Libro quarto: I mezzi esteriori e ausili, di cui Dio si serve per chiamarci a Gesù Cristo suo figlio e mantenerci uniti a lui

1. La vera chiesa con cui dobbiamo mantenerci uniti, in quanto è madre di tutti i credenti
2. Confronto tra la falsa e la vera chiesa
3. I dottori e ministri della chiesa, della loro elezione e del loro ufficio
4. Le condizioni della chiesa antica e della forma di governo in uso prima del papato
5. Come l'antica forma del governo ecclesiastico sia stata annientata dalla tirannide papale
6. Il primato della sede romana
7. Origine e accrescimento del papato fino al predominio attuale: da cui è derivato l'annullamento di ogni libertà e la cancellazione di ogni giustizia
8. Autorità della chiesa nello stabilire articoli di fede è stata sfruttata nel papato in modo da pervertire ogni pura dottrina
9. I concili e la loro autorità
10. La potestà della chiesa nel fare e stabilire leggi: in che modo il papa e i suoi hanno esercitato una crudele e infernale tirannia sulle anime
11. l potere giurisdizionale della chiesa e l'abuso che ne fa il papato
12. La disciplina della chiesa, la cui attuazione consiste principalmente in censure e scomuniche
13. I voti: con quanta superficialità siano pronunciati nel papismo e come le anime ne siano miseramente schiave
14. I sacramenti
15. Il battesimo
16. Il battesimo dei bambini esprime molto bene l'istituzione di Gesù Cristo e la natura del segno
17. La cena di Gesù Cristo ed i frutti da essa recati
18. La messa papale, sacrilegio che non solo ha profanata ma interamente abolita la cena di Gesù Cristo
19. Vera natura delle altre cinque cerimonie falsamente dette sacramenti
20. Il governo civile.

CAPITOLO I
DELLA VERA CHIESA CON CUI DOBBIAMO MANTENERCI UNITI, IN QUANTO È MADRE DI TUTTI I CREDENTI
1. È stato illustrato nel libro precedente in qual modo, mediante la fede nell'evangelo, Gesù Cristo diventi nostro e noi siamo resi partecipi della salvezza da lui recata e della beatitudine eterna.
Ma, poiché la nostra pigrizia, la nostra ignoranza, e altresì la vanità dei nostri spiriti, necessitano di aiuti esterni, mediante cui la fede sia generata in noi, cresca e progredisca, Dio non ha dimenticato di fornirceli a sostegno della nostra debolezza. Affinché la predicazione dell'evangelo proseguisse il suo corso, egli ha affidato questo tesoro in deposito alla sua Chiesa: ha istituito dei pastori e dei dottori (Ef. 4.2) , per bocca dei quali rivolgerci i suoi insegnamenti; non ha insomma trascurato nulla che potesse produrre fra noi un santo consenso di fede ed un buon ordine. Ha istituito anzitutto i sacramenti, che sappiamo essere, per esperienza, strumenti particolarmente utili ad alimentare e confermare la nostra fede. Dato che, rinchiusi nella nostra carne come in un carcere, non siamo ancora pervenuti ad un livello angelico Dio, adeguandosi alle nostre capacità, ha scelto, nella sua mirabile provvidenza, questo procedimento per permetterci di accedere a lui quantunque siamo lontani.
La disposizione della materia richiede che tratti ora della Chiesa e del suo regime, degli uffici connessi con la sua opera, della sua autorità, dei sacramenti ed infine della disciplina ecclesiastica; e cerchi di liberare i lettori dalla corruzione e dagli abusi con cui Satana ha cercato di imbastardire nel papismo quanto Dio aveva prescelto per la salvezza nostra.
Inizierò con la Chiesa, in seno alla quale Dio ha voluto raccogliere i suoi figli, affinché non solo fossero nutriti dal ministero di lei in età infantile ma affinché essa eserciti una cura materna costante nel guidarli sino al raggiungimento della maturità, anzi della meta finale della fede. Non è lecito infatti scindere queste due realtà, che Dio ha congiunte: essere la Chiesa madre di tutti coloro di cui egli è padre.
Questo fatto non si è verificato soltanto sotto la Legge, ma permane tuttora valido, anche dopo l'avvento di Gesù Cristo; lo attesta san Paolo dichiarando che siamo figli della nuova Gerusalemme celeste (Ga 4.20).
2. Allorquando nel Credo confessiamo di credere la Chiesa, questo articolo di fede non si riferisce solo alla Chiesa visibile, di cui stiamo ora parlando, ma a tutti gli eletti di Dio, fra cui sono inclusi coloro che sono già trapassati. Perciò viene adoperato il termine "credere", spesso infatti non siamo in grado di discernere chiaramente la differenza tra i figli di Dio e la gente profana, tra il suo santo gregge e le bestie selvatiche.
In quanto alla preposizione "in", che alcuni inseriscono a questo punto, essa non è motivata da validi argomenti. Ammetto che si tratti della forma oggi maggiormente in uso e sia stata adoperata anche nell'antichità; lo stesso simbolo di Nicea, citato nella storia ecclesiastica, dice "credere nella Chiesa ". Risulta tuttavia dai testi degli antichi Padri, che era altresì accolta senza difficoltà l'espressione "credere la Chiesa ", anziché "credere nella Chiesa". Sant'Agostino, infatti, e l'autore del trattato sul Simbolo, attribuito a san Cipriano, non solo si esprimono in questi termini, ma sostengono anzi che l'espressione risulterebbe.
Impropria qualora vi fosse aggiunta la preposizione "in ". E questa loro tesi poggia su un argomento per nulla frivolo. Infatti noi confessiamo di credere "in Dio ", in quanto a lui il nostro cuore si affida, sapendolo veritiero, ed in lui ripone la sua fiducia. Questo non si addice alla Chiesa, né alla remissione dei peccati, né alla risurrezione dei morti. Pur non volendo polemizzare su questioni formali, preferisco dunque far uso di termini appropriati, che permettano di chiarire il problema, anziché ricorrere ad espressioni che inducano in errore senza necessità.
Il senso dell'espressione "credere" è di garantirci che, malgrado le macchinazioni del Diavolo e la congiura dei nemici di Dio e i loro sforzi violenti in vista di annullare la grazia di Cristo, questa non può essere soffocata, e il sangue di Gesù Cristo, non può essere reso sterile si che non produca i suoi frutti. È perciò necessario, a questo punto, fare riferimento all'elezione di Dio e altresì alla sua vocazione interiore, mediante la quale egli trae a se i suoi eletti, perché lui solo conosce coloro che gli appartengono e li custodisce nascosti sotto il suo sigillo, come dice san Paolo (Il Timoteo 2.19) , finché portino i suoi segni, mediante cui si possano discernere dai reprobi.
Trattandosi però soltanto di una manciata di uomini, per di più spregevoli e frammisti ad una grande moltitudine, nascosti come un po' di grano sotto un mucchio di paglia sull'aia, è d'uopo lasciare a Dio solo il privilegio di conoscere la sua Chiesa, a fondamento della quale sta la sua elezione eterna.
In realtà, non è sufficiente avere in mente il concetto che Dio ha i suoi eletti, occorre realizzare nello stesso tempo il fatto dell'unità della Chiesa, avendo la convinzione di essere realmente inseriti in essa. Se non siamo infatti uniti a tutte le altre membra sotto il comune Capo, cioè Gesù Cristo, non possiamo in alcun modo sperare nell'eredità futura. La Chiesa è perciò detta cattolica o universale, in quanto non se ne possono costituire due o tre, qualora la cosa fosse a noi possibile, senza lacerare Gesù Cristo. Anzi, gli eletti di Dio essendo così strettamente uniti in Gesù Cristo, in quanto dipendono tutti da uno stesso capo, sono resi tutti insieme uno stesso corpo, legati da quel vincolo che esiste tra le membra di un corpo umano. Sono dunque tutti uno, viventi della medesima fede, speranza e carità per lo Spirito di Dio, essendo chiamati non solo ad una stessa eredità, ma a diventare partecipi della gloria di Dio e di Gesù Cristo. Quantunque la terribile desolazione, che ovunque si riscontra, lasci supporre che nulla sussista della Chiesa, riteniamo dunque come un fatto certo che la morte di Cristo continua a recare frutto e Dio custodisce miracolosamente la sua Chiesa come in un nascondiglio, come fu detto ad Elia riguardo al suo tempo: "mi sono riservato settemila uomini, che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal " (3Re 19.18).
3. L'articolo del simbolo si riferisce però anche alla Chiesa nel suo aspetto esteriore, affinché ognuno di noi sia condotto a mantenersi in fraterno accordo con tutti i figli di Dio, ad attribuire alla Chiesa l'autorità che le compete e infine a comportarsi come una pecora del gregge. Perciò viene aggiunta "la comunione dei santi ", elemento questo da non sottovalutarsi, quantunque risulti trascurato dagli antichi, in quanto esprime molto bene la natura della Chiesa. Viene fatto così allusione al fatto che i santi sono raccolti nella comunità di Cristo in modo tale, che si debbono scambiare mutuamente i doni dati da Dio. Tuttavia non viene con questo annullata la diversità delle manifestazioni della grazia; vediamo infatti che i doni dello Spirito sono distribuiti in modi diversi, e altresì l'ordine dei rapporti non è sovvertito al punto che ognuno non abbia facoltà sue personali, poiché è necessario per il mantenimento della pace fra gli uomini che ognuno disponga delle sue facoltà. Questa comunità deve essere intesa nel senso dell'espressione di san Luca: "Non vi era che un cuore e un'anima nella moltitudine dei credenti " (At. 5.32) , e parimenti di san Paolo, quando esorta gli Efesini ad essere un corpo e uno spirito, in quanto sono chiamati ad un'unica speranza (Ef. 4.4). Persone convinte del fatto che Dio è loro padre comune e Cristo loro signore, non possono non essere unite fra loro dall'amore fraterno sì da scambiarsi reciproca. Mente i propri beni a vantaggio l'uno dell'altro. Giustamente ci è richiesto, ed è per noi utile, intendere quali frutti derivino da questo fatto; poiché dobbiamo credere la Chiesa, avendo la certezza di farne parte.
La nostra salvezza sarà saldamente fondata e stabilita, in modo che quand'anche tutto il mondo fosse sconvolto, ne permarrebbe la certezza intatta quando avremo inteso che essa poggia sull'elezione di Dio e non può venir meno senza che l'eterna provvidenza sia distrutta. Che inoltre riceve conferma dal fatto che Cristo deve permanere nella sua interezza e non permetterà che i suoi credenti siano separati da lui più di quanto tollererà che siano disperse le sue membra. Che abbiamo inoltre la certezza, che la verità permane con noi fintantoché dimoriamo in seno alla Chiesa. E infine sentiamo che sono rivolte a noi le promesse quando ci vien detto che vi sarà salvezza in Sion Dio dimorerà in perpetuo in Gerusalemme e non si allontanerà mai da essa (Gl. 2.32; Ob. 17; Sl. 16.6).
Tale è infatti la forza della comunione della Chiesa da mantenerci nella comunione con Dio. Parimenti il termine "comunione ", è in grado di procurarci grande conforto: dato che tutta quanta la grazia conferita dal nostro Signore alle sue membra e alle nostre ci appartiene, tutti i beni che possediamo risultano conferma della speranza nostra.
Del resto non è necessario per mantenerci nella comunione di quella Chiesa il vedere una comunità visibile e toccarla con mano. Anzi ci viene ricordato che, essendo oggetto di fede, la dobbiamo riconoscere quando è invisibile non meno che quando siamo in grado di riconoscerla chiaramente. E la nostra fede non risulta in nulla sminuita dal fatto di dover riconoscere alla Chiesa, una esistenza che la nostra intelligenza non può percepire. Tanto più che non ci viene richiesto in questo caso di distinguere gli eletti dai reprobi (giudizio che appartiene a Dio e non a noi ) , ma di avere nei nostri cuori la certezza che tutti coloro che, per clemenza di Dio padre e virtù dello Spirito Santo, sono resi partecipi di Cristo, sono messi a parte per costituire l'eredità di Dio; e che essendo noi nel numero di costoro siamo eredi di tale grazia.
4. Essendo ora mia intenzione discorrere della Chiesa visibile, impariamo dal solo titolo di madre quanto utile, anzi necessaria, sia la conoscenza di lei; non c'è infatti alcuna possibilità di entrare nella vita eterna, se questa madre non ci ha concepiti nel suo seno e non ci partorisce, ci allatta, ci custodisce infine sotto la sua direzione e la sua autorità finché, spogliati di questa carne mortale, siamo resi simili agli angeli (Mt. 22.30) .
