voluto riprovare la giustizia che gli uomini presumono di portare a Dio Cl. Loro libero arbitrio e con le loro forze naturali, poiché egli afferma esplicitamente che la Legge non ha per nulla giovato con i suoi comandamenti, visto che nessuno la compie, non solo fra la gente comune, ma fra i più perfetti. Certo l'amore è l'elemento essenziale della Legge, e Cristo ci forma e ci conduce ad esso; perché allora non siamo giusti amando Dio ed i nostri simili, se non perché l'amore è così debole ed imperfetto perfino presso i più santi, che non mentano di essere apprezzati o accettati da Dio?
18. Il secondo passo è questo: "È chiaro che nessuno è giustificato davanti a Dio per mezzo della Legge, poiché il giusto vivrà per fede. Ma la Legge non è secondo la fede, in quanto dice: "Chi farà le cose prescritte, vivrà per esse " " (Ga 3.2.12). Come reggerebbe l'argomento, se non fosse stabilito innanzitutto che le opere non entrano nel conto, ma che bisogna considerarle a parte? La Legge, dice, è diversa dalla fede. In che cosa? In quanto, aggiunge, essa richiede le opere per giustificare l'uomo. Ne deriva dunque che le opere non sono richieste, quando l'uomo deve essere giustificato per fede. Dal fatto che l'una è opposta all'altra risulta evidente che chi è giustificato per fede è giustificato senza alcun merito proveniente dalle sue opere, anzi al di fuori di ogni merito. Infatti la fede accetta la giustizia che l'Evangelo presenta, ed è detto che l'Evangelo è in ciò diverso dalla Legge, poiché non lega la giustizia alle opere, ma la fa risiedere nella sola misericordia.
Di una simile deduzione si serve nell'epistola ai Romani: Abramo non ha motivo di gloriarsi, in quanto la fede gli è stata imputata come giustizia (Ro 4.2). La conseguenza è che la giustizia derivante dalla fede si attua quando non vi sono opere per le quali sia dovuta una ricompensa. Laddove sono le opere, dice, la ricompensa viene data come dovuta; quel che è dato alla fede è gratuito. Quel che segue tende al medesimo scopo, cioè che otteniamo l'eredità celeste per mezzo della fede, affinché comprendiamo che ci proviene dalla grazia. Ne deduce che l'eredità celeste è gratuita, in quanto la riceviamo per mezzo della fede. Perché questo, se non perché la fede, senza avere alcun appoggio sulle opere, si fonda interamente sulla misericordia di Dio?
Non c'è dubbio che in questo stesso senso deve intendersi quanto dice altrove, che la giustizia di Dio è stata manifestata senza la Legge, benché essa sia attestata dalla Legge e dai Profeti (Ro 3.21). Escludendo la Legge, intende dire che non siamo aiutati dai nostri meriti, e non acquistiamo giustizia per mezzo di quel che facciamo di bene; ma ci dobbiamo presentare vuoti e poveri per riceverla.
19. I lettori possono vedere di quale equità usano oggi i Sofisti cavillando sul nostro insegnamento, quando diciamo che l'uomo è giustificato per mezzo della sola fede. Non osano negare che l'uomo sia giustificato per fede, vedendo che la Scrittura lo afferma così spesso; ma poiché il vocabolo "sola "non vi è espresso, ci rimproverano di averlo aggiunto di nostra iniziativa. Se così è, che cosa risponderanno alle parole con cui san Paolo deduce che la giustizia non proviene dalla fede, se non è gratuita? Come quel che è gratuito si accorderà con le opere? E con quale calunnia potranno liberarsi da quel che è detto altrove, che la giustizia di Dio è manifestata nell'evangelo? (Ro 1.17). Se essa vi è manifestata, non lo è né a metà né in parte soltanto, ma in modo pieno e completo; di conseguenza, la Legge è esclusa. Infatti, quando dicono che aggiungiamo del nostro, dicendo la "sola fede ", non soltanto le loro obiezioni sono false, ma assolutamente ridicole. Chi toglie ogni potenza di giustificazione alle opere, non l'attribuisce interamente alla fede? Che altro significano queste espressioni di san Paolo, che la giustizia ci è data senza la Legge; che l'uomo è giustificato gratuitamente senza l'aiuto delle sue opere? (Ro 3.21.24).
Essi ricorrono, a questo punto, ad un sotterfugio molto abile: escludono le opere cerimoniali, non le opere morali. Motivazione inetta, anche se attinta in Origene e in qualche altro antico. Traggono tanto giovamento dall'abbaiare del continuo nelle loro scuole, da non conoscere neppure i primi rudimenti della dialettica. Pensano forse che l'Apostolo sia fuori di senno, adducendo queste testimonianze per provare la sua affermazione? "Chi farà queste cose vivrà in esse". E "Maledetto l'uomo che non compirà tutte le cose scritte qui " (Ga 3.10.12).