La nostra debolezza infatti non ci consente, durante tutto il corso della nostra vita, di sottrarci all'apprendimento. È altresì da notare che fuori dal suo grembo non si può sperare di ottenere remissione dei peccati o salvezza alcuna come attestano Isaia e Gioele (Is. 37.32; Gl. 2.32); con cui Ez.chiele concorda affermando che coloro che Dio vuole escludere dalla vita celeste non faranno parte del suo popolo (Ez. 13.9).
Viceversa è detto che coloro che si convertono al servizio di Dio e alla vera religione verranno ad accrescere il numero dei cittadini di Gerusalemme. Per questa ragione è affermato in un altro salmo: "O Eterno ricordati di me con la benevolenza che usi verso il tuo popolo; visitami con la tua salvazione; affinché io veda il bene dei tuoi eletti, mi rallegri dell'allegrezza della tua nazione, e mi glori con la tua eredità " (Sl. 106.4-5). Queste parole limitano la benevolenza paterna di Dio e le manifestazioni particolari della vita spirituale al gregge di Dio a ricordarci quanto sia pernicioso e mortale il distaccarsi o l'allontanarsi dalla Chiesa.
5. Proseguiamo ora nell'esame di questo argomento. San Paolo dice che Gesù Cristo per compiere ogni cosa ha stabilito gli uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori e dottori per il perfezionamento dei santi, per l'opera del ministero al fin di edificare il corpo di Cristo finché tutti siamo.
Arrivati all'unità della fede e della piena conoscenza del figlio di Dio, allo stato di uomini fatti, all'altezza della statura perfetta di Cristo (Ef. 4.2). Constatiamo che Dio, pur potendo far giungere in un momento i suoi alla perfezione, vuole invece farli crescere a poco a poco sotto le cure della Chiesa. Ne costituisce prova il fatto che la predicazione sia affidata ai pastori; ed a tutti è richiesto di lasciarsi con spirito docile ed umile condurre dai pastori a ciò preposti. Perciò il profeta Isaia aveva molto tempo innanzi descritto in questi termini il Regno di Cristo: "Il mio spirito che riposa su te e le mie parole che ho messe nella tua bocca non si dipartiranno mai dalla tua bocca né dalla bocca della tua progenie né dalla bocca della progenie della tua progenie " (Is. 59.21). Onde si deduce che coloro che rifiutano di essere nutriti dalla Chiesa, o respingono il cibo spirituale che essa offre loro, sono degni di morire di fame.
Certo è Dio che ci ispira la fede, ma egli lo fa mediante lo strumento del suo Evangelo, come ricorda san Paolo dicendo che la fede viene dall'udire (Ro. 10.17) , così come in Dio risiede la potenza della salvezza ma egli la manifesta nella predicazione dell'evangelo, come lo stesso apostolo ricorda in altri testi. Per questo Dio volle al tempo della Legge che il suo popolo si raccogliesse nel santuario affinché la dottrina insegnata dai sacerdoti mantenesse l'unità della fede. Espressioni singolari ed eccezionali riferite al tempio quali: il luogo del riposo di Dio (Sl. 132.14) , il SUO santuario e domicilio, il luogo dove egli siede fra i cherubini (Sl. 80.2) , hanno lo scopo di far amare e tenere in dovuta considerazione la predicazione della dottrina celeste e garantirne la dignità che potrebbe essere sminuita qualora ci si limitasse a considerare gli uomini mortali che ne sono messaggeri. Ed affinché prendiamo coscienza del fatto che quanto ci viene presentato in vasi di terra (2 Co. 4.7) e un tesoro inestimabile, Dio stesso interviene e chiede che venga riconosciuta la sua presenza in ciò che ha istituito perché egli è autore di queste disposizioni.
Per questo motivo, dopo aver proibito al suo popolo, di occuparsi di divinazione, arti magiche, negromanzia ed altre superstizioni (Le 9.31) aggiunge che gli darà come unica possibilità di essere istruito la presenza costante di profeti. Così come non ha innalzato il popolo antico sino agli angeli, ma gli ha suscitato.
Dottori in terra che avessero l'ufficio di messaggeri nei suoi confronti, egli intende oggi ammonirci mediante uomini. E come in antico Dio non si è limitato a dare per iscritto la sua Legge, ma ha stabilito i sacerdoti per esserne commentatori, ed ha voluto che venisse proclamata per bocca loro, così egli vuole oggi che non solo ognuno si impegni in una lettura personale, ma vi siano maestri e dottori per esserci guida ed aiuto.
Il vantaggio che ne deriva è duplice. Da un lato è prova opportuna per saggiare l'obbedienza della nostra fede il dover ascoltare i maestri che Dio ci manda come se fosse lui stesso a parlare. In secondo luogo egli si adegua, così facendo, alla nostra debolezza e preferisce rivolgersi a noi in modo umano mediante i suoi messaggeri per attirarci con dolcezza anziché spaventarci tuonando nella sua maestà. Ed in realtà ogni credente sente quanto questo modo familiare di insegnare sia confacente alla nostra natura dato che è impossibile non essere spaventati quando Dio parla nella sua maestà. Coloro che considerano l'autorità della parola annullata dalla spregevole e misera condizione dei ministri che l'annunziano si rivelano ingrati, poiché, fra i molti doni eccellenti con cui Dio ha arricchito il genere umano, risulta eccezionale il fatto che egli degni consacrare la bocca e la lingua degli uomini al suo servizio, acciocché in esse la sua voce risuoni. Non ci sia dunque gravoso accogliere con piena obbedienza la dottrina della salvezza che per suo esplicito comandamento ci viene offerta in questa forma. Poiché, quantunque la sua potenza non sia vincolata ad alcun strumento esterno, il voler rifiutare, come fanno molti insensati, questa forma ordinaria a cui ha voluto assoggettarci, significa immobilizzarsi in lacci mortali.
Non sono pochi coloro che, per orgoglio, presunzione, disprezzo o invidia, sono indotti a pensare che ricaveranno sufficiente profitto da una lettura ed una meditazione privata della Scrittura e sono perciò indotti a disprezzare le assemblee pubbliche ed a considerare superflua la predicazione. Ora, in quanto sciolgono e spezzano, così facendo, quel vincolo unitario che Dio vuole sia mantenuto inviolabile, è giusto che essi raccolgano il frutto di questa rottura autosuggestionandosi con sogni e fantasticherie.
Che li conducono alla confusione. Affinché una pura semplicità di fede permanga fra noi non ci sia gravoso e fastidioso il ricorrere a questo esercizio pedagogico che Dio ha considerato necessario, avendolo istituito, e che ci raccomanda così insistentemente.
Non si è mai trovato alcuno, neppure fra quei cani rabbiosi che si abbandonano senza ritegno alla beffa, che osi affermare che ci si possa tappare le orecchie quando Dio parla. Ma i profeti ed i santi dottori hanno spesso sostenuto lunghi ed impegnativi combattimenti contro i malvagi per sottometterli alla dottrina da loro predicata, perché costoro, nella loro arroganza, non possono tollerare il giogo rappresentato dal fatto di dover ricevere insegnamenti dalla bocca e per mezzo del ministero degli uomini. Fare questo significa cancellare l'immagine di Dio che risplende nella predicazione. Per questo è stato anticamente comandato ai credenti di cercare Dio nel tempio (Sl. 105.4) , comandamento ripetuto altresì spesso nella Legge: perché l'insegnamento e le esortazioni dei profeti rappresentavano per loro la vivente immagine di Dio, nel senso delle espressioni di Paolo quando si vanta del fatto che la gloria di Dio apparsa sul volto di Cristo risplende nella sua predicazione (2 Co. 4.6).
Tanto più odiosi ci debbono apparire quegli apostati che si sforzano di disperdere le chiese, quasi volessero cacciare le pecore dai loro recinti o dalle loro stalle, per gettarle nelle fauci dei lupi. Per quanto ci concerne ricordiamo il detto di san Paolo secondo cui la Chiesa può essere edificata solo mediante la predicazione esterna e il solo legame che sussiste fra i santi è quello di imparare e ricevere istruzioni di comune accordo secondo l'ordine stabilito da Dio. A questo scopo essenzialmente, come già abbiamo detto, Dio ha ordinato, un tempo, ai credenti sotto la Legge di raccogliersi nel santuario. Mosè lo chiama, per questa ragione, il luogo del nome di Dio, perché egli ha voluto che quivi fosse celebrato il suo ricordo (Es. 20.24). Con questo egli insegna chiaramente che l'uso del tempio risultava nullo senza l'insegnamento della verità. Non vi è dubbio che in questosenso deve intendersi la lagnanza angosciata ed amara di Davide perché l'accesso del tabernacolo gli è precluso dalla tirannia e dalla malvagità dei suoi nemici (Sl. 84.2).
Alcuni giudicano puerili queste espressioni: il non potersi avvicinare al santuario non dovrebbe essere privazione eccessiva, in quanto egli gode pur sempre dei suoi agi e piaceri. La tristezza ed il dolore che lo brucia e lo tormenta, anzi lo consuma interamente, nasce dal fatto che, per i credenti, nulla deve essere maggiormente apprezzato di questo mezzo mediante cui Dio li innalza a se quasi di grado in grado. Si deve anche notare che Dio si è rivelato anticamente ai padri nello specchio della sua dottrina in modo tale che risultasse chiaro che egli voleva essere conosciuto spiritualmente. Il tempio perciò non è solo detto suo volto ma anche suo sgabello al fine di evitare ogni superstizione (Sl. 132.7; 99.5; ). È l'incontro benedetto, di cui parla san Paolo, che ci procura la perfezione nell'unità della fede, quando tutti dal maggiore al minore si volgono al capo.
Per quanto concerne i templi che i pagani hanno edificato a Dio, con altro fine ed altre intenzioni, essi non hanno servito ad altro che a profanare il suo culto. Gli stessi Ebrei sono caduti in tale errore, sia pure in forma meno grossolana, e non sono mancate colpe da parte loro, come dice santo Stefano ricordando loro, per bocca di Isaia, che Dio non abita in edifici fatti da mano d'uomini (At. 7.48); lui solo ha l'autorità di consacrarsi dei templi con la sua parola e santificarli ad uso legittimo. Non appena assumiamo iniziative in modo sconsiderato, senza suo ordine, immediatamente ad un male ne segue un altro e molte fantasticherie vengono ad aggiungersi al principio già in se errato, talché la corruzione si moltiplica a dismisura.
Tuttavia Serse, re dei Persiani, agì stoltamente, ed in modo irresponsabile, distruggendo, dietro suggerimento dei filosofi del suo paese, tutti i templi della Grecia, con la scusa che gli dei, essendo liberi, non debbono essere rinchiusi fra le mura e sotto le tegole! Quasi Dio non avesse il potere di scendere sino a noi per mostrarsi più vicino, pur senza muoversi o cambiare sede, o vincolarsi ad alcuna forma terrestre, ma, anzi, per farci salire sino alla gloria celeste che riempie ogni cosa della sua grandezza infinita, sorpassando anzi in altezza i cieli.
6. Non possiamo evitare a questo punto, di affrontare il problema che ha suscitato, in tempi recenti, violenti dispute riguardo all'efficacia del ministero; alcuni infatti, volendo estenderne la dignità, hanno ecceduto oltrepassando i limiti ed altri hanno ritenuto che si giunge ad un generale pervertimento Cl. Trasferire all'uomo mortale ciò che è peculiare dello Spirito Santo, affermando che ministri e dottori penetrano nell'intendimento e nei cuori per porre rimedio sia alla cecità che alla durezza che vi si trovano. Si stabilirà facilmente un accordo fra le due tesi esaminando con attenzione la duplice serie dei testi in cui da un lato Dio, in qualità di autore della predicazione, congiungendo a quest'ultima il suo Spirito, promette che essa non passerà senza frutto, e d'altra parte, svincolandosi da ogni intervento esterno, attribuisce a se stesso sia l'inizio che il compimento della fede.
La missione del secondo Elia è consistita, secondo il profeta Malachia, nell'illuminare gli spiriti, convertire i cuori dei padri ai figli, e gli increduli alla sapienza dei giusti (Ma.6.4). Gesù Cristo afferma che manda i suoi apostoli acciocché traggano frutto dalla loro fatica (Gv. 15.16). San Pietro, dal canto suo, definisce brevemente in che consiste questo frutto dicendo che siamo rigenerati dalla parola predicata che è semenza incorruttibile di vita (1 Pi. 1.23). Paolo si gloria perciò di aver generato i Corinzi al Signore mediante l'Evangelo (1 Co. 4.15) , e del fatto che essi sono il suggello del suo apostolato (1 Co. 9.2) , e di non esser stato ministro di lettera, che ha colpito solo le orecchie Cl. Suono della voce, ma che l'efficacia dello Spirito gli è stata conferita affinché la sua dottrina non risultasse inutile (2 Co. 3.6). Secondo lo stesso concetto egli afferma altrove che il suo evangelo non ha consistito in parole ma in potenza di Spirito (1 Co. 2.4). Dice anche che i Galati hanno ricevuto lo Spirito Santo mediante l'ascolto della fede (Ga 3.2). Insomma non solo si considera cooperatore di Dio ma, in molti testi si attribuisce l'ufficio di amministratore della salvezza (1 Co. 3.9). È indubbio che egli non ha inteso con tali parole usurpare per se una sia pur minima parte di lode svincolandosi da Dio, come altrove afferma: "la nostra fatica non è stata vana in Dio in virtù della sua forza che ha operato potentemente in me " (1 Ts. 3.5). E ancora: "Colui che aveva agito in Pietro per farlo apostolo della circoncisione ha anche agito in me per farmi apostolo dei Gentili " (Ga 2.8). Anzi in altri testi è evidente che egli non concede nulla ai ministri quando siano considerati in se stessi: "colui che pianta e colui che annaffia non sono nulla, ma Dio che fa crescere è tutto " (1 Co. 3.7): "ho fatica più di loro tutti; non già io, però, ma la grazia di Dio che è con me " (1 Co. 15.10).
È necessario considerare con attenzione, e ricordare, quelle espressioni in cui Dio, attribuendosi l'illuminazione dei nostri spiriti ed il rinnovamento dei nostri cuori, dichiara sacrilega ogni persona che si vanti di aver parte a quest'opera. Ciò nonostante, nella misura in cui saprà comportarsi docilmente nei riguardi dei ministri che Dio stabilisce, ognuno sperimenterà, a suo profitto, che in realtà questo modo di insegnare non è piaciuto a Dio invano, e non è senza ragione che egli ha imposto questa norma di modestia a tutti i suoi credenti.
7. Ritengo sufficientemente chiarito, in base a quanto è stato detto, come si debba considerare la Chiesa visibile che siamo in grado di conoscere.
Abbiamo notato infatti che la sacra Scrittura parla della Chiesa in duplice modo. A volte il termine indica la Chiesa quale essa è nella sua realtà dinanzi a Dio, in cui sono inclusi soltanto coloro che per grazia di adozione sono figli di Dio e, mediante la santificazione dello Spirito, sono veramente membra di Gesù Cristo. In tal caso non solo fa allusione ai santi che abitano in terra, ma a tutti gli eletti che hanno vissuto sin dall'inizio del mondo.
Spesso invece col nome di Chiesa è indicata la moltitudine degli uomini che, sparsa in diverse parti del mondo, fa professione comune di amare Dio e Gesù Cristo, ha il battesimo come attestazione di fede, e partecipando alla Cena dichiara avere unità nella dottrina e nella carità, dà il suo assenso alla Parola di Dio e ne vuole mantenere la predicazione secondo il comandamento di Gesù Cristo. In questa Chiesa parecchi sono gli ipocriti frammisti ai buoni che non hanno nulla di Gesù Cristo fuorché il nome e l'apparenza, ambiziosi gli uni, avari gli altri, maldicenti alcuni, dissoluti altri, tollerati per un certo tempo sia perché non si possono convertire con provvedimenti giuridici, sia perché la disciplina non è sempre esercitata con la fermezza che sarebbe richiesta. Pure, come è necessario credere quella Chiesa, a noi invisibile e nota solo a Dio, così ci è chiesto di onorare questa Chiesa visibile e di mantenerci in comunione con essa.
8. Il Signore perciò l'ha indicata con indizi e prove evidenti essendo per noi opportuno conoscerla. È bensì vero che a lui soltanto appartiene il privilegio di sapere chi siano i suoi, come ho già mostrato nella citazione di san Paolo (2Ti 2.19).
Egli infatti, affinché la temerarietà degli uomini non si spingesse sino a quel punto, ha provveduto opportunamente a ricordarci, con esperienze quotidiane, quanto i suoi giudizi superino nostri sensi Poiché, da un lato, coloro che sembravano doversi considerare del tutto perduti e in situazioni disperate sono ricondotti sulla retta via, e d'altro lato inciampano quelli che sembravano sicuri.
Perciò secondo la segreta e nascosta predestinazione di Dio, come dice sant'Agostino, si trovano molte pecore fuori della Chiesa e molti lupi dentro. È fra coloro che esteriormente recano il suo contrassegno i suoi occhi soltanto sono in grado di discernere chi siano i santi senza finzione e coloro che debbono perseverare sino alla fine secondo la sostanza stessa della nostra fede.
Tuttavia poiché il Signore sapeva che ci è utile conoscere quali debbano essere considerati suoi figli, si è adattato, su questo punto, alla nostra capacità di intendimento. E per il fatto che non si richiedeva per questo una certezza di fede ha stabilito un giudizio di carità, in base al quale dobbiamo riconoscere quali membri della Chiesa tutti coloro che per confessione di fede, vita esemplare, partecipazione ai sacramenti, confessano con noi un medesimo Dio ed un medesimo Cristo. Essendo per noi necessario riconoscere il corpo della Chiesa per unirci ad esso egli lo ha indicato con segni per noi evidenti.
9. Ecco i dati in base ai quali riconosciamo l'esistenza della Chiesa visibile: ovunque riscontriamo la Parola di Dio essere predicata con purezza, ed ascoltata, i sacramenti essere amministrati secondo l'istituzione di Cristo, non deve sussistere alcun dubbio che quivi sia la Chiesa; non può infatti venir meno la promessa che Cristo ci ha fatto: "dovunque due o tre sono radunati nel nome mio, quivi sono io in mezzo a loro " (Mt. 18.20). Per intendere rettamente questa materia nella sua complessità occorre procedere per gradi considerando i seguenti punti: la Chiesa universale è costituita dalla moltitudine di coloro che sono concordi nella accettazione della verità di Dio e della dottrina della sua Parola, malgrado le diversità di nazionalità e le distanze geografiche che possano sussistere, in quanto è unita da un vincolo di fede.
Le Chiese sparse in ogni città e villaggio sono partecipi di questa Chiesa universale, in modo che ognuna di esse ha il titolo e l'autorità di Chiesa, e le persone che sono dichiarate appartenervi per professione di fede, quantunque possano in realtà non costituire la Chiesa, sono da considerarsi appartenenti ad essa finché non ne siano state escluse per giudizio pubblico. Diverso è infatti il criterio di valutazione della Chiesa e dei singoli.
Può infatti accadere, che in virtù del comune consenso della Chiesa che le tollera nel corpo di Cristo, siamo chiamati a considerare fratelli e credenti persone che non riteniamo tali. Non riconosceremo a queste persone la qualità di membri della Chiesa dal punto di vista di una valutazione personale, ma concederemo loro di aver posto nel popolo di Dio finché questo non sia loro tolto legalmente.
Nei confronti di una comunità invece occorre procedere diversamente. Quando essa possieda il ministero della Parola e lo onori, e mantenga l'amministrazione dei sacramenti, deve essere riconosciuta quale Chiesa in quanto è un fatto certo che la Parola ed i sacramenti non possono sussistere senza frutti. In tal modo noi manterremo quell'unità della Chiesa universale che spiriti diabolici hanno sempre tentato di spezzare, e non annulleremo l'autorità che spetta alle assemblee ecclesiastiche, stabilite in ogni luogo per il bene degli uomini.
10. Abbiamo considerati segni della Chiesa la predicazione della Parola di Dio e l'amministrazione dei sacramenti. Non si può verificare il caso infatti che sussistano questi due elementi senza che fruttifichino con la benedizione di Dio. Non intendo dire che automaticamente ovunque c'è predicazione se ne manifestino i frutti, ma che laddove essa è ricevuta in modo stabile risulta efficace. Perché ovunque la predicazione dell'evangelo è ascoltata con rispetto ed i sacramenti non sono trascurati quivi appare, Cl. Tempo, una forma di Chiesa evidente che non è lecito contestare e di cui non è lecito discutere l'autorità, disprezzare gli ammonimenti, rifiutare le decisioni o avere in non cale le punizioni; e da cui ancor meno è lecito separarsi spezzandone l'unità.
Perché Dio tiene in tale conto la comunione con la sua Chiesa da considerare traditore della cristianità ed apostata colui che si estranei da una comunità cristiana in cui siano presenti il ministero della Parola ed i sacramenti. In tanta considerazione tiene la di lei autorità da identificarla con la sua quando sia violata. Poiché non è titolo di poca importanza l'esser definita colonna e base della verità; e la casa di Dio (1 Ti. 3.15). Con questi termini san Paolo afferma che la Chiesa è stabilita custode della verità di Dio affinché questa non venga meno nel mondo, che Dio si serve del ministero ecclesiastico per custodire e mantenere la pura predicazione della sua Parola e mostrarsi paterno nei nostri riguardi, nutrendosi del cibo spirituale e procurandoci con amore quanto risulta necessario alla nostra salvezza. Né si tratta di lode di poco conto quando è detto che Gesù Cristo ha eletto e presa la sua Chiesa quale sposa per renderla pura e senza macchia (Ef. 5.27) , anzi che è il suo compimento (Ef. 1.23).
Ne consegue che chiunque si diparte dalla Chiesa rinuncia a Dio ed a Gesù Cristo. Tanto più dobbiamo evitare una così grave rottura con cui, per parte nostra, causiamo la rovina della verità di Dio, rendendoci meritevoli di essere distrutti dai fulmini scagliati con tutto l'impeto della sua ira. Non c'è infatti delitto più odioso che spezzare con la nostra slealtà il santo matrimonio che il figlio unico di Dio si è degnato contrarre con noi.
11. Occorre pertanto osservare diligentemente i contrassegni suddetti e tenerli in dovuta considerazione secondo il giudizio di Dio. Perché le macchinazioni di Satana a nulla mirano con tanto sforzo quanto condurci a una di queste due posizioni: toglierci ogni possibile discernimento della Chiesa, abolendo o cancellando quei segni autentici a cui si possa distinguere, ovvero indurci a disprezzarli alla scopo di separarci dalla comunità della Chiesa e porci in stato di ribellione nei suoi confronti.
Il fatto che la pura predicazione dell'evangelo sia stata nascosta per lunghi anni è opera della sua astuzia, e la stessa malizia si manifesta ora nello sforzo di abbattere il ministero che Gesù Cristo ha connesso con la sua Chiesa in modo tale che l'edificazione ne sia compromessa quando esso venga a mancare.
Non è forse una tentazione pericolosa anzi perniciosa, che si insinua nel cuore dell'uomo, quando nasce il pensiero di separarsi da una congregazione in cui siano presenti i segni in base ai quali nostro Signore ritiene sia chiaramente evidenziata la sua Chiesa? Ben si vede quanto risulti necessario il vigilare sia da una parte che dall'altra.
Onde evitare di essere tratti in inganno dal solo termine di Chiesa occorre perciò saggiare ogni comunità che rivendica questo titolo mediante la prova offertaci dalla Parola di Dio, così come si saggia l'oro. Qualora essa possieda nella Parola di Dio e nei suoi sacramenti l'ordine da lui stabilito, non ci inganneremo nel tributarle l'onore che spetta alla Chiesa. Qualora invece, indipendentemente dalla parola di Dio e dai suoi sacramenti, essa pretenda essere riconosciuta quale Chiesa, ci è chiesto di smascherare questo inganno con chiarezza come ci viene chiesto di evitare, nell'altro caso, la temerarietà.
12. Il fatto che il ministero della Parola rettamente esercitato e la pura amministrazione dei sacramenti siano pegno sicuro e valida garanzia per attestare la presenza della Chiesa in una comunità, è di fondamentale importanza, perché ci ricorda che non dobbiamo respingere alcuna assemblea che mantenga l'uno e l'altra quand'anche sia inficiata da molti difetti.
Gli errori, anzi, che si potranno riscontrare nella stessa dottrina o nel modo di amministrare i sacramenti non dovranno allontanarci dalla comunione di una Chiesa in modo definitivo. Gli articoli della dottrina divina infatti non sono tutti dello stesso tipo. La conoscenza di alcuni è fondamentale talché non è lecito avere al loro riguardo il minimo dubbio, in quanto costituiscono i princìpi e gli statuti stessi della cristianità. Vi è un solo Dio, ad esempio, Gesù Cristo è Dio e Figlio di Dio, la nostra salvezza si fonda sulla sua misericordia soltanto e altri simili.