Se proprio non sono del tutto fuor di senno, non potranno dire che la vita eterna è promessa a chi osserva le cerimonie, e che solo i trasgressori di quelle sono maledetti. Bisogna dunque riferire questi passi alla legge morale, e non c'è dubbio che le opere morali sono escluse dal potere di giustificare. Le ragioni di cui si serve tendono ad un medesimo fine, come quando dice: "Dalla Legge viene la conoscenza del peccato, non la giustizia. La Legge genera l'ira di Dio; essa non ci reca dunque salvezza " (Ro 3.20; 4.15). E: "Se la Legge non può render sicure le coscienze, essa non può dar giustizia ". E: "Poiché la fede è tenuta in conto di giustizia, non è come ricompensa delle opere che questa ci è data, ma è un dono gratuito di Dio ". E: "Se siamo giustificati per mezzo della fede, ogni gloria è abbattuta "E: "Se la Legge potesse vivificarci troveremmo giustizia in essa; ma Dio ha incluso tutte le creature sotto il giogo del peccato, al fine di dare la salvezza promessa ai credenti " (Ga 3.21). Dicano, se osano, che ciò si riferisce alle cerimonie e non alle opere morali; i bimbi stessi si befferebbero della loro spudoratezza.
Sia dunque chiaro che quando il potere di giustificare è negato alla Legge, bisogna intendere ciò a proposito della Legge intera.
20. A chi si stupisce che l'Apostolo abbia voluto specificare le opere "della Legge ", senza limitarsi a dire semplicemente le opere, diamo pronta risposta. Il valore delle opere deriva dal fatto che sono approvate da Dio, piuttosto che dalla dignità loro propria. Infatti, chi oserà vantarsi di qualche giustizia nei confronti di Dio, se essa non gli è accetta? E chi oserà chiedergli una ricompensa, se egli non l'ha promessa? È dunque per bontà di Dio che le opere saranno degne del titolo di giustizia e avranno una ricompensa, se possono esserne degne. Tutto il valore delle opere consiste nel fatto che l'uomo, per mezzo loro, intende ubbidire a Dio.
Per questo l'Apostolo, volendo provare, in un altro passo, che Abramo non poteva essere giustificato per mezzo delle sue opere, afferma che la Legge è stata stipulata circa quattrocento anni dopo che il patto di grazia gli era stato dato (Ga 3.17). Gli ignoranti riderebbero di questo argomento, pensando che potevano pur esserci delle buone opere prima che la Legge fosse emanata. Ma poiché ben sapeva che le opere non hanno altra dignità se non in quanto sono gradite a Dio, considera cosa nota che esse non potessero giustificare prima che le promesse della Legge fossero date. Per questo indica per nome le opere della Legge, volendo sottrarre alle opere la possibilità di giustificare: perché non poteva esserci controversia se non a proposito di quelle. Talvolta, è vero, categoricamente e senza specificazioni esclude tutte le opere: come quando dice che Davide definisce beato l'uomo al quale Dio ha imputato la giustizia senza alcuna opera (Ro 4.6). Con tutte le loro sottigliezze non possono impedirci di ritenere nella sua generalità l'affermazione di principio.
Invano ricorrono ad un altro cavillo ancora, quando dicono che siamo giustificati per mezzo della sola fede che opera attraverso la carità, volendo con ciò significare che la giustizia si fonda sulla carità. Certo, riconosciamo con san Paolo che non v'è altra fede che giustifica se non quella che è congiunta alla carità (Ga 5.6). Essa però non trae dalla carità la possibilità di giustificare; anzi, non giustifica se non perché ci mette in comunicazione con la giustizia di Cristo. Altrimenti sarebbe rovesciato l'argomento che l'Apostolo adduce con tanta forza quando dice che la ricompensa a colui che opera è calcolata non secondo la grazia ma secondo il debito (Ro 4.4); al contrario, a colui che non opera ma crede in colui che giustifica l'iniquo, la fede è messa in conto di giustizia. Potrebbe parlare in modo più chiaro di così? Non v'è alcuna giustizia della fede se non quando non vi è nessuna opera alla quale sia dovuta una ricompensa, e allora finalmente la fede è messa in conto di giustizia, quando la giustizia ci è data per grazia, non dovuta.
21. Ora consideriamo se è vero quel che è stato detto nella definizione da noi posta: la giustizia che deriva dalla fede non è altro che riconciliazione con Dio, la quale consiste nella remissione dei peccati.