Altri sono oggetto di discussione fra le Chiese e non di meno non rompono l'unità della fede. Facciamo un esempio: qualora una Chiesa ritenesse che le anime, separate dal corpo, sono trasferite immediatamente in cielo, ed un'altra, senza voler dare determinazioni precise, pensasse semplicemente che esse vivono in Dio, e questa diversità di opinioni fosse priva di testardaggine e di contestazione, perché dovrebbero queste due Chiese dividersi l'una dall'altra? Se vogliamo essere perfetti dobbiamo avere uno stesso sentimento, e per il rimanente, se abbiamo qualche divergenza, Dio ci rivelerà la soluzione: sono parole dell'apostolo. Non dimostra forse con questo che l'esistenza di qualche dissenso fra i cristiani nelle materie non fondamentali non deve essere fra loro motivo di contrasto e di rottura? È bensì vero che la cosa principale è un accordo in tutto e su tutto ma, considerando che tutti sono contaminati da qualche elemento di ignoranza occorrerà: ovvero negare ogni Chiesa, ovvero perdonare l'ignoranza di coloro che sbagliano in quelle cose che si possano ignorare, senza pericolo per la propria salvezza, e senza che la fede venga meno.
Non intendo affatto giustificare gli errori, sia pure minimi, e non vorrei che aumentassero con il relativizzarli o lodarli; affermo però che non si deve per un lieve dissenso abbandonare una Chiesa in cui siano mantenuti, nella loro integrità, la dottrina fondamentale della nostra salvezza ed i sacramenti così come il Signore li ha istituiti. Sforzandoci però di porre rimedio agli errori che in essa ci dispiacciono compiamo solo il nostro dovere. A questo ci induce la parola di san Paolo: se una rivelazione è data a uno di quelli che stanno seduti, si alzi a parlare e il precedente si taccia (1 Co. 14.30). Risulta così in base a questo testo che ad ogni membro della Chiesa è affidato il compito di edificare gli altri secondo la misura della grazia che ha in lui, purché questo sia fatto con ordine e decoro, e che non dobbiamo rinunciare alla comunione della Chiesa ma anzi dimorare in essa senza turbarne l'ordine e la disciplina.
13. Nel caso di manchevolezze di natura etica si richiede una sopportazione ancor maggiore. Perché è facile cadere in questo campo ed il Diavolo ricorre a macchinazioni straordinariamente abili per sedurci.
Sono sempre esistiti quelli che dando ad intendere di possedere una santità perfetta, quasi fossero angeli di paradiso hanno disprezzato ogni comunità umana in cui si riscontrasse qualche debolezza. Tali furono anticamente i Catari, i sedicenti puri i Donatisti, che si avvicinarono alla follia di costoro. Qualche cosa di simile si verifica al giorno d'oggi fra gli Anabattisti fra quelli che si considerano più abili e più dotti degli altri.
Altri peccano per uno sconsiderato zelo di giustizia più che per presunzione. Quando infatti constatano che fra coloro cui l'Evangelo è annunziato i frutti non corrispondono alla dottrina ne deducono subito che quivi non c'è Chiesa. Questo loro risentimento è pienamente giustificato e certo forniamo da parte nostra anche troppi argomenti, né possiamo in alcun modo giustificare la nostra maledetta pigrizia, che Dio non lascia impunita, che anzi ha già iniziato a castigare con terribili verghe. Guai a noi dunque che causiamo scandalo e turbamento, con la nostra sregolata licenza, a quelle coscienze più deboli.
Tuttavia anche costoro cadono in errore in quanto oltrepassano i limiti. Laddove il Signore richiede sia adoperata clemenza essi la mettono da parte ed assumono un atteggiamento di intransigenza e di severità. Giudicando non esservi alcuna Chiesa, ove non si riscontri una purezza ed una santità di vita perfette, Cl. Pretesto di odiare il vizio si allontanano dalla Chiesa di Dio, pensando allontanarsi dalla compagnia dei malvagi. Dicono che la Chiesa di Gesù Cristo è santa (Ef. 5.26). Dovrebbero però prestare ascolto a quanto dice egli stesso: È commista di buoni e di malvagi. Corrisponde infatti a realtà la parabola che paragona la Chiesa ad una rete che raccoglie ogni sorta di pesci che permangono indistinti finché non sono tutti giunti a riva (Mt. 13.47). Prestino attenzione a quanto è detto in un'altra parabola: la Chiesa è simile ad un campo seminato a frumento rovinato però dalla zizzania da cui la messe non può essere liberata finché non sia stata portata nel granaio (Mt. 13.24). Ascoltino infine quanto ci è detto in un'altra parabola: È simile ad un'aia su cui il grano è ammucchiato e nascosto sotto la paglia finché non sia riposto nel granaio dopo essere stato passato al vaglio (Mt. 3.12). Il Signore dichiara che sino al giorno del giudizio la sua Chiesa sarà nella triste situazione di essere sempre gravata dalla presenza di uomini malvagi, risultano dunque vani i loro sforzi di volerla in assoluto pura e limpida.
14. Non si può tollerare, affermano costoro, che i vizi regnino ovunque in questo modo. Voglio ammettere che sarebbe augurabile una situazione diversa ma citerò in risposta il ragionamento di san Paolo. Tra i Corinzi le persone che avevano errato non si riducevano ad un piccolo gruppo ma tutto il corpo era quasi interamente corrotto, né vi era solo un tipo di mali ma parecchi. Riguardo alle colpe non si trattava di piccole trasgressioni ma di errori gravissimi. La corruzione non risultava solo di natura morale ma altresì dottrinale. Come si comporta in questa situazione il santo Apostolo, uno strumento cioè scelto dallo Spirito Santo, sulla cui testimonianza è fondata la Chiesa? Cerca forse di separarsi da loro? Li esclude dal Regno di Cristo? Proclama una maledizione definitiva per sterminarli? Nulla di tutto ciò, anzi riconosce in essi la Chiesa di Dio e la comunione dei santi.
Se la Chiesa permane fra i Corinzi, quantunque regnino contese, sette, gelosie, si verifichino in gran numero liti e processi, trionfi la malizia, si dia aperta adesione ad un atteggiamento di malvagità che dovrebbe essere esecrato fra gli stessi pagani, quantunque san Paolo sia diffamato, lui che dovrebbe essere riverito come un padre, alcuni si beffino della risurrezione dei morti, distrutta la quale tutto l'Evangelo risulta annientato, quantunque le grazie di Dio siano volte non a favorire la carità ma l'ambizione e molte cose siano fatte in modo disonesto e disdicevole (1 Co. 1.2; 3.3; 5.1; 6.7; 9.1; 15.12) , se dunque la Chiesa permane fra di loro malgrado tutto ciò, e permane in quanto mantengono la predicazione della Parola ed i sacramenti, chi oserà rifiutare il titolo di Chiesa a coloro cui non si può rimproverare neppure la decima parte di quelle colpe? Coloro che giudicano le Chiese attuali con tanto rigore che avrebbero fatto ai Galati che si erano quasi ribellati all'evangelo?
Anche fra loro tuttavia san Paolo riconosce l'esistenza di una qualche forma di comunità cristiana.
15. Obiettano altresì che san Paolo rimprovera aspramente ai Corinzi di tollerare nella loro comunità un uomo dalla condotta immorale (1 Co. 5.2); ed aggiunge la considerazione generale secondo cui non è lecito bere e mangiare con un uomo di cattivi costumi. Da questo deducono: se non è lecito mangiare il pane con un peccatore, a maggior ragione non sarà lecito mangiare con lui il pane del Signore che è sacro.
Riconosco che è certo grandemente disonorevole che i cani ed i porci abbiano posto fra i figli di Dio, e ancor più lo è il fatto che il sacro corpo di Cristo sia loro offerto. E infatti quando una Chiesa ha norme adeguate non tollera nel suo seno i malvagi per nutrirli né riceve alla Cena buoni e cattivi indifferentemente.
Ma poiché i pastori non esercitano sempre una vigilanza rigorosa, ed a volte sono anche più accondiscendenti e tolleranti di quanto converrebbe, o si trovano impediti nell'esercitare la necessaria severità accade che i malvagi non siano sempre esclusi dalla compagnia dei buoni. Ammetto trattarsi di un grave errore né lo voglio sminuire, visto che san Paolo lo condanna con severità, il fatto però che la Chiesa non compia il suo dovere non significa che ognuno debba sentirsi libero di separarsi dagli altri. Ammetto anche che sia compito dei buoni credenti l'astenersi da ogni familiarità con i malvagi, ed il non associarsi, per quanto possibile, ad essi in qualsiasi affare. Una cosa è però il fuggire la compagnia dei malvagi, un'altra il rinunciare la comunione della Chiesa per odio nei loro confronti.
Considerando sacrilego il partecipare con i malvagi alla Cena di nostro Signore, si dimostrano molto più intransigenti di San Paolo. Quando infatti egli ci esorta a prendere la Cena con purezza non chiede di procedere all'esame del proprio compagno o della Chiesa tutta ma di se stessi (1 Co. 11.28).
Dovessimo considerare peccato il partecipare alla Cena con un uomo indegno, certamente ci avrebbe ordinato di guardarci attorno per controllare che nessuno ci contamini con la sua impurità; limitandosi però ad ordinare che ognuno esamini se stesso egli intende indicare con ciò che la presenza dei malvagi non è tale da nuocere. Conforme a questo è il seguito del suo ragionamento quando afferma che chi mangia indegnamente mangia la sua condanna (nello stesso versetto 29). Non dice la condanna altrui ma la propria; giustamente. Poiché non spetta alla decisione del singolo stabilire chi debba essere accolto o respinto. Questa autorità compete alla Chiesa in quanto una decisione di questo tipo non si può attuare senza legittimo ordinamento, come sarà detto appresso. Sarebbe dunque assurdo che un singolo risultasse contaminato dalla indegnità di un altro visto che non ha né la facoltà né l'autorità di respingerlo.
16. Ora, quantunque la tentazione di uno zelo sconsiderato di giustizia minacci anche i migliori, constatiamo che è l'orgoglio e l'errata opinione di essere più santi degli altri a muovere quelli che si dimostrano così pignoli e scrupolosi più che una autentica santità o il desiderio di essa. Coloro che si dimostrano più degli altri audaci nel separarsi dalla Chiesa e si fanno vessilliferi di questi atteggiamenti scismatici non hanno, il più delle volte, altra preoccupazione che mostrarsi migliori di tutti, disprezzando gli altri.
Sant'Agostino si esprime con molto buon senso dicendo: "Visto che la norma di una disciplina ecclesiastica concerne essenzialmente l'unità dello Spirito nel vincolo della pace, che l'Apostolo ci esorta a serbare sopportandoci gli uni gli altri, quando questa unità non sia mantenuta non solo il rimedio risulta superfluo ma dannoso e pertanto non è più rimedio. I maligni, che spinti dalla brama di contesa, più che dall'odio verso l'iniquità, si sforzano di attrarre al loro esempio i semplici ovvero di dividerli e sono in realtà gonfi d'orgoglio, ostinati, astuti nello sparger calunnie, bramosi di sedizioni, fanno appello alla severità, per nascondersi, ed usano, per dividere le Chiese, di questi strumenti che debbono adoperarsi con moderazione per correggere i vizi dei fratelli serbando sincerità di affetto e unità di pace ".
In seguito egli dà questo consiglio ai credenti che hanno a cuore la pace e la concordia: correggano con umanità quanto sarà possibile e quanto risulterà impossibile correggere lo sopportino con pazienza, tollerando con sentimento di carità gli errori del prossimo, finché Dio li corregga o strappi la zizzania e le cattive erbe e ventili il suo grano eliminandone la paglia. Ogni credente deve tenere a mente questi ammonimenti affinché, volendo essere troppo zelante in quest'opera di giustizia, non si allontani dal Regno dei cieli, il solo vero regno di giustizia. Se Dio vuole che manteniamo comunione con la sua Chiesa, rimanendo inseriti nella comunità ecclesiastica quale esiste fra noi, colui che se ne separa corre il grave pericolo di separarsi dalla comunione dei santi.
Chi è tentato di agire in questo modo pensi che nella massa si trovano molti credenti nascosti, e a lui sconosciuti, che pure sono realmente santi davanti a Dio. In secondo luogo consideri che molti fra coloro che gli sembrano viziati, non traggono dai loro vizi motivi di compiacimento o di vanto, ma sono spesso presi dal timore di Dio e si sentono spinti a desiderare una vita migliore e più perfetta. In terzo luogo pensi che non si deve valutare un uomo sulla base di una sola azione perché anche ai più santi accade di cadere gravemente. In quarto luogo consideri che la parola di Dio ha maggior peso ed importanza nel mantenimento della Chiesa di quanto possa avere nel distruggerla la colpa di alcuni malviventi. Consideri infine che il giudizio di Dio e da anteporsi a quello degli uomini quando si tratta di sapere dove è la vera Chiesa.

17. Fanno osservare che, non senza ragione, la Chiesa è detta santa. Dobbiamo però valutare di quale santità si tratti. Se non vogliamo pensare che la Chiesa esista solo laddove è perfetta in ogni sua parte dobbiamo ammettere che non ne troveremo mai una siffatta.
È ben vero quanto dice san Paolo, che Gesù Cristo si è dato per la Chiesa al fine di santificarla e dopo averla purificata Cl. Lavacro dell'acqua mediante la Parola, affin di far comparire dinnanzi a se questa Chiesa gloriosa, senza macchia, senza ruga, o cosa alcuna simile, ma santa ed irreprensibile (Ef. 5.25). Ma non è men vero che il Signore è all'opera ogni giorno per cancellare le sue rughe e purificarla da ogni macchia. Ne consegue che la sua santità non è ancora perfetta. La Chiesa deve dunque considerarsi santa nel senso che quotidianamente ricerca ma non possiede ancora la sua perfezione; quotidianamente progredisce e non è ancora giunta al termine della santità, come verrà ampiamente illustrato altrove.
Pertanto ciò che i profeti dissero, riguardo a Gerusalemme: che sarà santa e gli stranieri non entreranno in essa (Gl. 4.17) , e il tempio di Dio sarà santo cosicché gli impuri non vi entreranno (Is. 35.8) , non si deve intendere nel senso che non vi sia macchia alcuna nei membri della Chiesa; ma nel senso che ai credenti, in quanto aspirano con sincerità ad una santità e purezza integrale, è attribuita, per bontà divina, quella perfezione che ancora non hanno.
Ora quantunque non accada spesso di riscontrare fra gli uomini molti segni di questa santificazione, dobbiamo tuttavia ricordarci che non vi è stata età, dall'inizio del mondo, in cui il Signore non abbia avuto la sua Chiesa, né mai vi sarà. Poiché, quantunque l'intero genere umano, dall'inizio del mondo, sia stato corrotto e pervertito a causa del peccato di Adamo, pure Dio non ha mai cessato di scegliere in questa massa corrotta degli strumenti al suo onore, cosicché non v'è stato periodo della storia che non abbia sperimentato la sua misericordia.
È quanto egli ha attestato con promesse sicure dicendo: "Io ho fatto un patto Cl. Mio eletto; ho fatto questo giuramento a Davide mio servo: io stabilirò la tua progenie in eterno, ed edificherò il tuo trono per ogni età" (Sl. 89.4) "Poiché l'Eterno ha scelto Sion, l'ha desiderata per sua dimora: questo e il mio luogo di riposo in eterno " (Sl. 132.13) , ed ancora: "Così parla l'Eterno, che ha dato il sole come luce del giorno e la luna e le stelle perché siano luce alla notte: se quelle leggi vengono a mancare dinanzi a me allora anche la progenie d'Israele cesserà di essere una nazione nel mio cospetto " (Gr. 31.35-36)
18. Di questo atteggiamento ci hanno dato esempio sia Gesù Cristo che gli apostoli, e quasi tutti i profeti. Orribile impressione suscita la lettura di ciò che scrivono Isaia, Geremia, Gioele, Habacuc e gli altri circa il disordine che regnava, ai loro tempi, nella Chiesa di Gerusalemme. La corruzione, sia nel popolo che fra i governanti ed i preti, era tale che Isaia non esita a chiamare gli uni prìncipi di Sodoma e gli altri popolo di Gomorra (Is. 1.10). La religione stessa appare disprezzata o corrotta.
Nel campo morale si registrano rapine, saccheggi, slealtà, delitti ed altri simili male azioni. Non di meno i profeti non fondavano nuove Chiese per se e non erigevano nuovi altari per offrire i propri sacrifici a parte; ma quali fossero gli uomini, considerando che Dio aveva posto quivi la sua Parola ed aveva prescritto le cerimonie in uso, adoravano anche fra i malvagi con cuore puro ed alzavano le loro mani pure al cielo. Avrebbero preferito morire cento volte piuttosto che partecipare a queste cerimonie se così facendo avessero pensato di contaminarsi in qualche modo. Nessun altro motivo li induceva dunque a rimanere nella Chiesa, in mezzo ai malvagi, se non il desiderio di mantenere l'unità.
Se dunque i santi profeti hanno avuto scrupolo ad allontanarsi dalla Chiesa a motivo dei gravi peccati, non solo di singoli, ma di quasi tutto il popolo, che regnavano allora, troppo grande sarebbe la nostra presunzione qualora osassimo separarci dalla comunione della Chiesa non appena la vita di qualcuno ci sembrasse insoddisfacente, secondo il nostro giudizio, o risultasse non conforme alla professione di fede cristiana.
19. Similmente che dovremmo dire dei tempi di Gesù e dei suoi apostoli? Né l'empietà radicata dei farisei né la vita dissoluta del popolo hanno impedito loro di partecipare ai sacrifici con costoro, recarsi al Tempio per adorare Dio e fare preghiere solenni; azioni che non avrebbero mai compiute se non avessero avuto la certezza che chi partecipa ai sacramenti di Dio con coscienza pura non è contaminato dalla compagnia dei malvagi. Qualcuno si dichiara insoddisfatto dell'esempio dei profeti e degli apostoli? Riconosca almeno l'autorità di Gesù Cristo.
Molto bene si esprime san Cipriano quando dice: "quantunque vi sia del grano cattivo nella Chiesa e dei vasi impuri non dobbiamo per questo ritirarci da essa, al contrario dobbiamo impegnarci ad essere buon frumento e vasi d'oro o d'argento; il compito di spezzare i vasi di terra spetta a Gesù Cristo solo cui è stato affidata, a questo scopo, la verga di ferro. Nessuno si attribuisca ciò che spetta al solo figlio di Dio: strappare la zizzania, pulire l'aia, ardere la paglia per separarla dal buon grano, sulla base di un giudizio umano è valutazione orgogliosa e sacrilega presunzione ".
Ci siano pertanto chiari questi due punti: colui che abbandona di sua spontanea volontà la comunione esterna con una Chiesa in cui la Parola di Dio sia predicata ed i sacramenti di Dio amministrati, non ha giustificazione alcuna. Secondo, i vizi altrui, quantunque numerosi, non ci impediscono di professare quivi la nostra fede cristiana facendo uso, con costoro, dei sacramenti di nostro Signore, poiché una retta coscienza non è ferita dall'altrui indegnità, fosse del pastore stesso, né cessano di essere salutari per un uomo puro ed integro i sacramenti di nostro Signore, anche se ricevuti da cattivi ed impuri.
20. L'arroganza e la presunzione di costoro va oltre, in quanto non riconoscono nessuna Chiesa se non pura da ogni minima traccia di mondanità; anzi si scagliano con violenza contro i pastori che si sforzano di compiere il loro dovere perché, nell'esortare i credenti a migliorare, ricordano loro che saranno, durante tutta la loro vita, macchiati da qualche vizio e li incitano perciò ad umiliarsi davanti a Dio per ottenere perdono. Questi autorevoli censori, infatti, muovono l'obiezione che così facendo si allontana il popolo dalla perfezione.
Riconosco certo che nell'incitare gli uomini a santità non si deve essere né tiepidi né vili, ma anzi ci si deve impegnare con energia. Il far credere però agli uomini che la perfezione sia raggiunta mentre sono ancora per strada significa pascerli di sogni diabolici. È pertinente il nesso stabilito nel Simbolo apostolico tra la remissione dei peccati e la Chiesa; quella infatti non può essere ottenuta se non da coloro che sono membri di questa, come dice il profeta (Is. 33.14). Questa Gerusalemme celeste deve essere anzitutto edificata perché possa attuarsi, in un secondo tempo, questa grazia: che cioè a tutti coloro che ne saranno cittadini siano rimessi i peccati.
Dicendo che la Chiesa deve essere edificata per prima non penso che essa possa esistere in qualche modo senza la remissione dei peccati, ma nel senso che il Signore non ha offerto la sua misericordia se non alla comunione dei santi.
Il nostro ingresso nella Chiesa e nel Regno di Dio è dunque rappresentato dalla remissione dei peccati (senza la quale non abbiamo alcun patto né alcuna comunione con Dio ) , come è dimostrato dal profeta Osea: "In quel giorno io farò per loro un patto con le bestie dei campi, con gli uccelli del cielo e spezzerò l'arco e la spada e farò cessare ogni guerra sulla terra e farò riposare gli uomini in pace. Ed io ti fidanzerò a me per l'eternità: ti fidanzerò a me in giustizia, in equità, in misericordia e in compassione " (Os 2.20). Vediamo come nostro Signore ci riconcilia a se mediante la sua misericordia. Similmente in un altro testo quando annunzia che raccoglierà il popolo che aveva disperso nella sua ira: "Io li purificherò di tutta l'iniquità con la quale hanno peccato contro di me " (Gr. 33.8). Siamo pertanto accolti nella comunione della Chiesa mediante il segno della purificazione e ci è così mostrato che non abbiamo alcun accesso alla famiglia di Dio se non sono prima, per sua bontà, nettate le nostre sozzure.
21. Di fatto la remissione dei peccati non rappresenta solo la forma con cui Dio ci accoglie nella sua Chiesa una volta, ma lo strumento con cui ci mantiene e conserva in essa. A che scopo infatti nostro Signore ci offrirebbe un perdono che non recasse alcuna utilità? In realtà la misericordia di Dio risulterebbe vana ed inefficace se ci venisse concessa solo una volta. Di questo ogni credente può rendersi conto visto che non c'è nessuno che non si senta durante tutta la vita colpevole di molte manchevolezze, bisognoso della misericordia di Dio. Non è senza ragione che Dio promette ai suoi servi, in modo particolare, di essere sempre misericordioso ed ordina che questo messaggio sia loro quotidianamente annunziato. È perciò chiaro che perennemente gravati dai residui del peccato non potremmo, finché viviamo, sussistere un solo istante nella Chiesa se non ci soccorresse assiduamente la grazia di Dio Cl. Perdono dei nostri peccati. Ma il Signore ha chiamato i suoi a salvezza eterna; essi devono dunque sapere che la sua grazia e costantemente pronta a perdonare i loro peccati.
Si deve perciò ritenere questo punto fermamente stabilito: in virtù della misericordia di Dio, i meriti di Gesù Cristo, la santificazione dello Spirito Santo, ci è stata procurata la remissione dei peccati e essa ci è quotidianamente data in quanto siamo uniti al corpo della Chiesa.
22. Per questo il Signore ha dato le chiavi alla sua Chiesa affinché avesse la dispensazione di questa grazia per farcene partecipi. Quando infatti Gesù Cristo ha dato istruzioni ai suoi apostoli ed ha trasmesso loro potestà di rimettere i peccati (Mt. 16.19; 18.18; Gv. 20.23) , non era solo affinché sciogliessero coloro che si convertivano alla fede cristiana e facessero questo una volta soltanto, ma affinché esercitassero questo ufficio in modo costante nel riguardo dei credenti. Questo insegna san Paolo quando scrive che Dio ha affidato ai ministri della sua Chiesa la missione della riconciliazione, per esortare quotidianamente il popolo a riconciliarsi con Dio nel nome di Cristo (Il Corinzi 5.18.20).
Pertanto è nella comunione dei santi che i peccati ci sono continuamente rimessi mediante il ministero della Chiesa quando i preti ed i vescovi, cui è affidato questo incarico, confermano le coscienze dei credenti mediante le promesse dell'evangelo attestando loro che Dio vuole perdonare ed usare misericordia, sia in forma pubblica che privata, secondo le necessità.
Vi sono credenti così deboli da richiedere una consolazione in forma privata e con un carattere particolare e san Paolo afferma di aver ammaestrato il popolo nella fede in Gesù Cristo non solo con discorsi pubblici ma anche nelle case ricordando ad ognuno la sua salvezza (At. 20.20).
Occorre a questo punto prendere nota di tre elementi. I credenti non possono sussistere davanti a Dio, finché abitano in questo corpo mortale, se non in virtù della remissione dei loro peccati in quanto permangono sempre miseri peccatori qual sia il grado di santificazione da essi raggiunto. Il secondo fatto è che tale beneficio è affidato in custodia alla Chiesa cosicché non possiamo ottenere perdono delle nostre colpe dinanzi a Dio se non perseverando nella comunione con essa.