Dobbiamo sempre riferirci a questa massima: l'ira di Dio è preparata per tutti coloro che persistono nel peccato. È quanto Isaia ha chiaramente affermato dicendo: "La mano di Dio non si è accorciata perché non ci possa salvare; il suo orecchio non è tappato perché non ci possa udire. Ma le nostre iniquità hanno operato una frattura fra lui e noi, ed i nostri peccati hanno distolto il suo volto da noi, di modo che egli non ci esaudisce " (Is. 49.1-2). Sappiamo che il peccato è una frattura fra Dio e l'uomo, e che esso distoglie il volto di Dio dal peccatore. In verità non può essere diversamente, poiché non si addice affatto alla sua giustizia l'aver a che fare Cl. Peccato. Perciò san Paolo dice che l'uomo è nemico di Dio finché non è reintegrato nella sua grazia ad opera di Cristo (Ro 5.8.10). Si dice dunque di colui che Dio riceve nel suo amore, che è giustificato, perché Dio non può accogliere nessuno per unirlo a se senza prima renderlo giusto, da peccatore qual era.
Aggiungiamo che ciò accade per mezzo della remissione dei peccati; se infatti consideriamo coloro che sono riconciliati con Dio secondo le loro opere' li troveremo peccatori, mentre bisogna che siano interamente puri e nettati dal peccato. È dunque chiaro che coloro che Dio riceve nella sua grazia non sono resi giusti altrimenti che con la purificazione, in quanto le loro macchie sono cancellate dalla remissione offerta loro da Dio, al punto che una tal giustizia può, in una parola, chiamarsi remissione dei peccati.
22. L'una e l'altra cosa sono molto ben affermate dalle parole di san Paolo da me precedentemente riferite, laddove dice che Dio era in Cristo, riconciliando a se il mondo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidandoci la parola della riconciliazione. In seguito aggiunge il sunto del suo messaggio: colui che era puro e netto di peccato è stato fatto peccato per noi (2 Co. 5.19.21) , cioè sacrificio sul quale tutti i nostri peccati sono stati trasferiti, affinché fossimo giusti in lui dinanzi a Dio. Egli nomina indifferentemente, in questo passo, la giustizia e la riconciliazione, tanto che comprendiamo che l'una è contenuta nell'altra.
Spiega anche il modo di ottenere questa giustizia, quando dice che essa consiste nel fatto che Dio non ci imputa i nostri peccati. Di conseguenza, nessuno chieda più in che modo Dio ci giustifica, se san Paolo dice espressamente che lo fa in quanto ci riconcilia con se, senza imputarci i nostri peccati. Così pure nell'epistola ai Romani, egli dimostra che la giustizia è imputata all'uomo senza le opere, per la testimonianza di Davide: dichiara beato l'uomo le cui iniquità sono perdonate, i cui peccati sono nascosti, e a cui le colpe non sono imputate (Ro 4.6). Non c'è dubbio che Davide abbia voluto intendere la giustizia Cl. Termine beatitudine. Poiché afferma che essa consiste nella remissione dei peccati, non è necessario che la definiamo in altro modo. Anche Zaccaria, padre di Giovanni Battista, stabilisce la conoscenza della salvezza nella remissione dei peccati (Lu 1.77). Secondo questa stessa regola, san Paolo conclude la predicazione rivolta agli abitanti di Antiochia intorno al centro della loro salvezza, dicendo: "Per mezzo di Gesù Cristo, la remissione dei peccati vi è annunciata; e di tutte le cose da cui non potevate esser giustificati dalla legge di Mosè, chiunque crede in Lui è giustificato " (At. 13.38). Unisce a tal punto la giustizia con la remissione dei peccati, da affermare che sono una medesima cosa. A buon diritto, dunque, deduce sempre che la giustizia da noi ottenuta per mezzo della bontà di Dio, è gratuita.
Non deve sembrare cosa nuova il dire che i credenti sono giusti dinanzi a Dio non già per le loro opere, ma perché gratuitamente accolti; la Scrittura lo ripete così spesso, e perfino gli antichi dottori. Così sant'Agostino, quando dice che in questa vita la giustizia dei santi consiste più nella remissione dei peccati che in perfezione di virtù; a questo fanno eco quelle belle affermazioni di san Bernardo, che la giustizia di Dio è non peccare, la giustizia dell'uomo è l'indulgenza ed il perdono che egli ottiene da Dio; Cristo è per noi giustizia, facendoci assolvere; non vi saranno altri giusti che coloro i quali sono ricevuti per grazia.
23. Di conseguenza, siamo giustificati dinanzi a Dio per il solo mezzo della giustizia di Cristo; equivale a dire che l'uomo non è giusto di per se, ma perché la giustizia di Cristo gli è comunicata per attribuzione; è cosa da considerare con somma attenzione. Così svanisce la fantasticheria secondo la quale l'uomo sarebbe giustificato per fede in quanto per mezzo di essa riceve lo Spirito di Dio, dal quale è reso giusto. Insegnamento opposto a quello dato precedentemente, poiché non v'è dubbio che colui che deve cercare giustizia al di fuori di se è spogliato della sua propria. L'Apostolo lo ricorda chiaramente, quando dice che colui che era innocente ha portato i nostri peccati, presentandosi in sacrificio per noi affinché fossimo, in lui, giusti dinanzi a Dio (2 Co. 5.21). Vediamo che ripone la nostra giustizia in Cristo, non in noi; che la giustizia non ci appartiene per altro diritto se non in quanto siamo partecipi di Cristo, poiché possedendolo possediamo con lui tutte le sue ricchezze.