Il terzo fatto è che la distribuzione e la elargizione di questo beneficio avvengono per mezzo dei ministri e dei pastori sia nella predicazione dell'evangelo che nei sacramenti, anzi consiste essenzialmente in questo il potere delle chiavi. Ad ognuno è dunque chiesto di ricercare la remissione dei peccati laddove Dio l'ha posta.
Il problema della riconciliazione pubblica, che fa parte della disciplina, sarà esaminato a suo tempo.
23. È necessario confermare le coscienze nei riguardi di questo errore così pestilenziale, in quanto gli spiriti irrequieti, di cui stiamo discorrendo, si sforzano di sottrarre alla Chiesa questa unica garanzia di salvezza.
Nella Chiesa antica i Novaziani hanno recato turbamento con questa falsa dottrina; ma nel tempo presente alcuni Anabattisti assomigliano loro non poco in questo genere di fantasticherie. Immaginano che il popolo di Dio sia rigenerato mediante il battesimo ad una vita pura ed angelica, che non deve essere contaminata da alcuna macchia carnale. Qualora accada che dopo il battesimo i credenti scadano dalla grazia non rimane loro altra possibilità che l'attesa dell'inesorabile rigore di Dio. Non lasciano in sostanza alcuna speranza di perdono e di misericordia a quei peccatori che siano incorsi a qualche peccato dopo aver ricevuto la grazia di Dio. Questo perché non ammettono nessun'altra remissione dei peccati, se non quella mediante cui siamo rigenerati all'inizio della vita cristiana.
Non c'è menzogna più chiaramente confutata nella Scrittura, tuttavia poiché questa gente trova persone semplici da ingannare (come Novaziano che ebbe anticamente non pochi seguaci) dimostriamo brevemente quanto tale errore sia pericoloso per loro e per gli altri. Primo: tutti i santi, formulando quotidianamente, secondo il comandamento di Dio, la richiesta che i loro peccati siano perdonati (Mt. 6.12) , confessano esplicitamente di essere peccatori. E non chiedono invano, ché il Signore Gesù non ci ha ordinato di domandare cose che non intenda darci. Anzi, avendo promesso che la preghiera da lui insegnataci sarebbe stata esaudita dal Padre nella sua totalità, formula una specifica promessa per questa particolare richiesta. Che potremmo chiedere di più? Il Signore desidera che tutti i santi si riconoscano peccatori quotidianamente durante tutto il corso della loro vita e promette il suo perdono. Non è forse presunzione il voler negare che siano peccatori o il volerli escludere da ogni grazia quando abbiano errato?
Chi dobbiamo perdonare settanta volte sette, cioè sempre? (Mt. 18.22). Non sono forse i nostri fratelli? Perché ci verrebbe chiesto questo perdono se non affinché fossimo imitatori di Dio nella sua clemenza? Dio perdona dunque non una o due volte ma ogni qualvolta il misero peccatore si volge a lui prostrato e turbato dalla coscienza delle sue colpe.
24. Volendo risalire alle origini della Chiesa: i patriarchi erano circoncisi, accolti nel patto di Dio, erano indubbiamente stati educati dai loro padri a seguire giustizia ed integrità eppure tramarono di uccidere il loro fratello (Ge 37.18) : delitto abominevole, degno dei peggiori briganti del mondo. Moderati infine dalle raccomandazioni di Giuda lo vendettero (37.18). Si trattava però sempre di una crudeltà intollerabile. Simeone e Levi, per vendicare la sorella, massacrarono tutta la popolazione di Sichem, provvedimento che non spettava loro di prendere e fu perciò deplorato dal padre (34.25). Ruben commise un esecrabile incesto con la moglie di suo padre (35.22). Giuda, contravvenendo alla naturale moralità, si prostituì con la nuora (38.16). Eppure lungi dall'essere cancellati dal popolo eletto furono stabiliti a capo di esso.
Che diremmo di Davide? Di qual offesa si rese responsabile per soddisfare la sua concupiscenza, spargendo il sangue di un uomo innocente, lui magistrato responsabile della giustizia? (2 Re 11.4-5). Si tratta di un uomo già rigenerato che aveva dato una prova eccellente, al di sopra degli altri figli di Dio. Eppure commise un delitto di cui si sarebbero vergognati i pagani. Questo non impedì che ottenesse misericordia (1 Re 12.13).
Per non soffermarci troppo a lungo su casi particolari quante prove abbiamo della misericordia di Dio verso gli Israeliti? Quante volte ci è mostrato che il Signore fu loro propizio! Quale e infatti la promessa di Mosè al popolo quando ritornerà a Dio dopo essere caduto in idolatria ed aver abbandonato il Dio vivente?: "l'Eterno farà ritornare i tuoi dalla schiavitù, avrà pietà di te, e ti raccoglierà di nuovo di fra tutti i popoli, fra i quali l'Eterno ti aveva disperso. Quand'anche i tuoi esuli fossero all'estremità dei cieli l'Eterno ti raccoglierà di là " (De 30.3-4)
25. Non intendo iniziare un elenco che non avrebbe fine. I profeti infatti sono pieni di queste promesse che annunciano misericordia al popolo che pur si era reso colpevole di infiniti delitti.

Esiste forse iniquità maggiore della ribellione, detta appunto per questo divorzio fra Dio e la sua Chiesa? Non di meno essa pure è perdonata dalla bontà di Dio: "Chi è l'uomo, dice Dio per bocca di Geremia, la cui moglie si prostituisca che la accoglie nuovamente? Ora tutto il paese è contaminato dalla tua prostituzione, popolo di Giuda; la terra ne è piena. Non di meno torna a me e ti accoglierò poiché sono santo e non serbo l'ira in perpetuo " (Gr. 3.1.12). Certo non vi può essere altro sentimento in colui che dichiara non desiderare la morte del peccatore ma la sua conversione e la sua vita (Ez. 18.23.32). Perciò Salomone, dedicando il Tempio, lo consacrava a questo uso: vi fossero esaudite le preghiere fatte per ottenere la remissione dei peccati: "Quando peccheranno contro di te (poiché non v'è uomo che non pecchi ) e tu ti sarai mosso a sdegno contro di loro e li avrai abbandonati in balia del nemico che li menerà in cattività in un paese ostile e lontano, se, nel paese dove saranno schiavi, rientrano in se stessi, se tornano a te e ti rivolgono supplicazioni e dicono Signore abbiamo peccato, abbiamo agito iniquamente, siamo stati malvagi, e così pregando guardano al loro paese, il paese che tu desti ai loro padri, alla casa in cui siamo esaudisci dal cielo le loro preghiere e sii propizio verso il tuo popolo che ha peccato contro di te e perdona le trasgressioni di cui si è reso colpevole verso di te " (3Re 8.46-50)
E non è invano che Dio, nella Legge, ha ordinato sacrifici regolari per il peccato del popolo (Nu. 28.3); egli non avrebbe suggerito questo rimedio se non avesse saputo che i suoi servitori sono costantemente contaminati da vizi.
26. Ora domando se, a causa della venuta di Cristo in cui è stata manifestata ogni pienezza di grazia, i credenti siano stati privati del privilegio di poter chiedere perdono per le loro colpe e ottenere perdono quando abbiano offeso Dio? Questo equivarrebbe ad affermare che Cristo è venuto per la rovina anziché per la salvezza dei suoi in quanto la bontà di Dio, sempre offerta ai santi dell'antico Testamento, risulterebbe ora annullata. Se però prestiamo fede alla Scrittura che afferma in modo chiaro ed esplicito che in Cristo la grazia di Dio ed il suo amore per gli uomini sono stati pienamente manifestati, sono state messe in evidenza le ricchezze della divina misericordia (Tt 1.9; 3.4; 2Ti 1.9) e la riconciliazione con gli uomini è stata realizzata, non v'è dubbio che la sua clemenza sia ora esplicata in modo più abbondante di prima, anziché essere sminuita ed impoverita. Possediamo anche chiari esempi di questo fatto.
San Pietro, pur avendo udito dalla bocca di Gesù Cristo che chiunque non avrebbe confessato il suo nome davanti agli uomini sarebbe stato da lui disconosciuto davanti agli angeli del cielo (Mt. 10.33; Mr. 8.38) , lo rinnegò tre volte, e con imprecazioni (Mt. 26.74). Eppure non è stato escluso dal perdono. Quelli fra i Tessalonicesi che vivevano disordinatamente sono puniti da Paolo, in modo tale però da essere condotti al pentimento (2 Ts. 3.11-12.15). Anche san Pietro non respinge in una situazione disperata Simon Mago ma gli offre una valida speranza invitandolo a pregare Dio per il suo peccato (At. 8.22).
27. Non si dà forse anzi il caso che gravi errori abbiano anticamente dominato interamente una Chiesa? Che faceva san Paolo in tal caso se non ricondurre tutto il popolo sulla retta via piuttosto che abbandonarlo in una situazione di maledizione senza scampo? Il sovvertimento compiuto dai Galati non era colpa leggera (Ga 1.6; 3.1; 4.9). Ancora meno scusabili erano i Corinzi in quanto avevano peccati altrettanto gravi e più numerosi dei Galati. Ciò nonostante né gli uni né gli altri sono esclusi dalla bontà di Dio.
Al contrario, quelli che più degli altri avevano gravemente peccato per immoralità, dissolutezza vengono esplicitamente invitati al ravvedimento (2 Co. 12.21). Poiché il patto che nostro Signore ha stabilito con Cristo e con tutte le sue membra permane e permarrà inviolabile; e questo viene dichiarato quando e detto: che se i suoi figli abbandonano la mia legge e non camminano secondo i miei ordini, se violano i miei statuti e non osservano i miei comandamenti io punirò la loro trasgressione con la verga, e la loro iniquità con percosse; ma non ritirerò loro la mia benignità e non smentirò la mia fedeltà " (Sl. 89.31-34)
Infine nell'ordine del Simbolo ci è mostrato che questa grazia e questa clemenza permangono ed hanno sede nella Chiesa, per sempre; dopo aver posto il fondamento della Chiesa viene infatti aggiunta come conseguenza la remissione dei peccati. Bisogna dunque che essa si attui in coloro che sono nella Chiesa.
28. Altri più astuti, rendendosi conto che la dottrina di Novaziano è riprovata dalla Scrittura in modo così evidente, considerano senza remissione non tutti i peccati ma solo le trasgressioni volontarie in cui si incorre coscientemente ed in modo volontario. Così dicendo pensano che siano perdonati solo i peccati commessi per ignoranza.
Affermazione temeraria cotesta che non lascia alcuna speranza di perdono per un peccato commesso volontariamente, mentre nella Legge il Signore ha stabilito dei sacrifici per cancellare i peccati del suo popolo compiuti volontariamente, ed altri per cancellare quelli compiuti per ignoranza (Le 4).
Ribadisco che non vi è nulla di più chiaro del fatto che il sacrificio unico di Gesù Cristo ha virtù di rimettere i peccati volontari dei credenti, dato che Dio lo ha dichiarato nei sacrifici animali che ne erano prefigurazione.
Chi potrebbe discolpare Davide col pretesto dell'ignoranza visto che è chiara la sua conoscenza della Legge? Ignorava forse qual peccato fosse l'adulterio, l'omicidio, lui che ogni giorno li puniva nei suoi sudditi? Forse che i patriarchi pensavano compiere opera buona ed onesta ammazzando un fratello? I Corinzi avevano così poco appreso da poter considerare gradite a Dio, l'incontinenza, la scostumatezza, l'odio, le contese? San Pietro dopo esser stato così premurosamente ammonito ignorava che fosse delitto rinnegare il Maestro?
Non chiudiamo dunque per nostra mancanza di umanità la porta alla misericordia divina che così liberalmente si offre a noi.
29. Non ignoro che alcuni dottori antichi hanno visto nei peccati quotidianamente perdonati le colpe lievi che si verificano per debolezza della carne. Erano invece d'avviso che la penitenza solenne, richiesta allora per i peccati gravi, non dovesse essere ripetuta più di quanto sia ripetuto il battesimo. Questa opinione non significa che volessero gettare in uno stato di disperazione colui che fosse ricaduto dopo esser stato accolto una volta a penitenza, o che intendessero sminuire le colpe quotidiane, quasi si trattasse di realtà insignificante davanti a Dio. Sapevano bene che i santi inciampano o cadono spesso in qualche infedeltà, che accade loro di giurare senza necessità, di adirarsi oltre misura, giungendo anzi a volte sino ad ingiurie esplicite, e cadere in altri vizi che nostro Signore non considera piccole debolezze. Si esprimevano in questo modo per mettere in evidenza la differenza tra le colpe private e quelle pubbliche che comportano maggior scandalo nella Chiesa.