Quel che afferma in un altro passo non vi contraddice affatto: il peccato in quanto tale è stato condannato nella carne di Cristo, affinché la giustizia di Dio fosse compiuta in noi (Ro 8.3). Non intende altro compimento se non quello che otteniamo per attribuzione. Infatti il Signor Gesù ci comunica la sua giustizia in modo tale, che per un potere indicibile essa è trasferita in noi, secondo il giudizio di Dio. Che non abbia voluto dire cosa diversa da questa, appare dall'affermazione fatta poco prima: come per la disubbidienza di uno solo siamo divenuti peccatori, così per l'ubbidienza di uno solo siamo giustificati (Ro 5.19). Che altro significa fondare la nostra giustizia sull'obbedienza di Cristo, se non affermare che siamo giusti perché l'obbedienza di Cristo ci è accordata, e ricevuta in compenso come se fosse nostra?
Perciò mi pare che sant'Ambrogio abbia felicemente paragonato questa giustizia alla benedizione di Giacobbe: come Giacobbe, che non possedeva per merito suo la primogenitura, nascosto sotto le spoglie di suo fratello e vestito del suo abito che emanava buon odore, si è insinuato da suo padre per ricevere la benedizione nella persona dell'altro, così ci dobbiamo nascondere sotto la veste di Cristo, nostro fratello primogenito, per ricevere l'attribuzione della giustizia davanti al volto del nostro Padre celeste.
È la pura verità. Infatti per comparire dinanzi a Dio in salvezza, bisogna che siamo profumati del suo buon odore, e che i nostri peccati siano sepolti dalla sua perfezione.
CAPITOLO 12
DOBBIAMO INNALZARE I NOSTRI SPIRITI AL TRIBUNALE DI DIO, PER ESSER VERAMENTE PERSUASI DELLA GIUSTIFICAZIONE GRATUITA
1. Benché risulti da evidenti testimonianze che tutto questo corrisponde a verità, non ne valuteremo tuttavia l'importanza finché non avremo dimostrato qual sia il fondamento di tutta la controversia.
Anzitutto, teniamo presente questo fatto: non si tratta di sapere come un uomo possa esser giusto dinanzi al tribunale di un giudice terreno, ma dinanzi al tribunale celeste di Dio; non si valuti perciò in base a criteri nostri l'integrità richiesta per soddisfare questo giudizio. Stupisce constatare con quanta temerarietà e audacia lo si faccia comunemente. È: anzi notorio che chi si dimostra più spregiudicato e insolente nel cianciare di giustizia delle opere, sono le persone apertamente malvagie oppure piene di peccati e di concupiscenze. Ciò accade perché non pensano alla giustizia di Dio; qualora ne avessero una minima percezione, giammai potrebbero beffarsene a quel modo. Orbene, essa è disprezzata e schernita oltre misura quando non le viene riconosciuto un carattere tale di perfezione da non poter tollerare nulla all'infuori di ciò che è assolutamente integro, esente da ogni macchia, di una perfezione cui non vi sia nulla da ridire; e ciò non si è mai potuto trovare in alcun uomo vivente, né si troverà mai.
È facile ad ognuno dissertare in modo teorico sulla dignità che hanno le opere per giustificare l'uomo; quando però ci si trova in presenza di Dio, bisogna abbandonare tutte queste ciance, poiché dinanzi a lui il problema è affrontato nella sua realtà e non con frivole discussioni. È lì che dobbiamo dirigere la nostra capacità di comprendere, se vogliamo ricercare con frutto la vera giustizia. È in quella prospettiva che dobbiamo pensare come potremo rispondere a questo giudice celeste, quando ci chiamerà a render conto. Bisogna dunque vederlo nel suo tribunale, non già in base alla nostra immaginazione ma quale ci è presentato nella Scrittura; dalla sua luce le stelle sono oscurate, la sua potenza scioglie le montagne come neve al sole, la terra è scossa dalla sua collera, la sua saggezza sorprende l'acume dei saggi, la sua purezza è così grande che in confronto tutte le cose sono sporche e contaminate; dinanzi alla sua giustizia gli angeli non possono reggere; non perdona al malvagio e la sua vendetta, una volta accesa, penetra fin nel più profondo della terra. Quando siede per esaminare le opere degli uomini, chi oserà avvicinarsi al suo trono senza tremare? Parlandone, il Profeta dice: "Chi abiterà con un fuoco che tutto consuma, con una fiamma inestinguibile? Colui che opera con giustizia e verità, che è puro e integro in tutta la sua vita " (Is. 33.14). Chiunque avrà questi requisiti, si faccia avanti. Ma questo invito fa sì che nessuno osi presentarvisi. D'altra parte, questa terribile voce deve farci tremare: "Se prendi in considerazione le iniquità, Signore, chi potrà sussistere? " (Sl. 130.3). Certo ci si aspetterebbe che tutti periscano all'istante; infatti, come è scritto altrove: "Può essere che l'uomo, paragonato al suo Dio, sia giustificato o sia trovato più puro del suo Creatore? Ecco, coloro che lo servono non sono integri, ed egli trova da ridire nei suoi angeli. Non saranno a maggior ragione abbattuti coloro che abitano in case di fango e vivono in dimore terrene? " (Gb. 4.17-20); e: "Ecco, fra i suoi santi nessuno è puro, ed i cieli non sono netti dinanzi al suo sguardo. Quanto più è abominevole ed inutile l'uomo, che beve l'iniquità come acqua? " (Gb. 15.15).