Il fatto che fossero così restii a perdonare coloro che avevano commesso qualche colpa degna di censura ecclesiastica non deriva dal fatto che essi pensassero che i peccati ottengono difficilmente il perdono divino, con questa severità intendevano creare timore negli altri affinché non cadessero in queste colpe meritevoli della scomunica ecclesiastica.
La Parola di Dio però che dobbiamo tenere normativa a questo riguardo richiede maggior moderazione e umanità. Essa infatti insegna che nella disciplina ecclesiastica il rigore non deve spingersi sino al punto da opprimere di tristezza quello di cui si deve procacciare il bene come abbiamo più sopra dimostrato.
CAPITOLO 2
CONFRONTO TRA LA FALSA E LA VERA CHIESA
1. È stato illustrato precedentemente quale importanza debba avere fra noi il ministero della parola di Dio e dei sacramenti, e di quanto onore debbano essere circondati in quanto segno e prova della Chiesa, al punto che ovunque esso permanga nella sua integrità, nessun vizio nel campo dei costumi può impedire che quivi sia la Chiesa. In secondo luogo è stato dimostrato che anche qualora si riscontri, nella dottrina o nei sacramenti, qualche piccolo errore questi non perdono la loro efficacia, ma si debbono anzi perdonare e tollerare tali errori nella misura in cui non intaccano il principio fondamentale della nostra religione e non contraddicono gli articoli di fede cui deve sottostare ogni credente. Per quanto concerne i sacramenti si possono tollerare errori che non cancellano o sovvertono l'istituzione del Signore.
Qualora avvenga invece che l'errore si faccia strada sì da distruggere i punti fondamentali della dottrina cristiana e dei sacramenti, talché l'uso ne sia corrotto, la rovina della Chiesa segue così come accadrebbe nella vita di un uomo qualora gli si tagliasse la gola o lo si colpisse al cuore. Lo dimostra san Paolo, affermando che la Chiesa è fondata sulla dottrina dei profeti e degli apostoli, essendo Gesù Cristo la pietra angolare (Ef. 2.20).
Se il fondamento della Chiesa è rappresentato dalla dottrina degli apostoli e dei profeti, che insegna ai credenti a porre la loro salvezza in Gesù Cristo soltanto, come potrà l'edificio stare in piedi quando si elimini questa dottrina? È inevitabile dunque che la Chiesa cada quando sia sovvertita la dottrina che la sostiene. Se la Chiesa è colonna e base della verità (1 Ti. 3.15) non v'è dubbio che essa risulti assente ove regnano falsità e menzogna.
2. Essendosi questo verificato in tutto il papismo, è facile dedurre quale Chiesa vi sussista. Il ministero della Parola, sostituito da un governo perverso e farcito di menzogne, che spegne e soffoca la pura luce della dottrina. La santa Cena di nostro Signore, sostituita da un esecrabile sacrilegio. Il servizio di Dio, interamente deturpato da forme di varia superstizione. Sepolto o respinto quell'insegnamento senza cui la cristianità non può sussistere. Le assemblee pubbliche ridotte a scuole di idolatria e di empietà.
Non dobbiamo dunque temere, rifiutando di partecipare a questi sacrilegi, di rompere i legami con la Chiesa di Dio. La comunione con la Chiesa non è stata istituita per diventare un vincolo che ci leghi all'idolatria, all'empietà, all'ignoranza di Dio e ad altre infedeltà, ma piuttosto per mantenerci nei timor di Dio e nell'obbedienza alla sua verità.
So bene quanto gli adulatori del Papa magnificano la loro Chiesa per far credere che non ve ne sia altra al mondo. E subito concludono, quasi avessero già vinta la loro causa, che tutti coloro che si sottraggono alla sua obbedienza sono scismatici, tutti coloro che osano aprir bocca per contestare la sua dottrina sono eretici. Con quali argomenti provano costoro di essere la vera Chiesa? Si appellano alla storia antica, riferendosi alle situazioni un tempo esistenti in Italia, Spagna, Gallia e rivendicano la loro discendenza da quei santi personaggi che, in queste nazioni, sono stati fondatori delle Chiese ed hanno sopportato lotte e morte per mantenere le loro dottrine. Sostengono che per questo la Chiesa, stabilita fra loro in virtù sia dei doni spirituali di Dio che del sangue dei santi martiri, è stata conservata per successione perpetua dei vescovi in modo da non scadere. Citano l'alta considerazione in cui questa successione è stata tenuta da Ireneo, Tertulliano, Origene, sant'Agostino e gli altri antichi dottori.
Sono tuttavia in grado di dimostrare, a chiunque voglia prestare ascolto, quanto siano frivoli e privi di fondamento tali riferimenti. Vorrei altresì esortare coloro che ne fanno uso a prestare attenzione ai miei argomenti, se pensassi poter recare loro un qualche aiuto. Ma poiché essi non hanno alcun riguardo per la verità e cercano solo di mantenere il loro utile privato mi rivolgerò essenzialmente agli uomini onesti e desiderosi di conoscere la verità e mostrerò loro come possano districarsi in tutti questi cavilli.
Domando in primo luogo ai nostri avversari perché non fanno riferimento alla situazione dell'Africa, dell'Egitto, dell'Asia. Semplicemente perché è stata quivi interrotta quella successione episcopale, in base alla quale pretendono che la Chiesa sia stata conservata fra loro. Si ribadisce così la tesi che essi hanno la vera Chiesa, in quanto non è mai stata senza vescovi sin dall'inizio, e visto che si sono susseguiti gli uni agli altri ininterrottamente.
Che risponderanno se, per parte mia, mi riferisco alla Grecia? In base a quale considerazione, domando, si può affermare che in Grecia la Chiesa è morta, proprio là dove quella successione, che secondo la loro fantasia è l'unico mezzo per conservare la Chiesa, non è mai stata interrotta? Considerano i Greci scismatici; per quale motivo? In quanto, replicano, hanno perso i loro privilegi ribellandosi alla santa Sede apostolica di Roma. E che? Non meriterebbero forse, a più forte ragione, di perderli coloro che si ribellano a Cristo? Da questo deriva che la garanzia fornita dalla loro successione risulta vana quando la verità di Cristo non venga mantenuta, nella sua interezza, così come si è ricevuta dai padri.
3. Si dà così il caso che i difensori della Chiesa romana si valgano oggi degli stessi argomenti cui ricorrevano gli Ebrei nel rispondere ai profeti di Dio, quando questi li redarguivano per la loro cecità, empietà, idolatria. Come quelli si vantavano di possedere il Tempio, le cerimonie, il sacerdozio, realtà in cui ritenevano dovesse ravvisarsi la Chiesa, questi, al posto della Chiesa, ci presentano una esteriorità che spesso si può riscontrare anche dove non vi sia Chiesa, e senza la quale la Chiesa può esistere benissimo. Non è perciò necessario ricorrere, per abbattere costoro, ad altro argomento che a quello adoperato da Geremia per distruggere la vana fiducia degli Ebrei invitandoli a non gloriarsi con parole menzognere dicendo: È il tempio del Signore, è il tempio del Signore, è il tempio del Signore! (Gr. 7.4). Dio infatti non riconosce quale tempio un luogo dove la sua Parola non sia udita od onorata. Perciò, quantunque anticamente la gloria di Dio risiedesse nel Tempio fra i cherubini (Ez. 10.4) ed egli avesse promesso di stabilire quivi la sua sede in perpetuo, quando i sacerdoti ebbero corrotto il suo culto con superstizioni si allontanò e lasciò il luogo privo di gloria. Se quel tempio che sembrava essere destinato a perpetua dimora di Dio è stato invece da lui abbandonato e reso profano non dobbiamo pensare che Dio sia vincolato a luoghi o a persone o determinato da cerimonie esterne in modo da esser quasi costretto a dimorare con coloro che hanno soltanto il titolo e l'apparenza di Chiesa.
A questo argomento si riferisce la polemica di Paolo nella lettera ai Romani dal capitolo 9 al 12. Le coscienze deboli erano infatti assai turbate dal fatto che gli Ebrei, pur essendo, apparentemente, il popolo di Dio, non solo respingessero l'Evangelo ma anche lo perseguitassero. L'Apostolo perciò, dopo aver trattato i problemi dottrinali, risponde a questo interrogativo contestando che gli Ebrei, nemici della verità, siano la Chiesa, anche se non manca loro nulla di quanto ci è esteriormente richiesto. L'unica motivazione a cui ricorre è questa: essi non accolgono Gesù Cristo.
Egli si esprime in termini ancora più espliciti nella lettera ai Galati, laddove, paragonando Isacco ed Ismaele, dice che parecchi occupano nella Chiesa un posto senza tuttavia possedere l'eredità in quanto non sono stati generati da una madre libera (Ga 4.22). Di qui passa a parlare di due Gerusalemme contrapposte l'una all'altra; come infatti la Legge è stata promulgata sul monte Sinai mentre l'Evangelo è uscito da Gerusalemme così parecchi, pur essendo nati in condizione servile e nutriti in dottrine servili, si vantano sfacciatamente di essere figli di Dio e della Chiesa; anzi, pur non essendo che figliolanza bastarda disprezzano i veri e legittimi figli di Dio.
Quanto a noi, poiché è stato una volta proclamato dal cielo: "la serva sia scacciata con i suoi figli " (Ge 21.10) , Ci prevaliamo di tale inviolabile decreto per calpestare tutte le loro stolte millanterie. Perché se pensano potersi inorgoglire della loro professione di fede esteriore, Ismaele, per parte sua, era circonciso; se si fondano sull'antichità, egli era primogenito della casa di Abramo: eppure vediamo che è stato cancellato. San Paolo ce ne rivela il motivo affermando che dobbiamo considerare figli di Dio autentici soltanto coloro che sono stati generati dal puro seme della Parola e sono perciò legittimi. Per questa ragione Dio afferma non essere affatto vincolato a sacerdoti indegni anche se ha promesso nel patto, stabilito con il padre loro Levi, che questi sarebbe suo messaggero. Anzi rivolge contro a loro la gloria a cui falsamente si appellavano contro i profeti asserendo che la dignità della carica sacerdotale deve essere onorata e stimata in modo singolare; dignità questa che ammette volentieri, ma per rendere la loro situazione ancor più grave, visto che per parte sua è pronto a mantenere fedelmente le sue promesse ma sono essi che non ne tengono conto e meritano così di essere rinnegati a causa della loro slealtà. Il valore di una successione di padre in figlio si riduce a questo, qualora manchi una impostazione comune ed una conformità di atteggiamento atte a dimostrare che i successori seguono coloro che li hanno preceduti. In mancanza di questo elemento coloro che hanno imbastardito la loro origine dovranno essere esclusi da ogni onore e cacciati, a meno che si intenda dare il titolo e l'autorità di Chiesa ad una sinagoga, così perversa e degenere quale era ai tempi di Gesù Cristo, Cl. Pretesto che Caifa era successore di molti ottimi sacerdoti, che anzi la successione si era mantenuta ininterrotta da Aronne sino a lui.
Questo atteggiamento è così lontano dalla realtà che non sarebbe tollerabile neppure nel caso di un governo civile. È infatti senza senso affermare che la tirannia di Caligola, Nerone, Elagabalo ed i loro simili abbia rappresentato la condizione autentica della città di Roma per il solo fatto che costoro succedettero ai saggi governi stabiliti dal popolo. Nulla è soprattutto più superficiale del voler far riferimento alla successione degli uomini, per valutare lo stato della Chiesa, dimenticando la realtà dottrinale. Gli stessi santi dottori, che a sproposito queste canaglie citano contro di noi, non hanno mai inteso stabilire una sorta di diritto ereditario in campo ecclesiastico ovunque i vescovi si siano succeduti gli uni agli altri. Ma poiché era ris.puto ed evidente che, dall'età apostolica sino al tempo loro, non si era verificato alcun cambiamento di dottrina né a Roma né in altre città essi considerano questo fatto come sufficiente per reprimere ogni errore sorto in tempi recenti: in quanto risultava contrario alla verità che si era mantenuta in modo costante e di comune accordo dal tempo degli apostoli.