Riconosciamo che nel libro di Giobbe è menzionata una giustizia più profonda di quella che risiede nell'osservanza della Legge. Li necessario notare questa distinzione, poiché, supponendo che qualcuno compia la Legge, cosa impossibile, costui sarebbe pur sempre incapace di sostenere il rigore dell'esame che Dio potrebbe fare servendosi della bilancia della sua giustizia segreta, superiore a tutti i nostri sensi. Così, benché Giobbe non si senta colpevole, ammutolisce nel suo spavento quando ode che Dio nella sua perfezione non si accontenterebbe della santità degli angeli. Tralascio, perché incomprensibile, la giustizia quivi menzionata; mi limito a dire che se la nostra vita è esaminata con la riga ed il compasso della legge di Dio, siamo veramente incoscienti se tutte quelle maledizioni non ci spaventano e riempiono di orrore; in effetti, Dio ve le ha messe per tenerci desti. Fra le altre, deve farci tremare questa regola generale: "Tutti coloro che non avranno compiuto le cose qui scritte, sono maledetti " (De 27.26). In breve, tutta la questione sarebbe astratta e priva di significato se ognuno non si considerasse come uno che deve comparire davanti al giudice celeste e, preoccupato di ottenere l'assoluzione, non si umiliasse spontaneamente e non si annullasse.
2, Avremmo dunque dovuto dirigere lo sguardo in quella direzione, con timore, anziché inorgoglirci. Finché ci paragoniamo agli uomini, è facile pensare che abbiamo qualcosa che gli altri non devono disprezzare. Quando però ci riferiamo a Dio, questa fiducia è istantaneamente distrutta. Accade alla nostra anima nei confronti di Dio, quel che accade al nostro corpo nei confronti della volta celeste. Finché l'uomo si sofferma a contemplare quanto gli sta intorno, ritiene la sua vista buona e forte; ma se rivolge l'occhio verso il sole, sarà talmente abbagliato dalla sua luce, che sentirà la sua vista più debole e meno acuta di quanto non sembri nel guardare le cose della terra. Non inganniamoci dunque con una vana fiducia. Quand'anche fossimo simili e superiori a tutti gli uomini, questo non significherebbe nulla di fronte a Dio, al cui giudizio è sottoposta la nostra causa. Se la nostra insolenza non può essere domata da tali ammonimenti, egli ci risponderà quel che Cristo diceva ai Farisei: "Vi giustificate dinanzi agli uomini; ma ciò che è eccelso per gli uomini è abominevole per Dio " (Lu 16.15). Gloriamoci pure orgogliosamente della nostra giustizia fra gli uomini, Dio l'avrà in abominio in cielo! Che fanno, invece, i servi di Dio veramente istruiti dal suo Spirito? Diranno con Davide: "Signore, non entrare in giudizio Cl. Tuo servo, poiché nessun vivente sarà giustificato dinanzi a te " (Sl. 143.2). E con Giobbe: "l'uomo non potrà esser giusto dinanzi a Dio; se vuol contendere con lui, accusato su mille punti non potrà rispondere ad uno solo " (Gb. 9.2).
Comprendiamo ora, chiaramente, di che tipo sia la giustizia di Dio, quella cioè che non sarà soddisfatta da alcuna opera umana, e ci accuserà di mille delitti senza che ci possiamo purificare di uno solo. San Paolo, strumento di elezione da parte di Dio, l'aveva così concepita in cuor suo quando affermava che, pur non avendo cattiva coscienza, non per questo era giustificato (1 Co. 4.4).
3. Non troviamo tali esempi soltanto nella Scrittura, ma tutti i dottori cristiani hanno pensato e parlato in questo modo; sant'Agostino dice che tutti i credenti, che gemono sotto il peso della loro carne corruttibile e nella debolezza della vita presente, hanno questa sola speranza: abbiamo un mediatore, Gesù Cristo, che ha pagato per i nostri peccati. Che significa questa affermazione? Se i santi hanno quest'unica speranza, che ne sarà della fiducia nelle opere? Se dice che è la loro sola speranza, non ne lascia sussistere alcun'altra.
Anche san Bernardo dice: "Dove i deboli troveranno vero riposo e tranquilla sicurezza, se non nelle piaghe del nostro Salvatore? Tanto più confido in esse, in quanto egli è potente nel salvare. Il mondo mi sta dietro per turbarmi, il mio corpo mi pesa, il diavolo è in agguato per sorprendermi: non cadrò, poiché sono appoggiato ad una solida pietra. Se ho gravemente peccato, la mia coscienza è turbata, ma non sarà confusa poiché mi ricorderò delle piaghe del Signore ". Poco oltre conclude: "Così dunque il mio merito è la misericordia del Signore. Essendo il Signore ricco in compassioni, abbondo di meriti. Canterò la mia giustizia? Signore, mi ricorderò della tua sola giustizia. Quella sola è la mia, in quanto sei stato fatto giustizia per me, da Dio tuo padre ". E in un altro passo: "Ecco, il merito dell'uomo è di mettere tutta la sua speranza in colui che salva l'uomo intero ". In un altro passo ancora, tenendo per se la pace o il riposo della coscienza e lasciando la gloria a Dio, dice: "Rimanga a te la gloria, non diminuita di una sola briciola; per me è più che sufficiente la pace. Rinuncio totalmente alla gloria, poiché temo, usurpando quel che non è mio, di perdere anche quel che mi è dato ". Altrove dice ancor più apertamente: "Perché la Chiesa si preoccuperebbe dei meriti, se trova, per gloriarsi, più solido e certo argomento nel libero volere di Dio? Non dobbiamo, pertanto, chiederci per quali meriti speriamo avere vita, soprattutto quando udiamo, per bocca del Profeta: "Non lo farò per causa vostra, ma a causa di me stesso, dice il Signore " (Ez. 36.22.32). Basta dunque, per aver meriti, sapere che i meriti non bastano; ma come è sufficiente il non contare su alcun merito per averne, così l'esserne privo è sufficiente per essere condannato ".
È da attribuire al linguaggio del suo tempo l'uso del termine "meriti "per indicare le buone opere; condannando coloro che non hanno meriti, vuol turbare gli ipocriti che, con ogni licenza, si beffano della grazia di Dio; come dichiara poco oltre, dicendo che la Chiesa è beata quando ha meriti senza presumere alcunché da essi, e può arditamente aver fiducia senza meriti poiché ha un giusto motivo di fiducia, ma non nei suoi meriti; ha dei meriti, ma non per confidare in essi. San Bernardo aggiunge che il non presumere nulla equivale ad aver meriti. Perciò la Chiesa può tanto più arditamente aver fiducia in quanto non presume; ha ampio motivo di gloriarsi delle grandi misericordie di Dio.
4. Le coscienze bene esercitate nel timor di Dio, non trovano altro rifugio in cui possano riposare con sicurezza quando si tratta di render conto a Dio. Se le stelle, chiare e lucenti durante la notte, perdono ogni loro chiarore quando appare il sole, che ne sarà della più grande innocenza che si possa immaginare nell'uomo, paragonata alla purezza di Dio? Si tratta infatti di un esame rigoroso, che vaglierà i più segreti pensieri del cuore e, come dice san Paolo, svelerà tutto quel che è nascosto nelle tenebre e scoprirà quel che è dissimulato nelle profondità dell'animo (1 Co. 4.5) , costringendo la coscienza, renitente e recalcitrante, a mettere in luce perfino quel che ha già dimenticato. Il diavolo, d'altra parte, fungendo da accusatore continuerà ad incalzare l'uomo da vicino, e saprà ben ricordargli tutti i misfatti ai quali l'avrà spinto.
Allora non gioveranno a nulla lo sfarzo e l'esteriorità delle buone opere, delle quali soltanto, ora, si ha stima. Conterà unicamente la sincerità di cuore. Allora sarà messa in crisi ogni ipocrisia, ora inebriata di orgoglio e di insolenza, non solo quella di cui si mascherano dinanzi agli uomini coloro che si sanno segretamente malvagi, ma anche quella di cui ognuno si vanta dinanzi a Dio (siamo infatti portati ad ingannarci sopravvalutandoci? . Coloro che non rivolgono la loro attenzione ed i loro pensieri a quella visione, possono per un momento trattare se stessi con magnanimità, attribuendosi giustizia; ma è una giustizia che sarà loro subito strappata, nel giorno del giudizio di Dio; così come un uomo, dopo aver sognato grandi ricchezze, se ne trova privo al suo risveglio.
All'opposto, tutti coloro che cercheranno al cospetto di Dio la vera regola di giustizia, scopriranno che tutte le opere degli uomini, stimate in base alla loro dignità, non sono che spazzatura e malvagità; quel che comunemente si ritiene giustizia non è che iniquità dinanzi a Dio; quel che si ritiene integrità non è che sozzura; quel che si ritiene gloria, ignominia.
5. Dopo aver contemplato la perfezione di Dio, dobbiamo scendere a considerare noi stessi senza adularci e senza sedurci con l'amor proprio. Non fa meraviglia se siamo ciechi su questo punto, perché nessuno di noi sta in guardia contro quell'assurda e pericolosa disposizione d'animo ad amare se stessi, che la Scrittura ci dice essere radicata per natura in noi. "Ogni via dell'uomo'' dice Salomone ci sembra buona ai suoi occhi ", e: "Tutti gli uomini credono che le loro vie siano buone " (Pr 21.2; 16.2). Come? Con questo errore ognuno è dunque assolto? Al contrario, come dice in seguito, il Signore soppesa i cuori. Mentre cioè l'uomo si illude nell'apparenza esteriore della giustizia da lui posseduta, il Signore esamina con la sua bilancia tutta l'iniquità e la spazzatura nascosta nel cuore. Poiché dunque l'adularci non giova a nulla, non inganniamoci volontariamente a nostra rovina.
Per esaminarci onestamente, dobbiamo sempre richiamarci, con coscienza, al tribunale di Dio. La sua luce è necessaria per svelare e scoprire i recessi della nostra perversità, troppo profondi e oscuri. In tal modo scopriremo il senso dell'affermazione secondo cui l'uomo è ben lungi dall'essere giustificato dinanzi a Dio, non essendo altro che marciume e putridume, essere inutile ed abominevole, che beve l'iniquità come acqua (Gb. 15.16). Come potrebbe essere puro, quel che è concepito da seme corrotto? (Gb. 14.4). Sperimenteremo anche quel che Giobbe diceva di se stesso: "Se voglio mostrarmi innocente, la mia bocca mi condannerà; se voglio dirmi giusto, essa mi darà la prova che sono malvagio " (Gb. 9.20). Il lamento che il Profeta pronunciava sul suo tempo non appartiene solo ad un secolo, ma e comune a tutti i tempi: "Tutti hanno errato come pecore smarrite, ognuno ha seguito la sua via " (Is. 53.6). E vi include tutti coloro ai quali deve essere comunicata la grazia della redenzione Questo esame deve essere rigorosamente proseguito fino a darci un raccapriccio di noi stessi, per disporci a ricevere la grazia di Gesù Cristo. Si inganna grandemente colui che si ritiene capace di goderne senza aver abbandonato ogni alterigia del cuore. È nota l'affermazione secondo la quale Dio confonde gli orgogliosi e fa grazia agli umili (1 Pi. 5.5).
6. Ma qual è il mezzo per renderci umili, se non far posto alla misericordia di Dio, essendo noi interamente vuoti e poveri? Non credo si possa parlare di umiltà, pensando avere qualche cosa di valido in sé. In effetti si è sin qui insegnata una dannosa ipocrisia, affermando che, da un lato dobbiamo avere in noi stessi un sentimento di umiltà dinanzi a Dio, e tenere dall'altro la nostra giustizia in una certa considerazione. Ma se confessiamo dinanzi a Dio qualcosa di diverso da quel che pensiamo nel nostro cuore, gli mentiamo spudoratamente. Non possiamo dare di noi una valutazione adeguata, senza che sia annientato tutto quel che in noi pare eccellente.
Quando dalla bocca del Profeta udiamo che la salvezza è preparata per gli umili (Sl. 18.28) , e la rovina per la superbia degli orgogliosi, pensiamo in primo luogo che non abbiamo nessun accesso alla salvezza se non ci liberiamo da ogni orgoglio, rivestendoci di una vera umiltà; in secondo luogo, che questa umiltà non è una modestia, per mezzo della quale abbandoniamo un millimetro soltanto del nostro diritto per abbassarci dinanzi a Dio (come, fra gli uomini, chiamiamo umili coloro che non si innalzano con fierezza e non disprezzano gli altri benché ritengano di avere un qualche valore ) , ma è un abbassarsi del nostro cuore, senza finzione, che procede da una presa di coscienza della nostra miseria e povertà, da cui il nostro cuore è umiliato. La parola di Dio descrive sempre così l'umiltà. Quando il Signore dice, per bocca di Sofonia: "Toglierò di mezzo a te ogni uomo che si rallegra, e lascerò soltanto gli afflitti e i poveri, ed essi spereranno in Dio " (So. 3.2) , non dimostra forse chiaramente chi sono gli umili? Coloro cioè che sono afflitti dalla coscienza della loro povertà? Al contrario, definisce orgogliosi coloro che si rallegrano, avendo gli uomini l'abitudine di rallegrarsi quando sono in una condizione di prosperità. Inoltre, agli umili che vuol salvare, non lascia nulla all'infuori della sola speranza in Dio. Così in Isaia: "A chi guarderò, se non al povero, rotto e afflitto nel suo spirito, e che trema alle mie parole? "E ancora: "L'Altissimo, che abita nella sua sede eterna, nella sua magnificenza, è tuttavia con gli umili e con quelli che sono afflitti nel loro spirito, per vivificare lo spirito degli umili ed il cuore degli afflitti " (Is. 66.2; 57.15). Il termine "afflizione ", che ricorre così spesso indica una piaga da cui il cuore è a tal punto ferito che l'uomo intero ne è abbattuto, senza potersi rialzare. È necessario che il nostro cuore sia afflitto, se vogliamo essere esaltati con gli umili. Altrimenti saremo umiliati dalla mano potente di Dio, a nostra confusione e vergogna.
7. Non accontentandosi di parole, il nostro buon Maestro ci ha raffigurato come in un quadro, la vera immagine dell'umiltà. Ci presenta, nella parabola, il Pubblicano che, in disparte e con gli occhi abbassati, con grandi gemiti prega in questi termini: "Signore, sii placato verso di me, povero peccatore " (Lu 18.13). Questo non guardare il cielo, questo non avvicinarsi, questo riconoscersi peccatore, battendosi il petto, non sono segni di una simulata umiltà, ma testimonianze di una contrizione interiore. Dipinge per contrasto il Fariseo, riconoscente a Dio di non essere come gli altri, ladri, ingiusti, o adulteri; che digiuna due volte la settimana, che dà la decima parte di tutti i suoi beni. Dichiara apertamente di ottenere la sua giustizia dalla grazia di Dio; ma essendo certo di esser giusto per mezzo delle opere, incorre nella condanna di Dio. Al contrario, il Pubblicano è giustificato perché cosciente della sua iniquità. È dunque evidente quanto Dio gradisca la nostra umiltà: un cuore non può ricevere la misericordia di Dio fin quando non sia svuotato di ogni coscienza della propria dignità; occupato da questa, preclude l'accesso alla grazia di Dio. Per togliere ogni dubbio, il Signor Gesù è stato inviato da suo padre sulla terra con il mandato di portare la buona novella ai poveri, di essere il medico di coloro che sono afflitti nel loro cuore, di predicare libertà ai prigionieri e liberazione ai reclusi, di consolare gli afflitti dando loro gloria anziché cenere, olio anziché pianto, una veste di gioia anziché di tristezza (Is. 61.1-3). Seguendo questo mandato, egli invita a ricevere la sua bontà solo coloro che sono oppressi e travagliati; altrove afferma parimenti di non essere venuto a chiamare i giusti ma i peccatori (Mt. 11.28; 9.13).
8. Se dunque vogliamo dare libero accesso alla chiamata di Cristo, dobbiamo respingere ogni sicurezza e presunzione. Per "sicurezza "intendo l'orgoglio generato da un assurdo convincimento di giustizia, quando l'uomo pensa aver qualcosa per cui meriti di piacere a Dio; per "presunzione "intendo una indifferenza della carne, non necessariamente legata alla fiducia nelle opere. Parecchi peccatori infatti, storditi dalla dolcezza del loro peccato, non pensano al giudizio di Dio, e così non aspirano affatto alla misericordia loro offerta.
Bisogna combattere quell'indifferenza, non meno di quanto si debba abbattere ogni fiducia in noi stessi, se vogliamo essere liberi di correre a Cristo perché ci colmi dei suoi beni. Non avremo mai una fiducia totale in lui, se non diffidando interamente di noi stessi; non innalzeremo mai nel modo giusto il nostro cuore a lui, se prima non l'abbiamo abbattuto in noi; mai riceveremo una giusta consolazione da lui, se prima non siamo rattristati in noi stessi. Saremo dunque disposti a ricevere e ad ottenere la grazia di Dio quando, anziché provare fiducia in noi stessi, vedremo quale nostro unico appoggio la sua bontà; come dice sant'Agostino, avendo dimenticato i nostri meriti, riceveremo i doni di Cristo; se egli cercasse in noi qualche merito, non giungeremmo mai ai suoi doni. San Bernardo concorda con lui quando paragona gli orgogliosi, che attribuiscono un qualche valore al loro merito, a dei servitori sleali, in quanto trattengono per se la lode della grazia, che invece li ha soltanto attraversati. Come se una parete si vantasse di aver generato la luce che riceve da una finestra.
Per non soffermarci troppo a lungo su codesto punto, ricordiamo questa breve regola, destinata a tutti ed infallibile: colui che si è interamente annientato e staccato, non dico dalla sua giustizia che è nulla, ma da quell'ombra di giustizia che ci inganna, e rettamente preparato a ricevere i frutti della misericordia di Dio. Infatti quanto più ognuno confida in se, tanto più pone ostacolo alla grazia di Dio.