Questi pasticcioni non ricavano alcun vantaggio dall'imbellettare la loro sinagoga col Nome di Chiesa. Per quanto ci concerne questo termine è certo degno di grande onore, si tratta però di distinguere e sapere che cosa sia la Chiesa. Riguardo a questo non si trovano solo imbarazzati ma immersi nel loro pantano perché scambiano la santa sposa di Gesù Cristo con una prostituta infetta e corrotta. Per non lasciarci ingannare da siffatto travestimento ricordiamo, fra gli altri, quell'avvertimento di sant'Agostino quando dice che la Chiesa è a volte ottenebrata o avvolta da fitte e dense nubi di scandali; a volte appare libera e tranquilla, a volte turbata e sommersa dai flutti dell'afflizione e della tentazione. E ricorda a mo' di esempio che spesso coloro che rappresentano le più solide colonne della Chiesa sono proscritti per la fede o si tengono nascosti qua e là in regioni appartate.
4. Così oggi i difensori della Sede romana, rozzi ed ignoranti quali sono, ci aggrediscono e stordiscono prevalendosi del termine "Chiesa"mentre risulta evidente che Gesù Cristo non ha nemici peggiori del Papa e della sua cricca.
La menzione del Tempio, del sacerdozio e di altre simili esteriorità non ci deve impressionare al punto di farci ammettere l'esistenza della Chiesa laddove non sia presente la Parola di Dio. Perché questo è il segno perpetuo con cui il Signore ha segnato i suoi: "chiunque è per la verità, dice, ascolta la mia voce " (Gv. 18.37). E ancora: "io sono il buon Pastore, e conosco le mie pecore, e le mie mi conoscono. Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le conosco, ed esse mi seguono " (Gv. 10.14-27). Poco prima aveva detto che le pecore seguono il loro pastore in quanto conoscono la sua voce e non seguono un estraneo, anzi lo sfuggono perché non riconoscono la voce di estranei (Gv. 10.4). Perché dunque voler volontariamente correre il rischio di errare andando in cerca della Chiesa, mentre Gesù Cristo ce ne ha dato un segno infallibile? Ovunque infatti riscontriamo questo segno possiamo essere certi che quivi è la Chiesa e dovunque esso risulta assente nessun altro elemento ci può fornire indizi sicuri della sua esistenza. San Paolo infatti dice che la Chiesa è fondata non su opinioni umane, né sul sacerdozio ma sulla dottrina dei profeti e degli apostoli (Ef. 2.20).
Dobbiamo inoltre discernere Gerusalemme da Babilonia, la Chiesa di Dio dalla congregazione degli infedeli e dei perversi, in base a quell'unico criterio stabilito da Gesù Cristo dicendo: chi è da Dio ascolta la parola di Dio; al contrario chi non la vuole ascoltare non è da Dio (Gv. 8.47).
Insomma poiché la Chiesa è il Regno di Dio e Gesù Cristo regna solo mediante la sua Parola chi non comprende che si usano parole menzognere quando si vuol far credere che il Regno di Gesù Cristo sia presente, laddove il suo scettro risulta assente, dove manca cioè quella santa Parola mediante la quale egli governa?
5. Riguardo all'accusa di eresia e di scisma che ci muovono, per il fatto che predichiamo una dottrina diversa dalla loro, non obbediamo alle loro leggi e ai loro regolamenti e teniamo assemblee per conto nostro, sia per quanto concerne le preghiere pubbliche che per l'amministrazione dei sacramenti, si tratta indubbiamente di una accusa grave non tale però da richiedere lunga confutazione.
Sono detti eretici e scismatici coloro che creando una rottura nella Chiesa ne spezzano l'unità. Questa unità è costituita da un duplice legame: accordo dottrinale e carità fraterna. È per questa ragione che sant'Agostino opera una distinzione fra eretici e scismatici, affermando che i primi sono coloro che corrompono la purezza della verità con false dottrine, i secondi coloro che rompono i legami con la comunità dei credenti pur mantenendo con essi un accordo riguardo la fede. Occorre anche sottolineare un altro fatto: il legame che dobbiamo mantenere nella carità è condizionato dalla unità di fede in modo tale che questa rappresenta il fondamento, la norma ed il fine di quella. Ci si ricordi pertanto che quando Dio ci raccomanda l'unità della Chiesa questo significa semplicemente che come siamo uniti in Gesù Cristo riguardo alla dottrina così siano congiunti in lui i nostri sentimenti nella carità. Pertanto san Paolo, nell'esortarci all'unità, pone a suo fondamento il fatto che vi sia un solo Dio, una fede ed un battesimo (Ef. 4.5). Ed anche laddove ci esorta ad essere uniti, sia nella dottrina che nella volontà, egli aggiunge subito che questo deve avvenire in Gesù Cristo (Fl. 2.2-5); affermando così che ogni accordo stabilito all'infuori della Parola di Dio è un'associazione di infedeli e non un consenso di credenti.
6. Analogamente san Cipriano, seguendo san Paolo, dichiara che la fonte dell'unità della Chiesa consiste nel fatto che Gesù Cristo è solo vescovo: e aggiunge, come conseguenza, che vi è una sola Chiesa sparsa ovunque così come il sole ha molti raggi ma la luce è una sola, in un albero vi sono molti rami ma vi e un tronco solo che poggia sulle radici, da una sorgente fluiscono parecchi ruscelli che non sottraggono tuttavia alla sorgente la sua unità. I raggi si separino dal nucleo del sole, l'unità che è in esso non verrà spezzata. Si tagli il ramo di un albero, seccherà. Così la Chiesa, essendo illuminata dalla luce di Dio è sparsa in tutto il mondo; nondimeno vi è una sola luce che si estende ovunque e l'unità del corpo non è rotta. Dopo queste considerazioni egli conclude che tutte le eresie e gli scismi provengono dal fatto che non si torna alla fonte della verità, non si cerca il Capo, non si custodisce la dottrina del maestro celeste.
Gli avvocati del Papa ci accusino ora di eresia per il fatto che abbiamo abbandonato la loro Chiesa; questo abbandono è semplicemente determinato dal fatto che non vi si tollera, in alcun modo, che la verità sia predicata. Non sottolineo il fatto che sono stati loro a espellerci con i fulmini delle loro scomuniche, la motivazione è però sufficiente ad assolverci, a meno che non si intenda condannare come scismatici gli stessi apostoli visto che la situazione è identica. Ricordo che Gesù Cristo ha preannunciato ai suoi apostoli l'espulsione dalle sinagoghe a causa del suo nome (Gv. 16. 2) , e quelle sinagoghe erano considerate, al loro tempo, vere e legittime Chiese. Poiché dunque è evidente che siamo stati buttati fuori dalla Chiesa del Papa e siamo pronti a dimostrare che questo è accaduto per il nome di Cristo, è necessario ricercarne la causa, prima di poter affermare a nostro riguardo qualcosa sia in un senso che nell'altro. Concedo loro questo punto, se lo vogliono, poiché ritengo sufficiente questa considerazione: era necessario che ci allontanassimo da costoro per avvicinarci a Cristo.
7. Come si debbano valutare le Chiese soggette alla tirannia papale risulterà ancor più evidente quando le si paragoni con l'antica Chiesa di Israele quale la conosciamo dalle descrizioni dei profeti.
Nel tempo in cui i Giudei e gli Israeliti osservavano fedelmente il patto con Dio esisteva fra loro una vera Chiesa in quanto, per grazia di Dio, possedevano le realtà costitutive della Chiesa: la dottrina della verità contenuta nella Legge era predicata dai sacerdoti e dai profeti; venivano accolti nella Chiesa mediante il segno della circoncisione; gli altri sacramenti avevano la funzione di esercizi per confermarli nella fede. Non v'è dubbio che possano essere loro riferite per quanto concerne quel tempo tutte le lodi con cui nostro Signore ha onorato la sua Chiesa.
Da quando però, allontanandosi dalla legge di Dio, si volsero all'idolatria ed alla superstizione furono parzialmente privati di tale dignità. Chi oserebbe infatti negare il titolo di Chiesa a coloro ai quali Dio ha affidato la sua parola e l'uso dei suoi sacramenti? D'altra parte però chi oserebbe riconoscere, senza riserve, questo titolo ad un'assemblea in cui la parola di Dio fosse apertamente calpestata e fosse annullata la predicazione della verità, che della Chiesa è la forza basilare e l'anima?
8. Come, dirà qualcuno, non è più esistito alcun elemento di Chiesa fra i Giudei da quando si sono volti all'idolatria? La risposta è facile.
In primo luogo osserveremo che non sono caduti di colpo nell'eccesso, ma sono andati progressivamente decadendo. Per questo fatto non possiamo affermare che le responsabilità di Israele e di Giuda siano state identiche in questo processo iniziale di allontanamento dal puro culto di Dio. Quando Geroboamo fuse i vitelli, contro l'esplicito divieto di Dio, e scelse per i sacrifici un luogo che non era lecito scegliere, egli condusse la religione di Israele alla corruzione totale. Fu invece per cattiva condotta e superstizioni che i Giudei si contaminarono prima di giungere ad una qualche forma palese di idolatria. Infatti, quantunque avessero già dal tempo di Roboamo introdotte parecchie cerimonie perverse, tuttavia, dato che a Gerusalemme si manteneva ancora la dottrina della Legge, l'ordine del sacerdozio e le cerimonie, quali Dio le aveva istituite, i credenti si trovavano in una condizione ecclesiastica tollerabile.
In Israele da Geroboamo sino al regno di Achab non vi fu alcun miglioramento. Anzi, da quel momento, le cose presero ad andare di male in peggio. I suoi successori, sino alla distruzione del regno, furono in parte simili a lui e i migliori seguirono l'esempio di Geroboamo. Comunque si giudichi furono, nel complesso, pessimi idolatri. In Giuda si ebbero molti cambiamenti. Poiché alcuni dei re corrompevano il culto di Dio con false superstizioni, gli altri si sforzavano di riformare gli abusi che si erano verificati. I sacerdoti stessi infine, contaminarono il tempio di Dio con idolatrie evidenti.
9. Neghino ora, se lo possono, i papisti, nello sforzo di trovar giustificazioni ai loro errori, che la Chiesa sia men corrotta e depravata fra loro di quanto fosse il regno di Israele sotto Geroboamo.
La loro idolatria e assai più grave, e non sono più puri, riguardo alla dottrina, neppure di un'oncia, anzi sono forse ancor più corrotti. Dio mi è testimone, e lo saranno tutti coloro che sono dotati di retto giudizio, che non esagero su questo punto, e la realtà stessa lo dimostra.
Volendo costringerci alla comunione con la loro Chiesa richiedono da noi due cose. In primo luogo che prendiamo parte a tutte le loro preghiere, sacramenti, cerimonie. In secondo che attribuiamo alla loro Chiesa tutto l'onore, il potere, i diritti che Gesù Cristo attribuisce alla sua Chiesa.
Riguardo al primo punto riconosco che i profeti, che hanno vissuto a Gerusalemme nei tempi in cui la situazione generale era già fortemente corrotta, non hanno offerto sacrifici a parte, e per pregare non hanno costituito assemblee autonome separandosi dagli altri. Infatti avevano il comandamento di Dio che ordinava di recarsi al tempio di Salomone. Sapevano che i sacerdoti leviti, quand'anche indegni di tale ufficio, dovevano tuttavia essere riconosciuti quali ministri legittimi nell'ordine sacerdotale essendo stati ordinati da Dio (Es. 29.9) e non essendo ancora deposti. Inoltre, ed è questo il punto centrale del nostro problema, non erano obbligati ad assumere nessun atteggiamento superstizioso. Anzi non facevano nulla che non fosse istituito da Dio.
Si riscontra forse fra i papisti una situazione simile? Difficilmente potremmo adunarci con essi senza essere costretti a contaminarci con atti di palese idolatria. Il vincolo essenziale della comunione che si può avere con essi è rappresentato dalla messa che rifiutiamo come sommo sacrilegio. Se a torto o a ragione è quanto vedremo in altra sede. È sufficiente dimostrare ora che ci troviamo in una situazione diversa da quella in cui si trovavano i profeti, che non erano costretti ad assistere o compiere alcuna cerimonia se non istituita da Dio, anche quando offrivano sacrifici con i malvagi.
Se vogliamo trovare un caso analogo al nostro dobbiamo ricavarlo dalla storia del regno di Israele. Secondo l'ordine di Geroboamo la circoncisione era mantenuta, si offrivano sacrifici, la legge continuava ad essere considerata valida, si invocava il Dio adorato dai padri (3Re 13.31). Tuttavia, a causa delle cerimonie inventate e messe in atto contro il divieto di Dio, tutto ciò che vi si faceva doveva essere riprovato come condannabile. Mi si citi infatti il caso di un solo profeta o un credente fedele che abbia adorato o sacrificato in Bethel. Evitavano di farlo, sapendo che non lo avrebbero potuto fare senza contaminarsi con qualche azione sacrilega. Constatiamo dunque che la comunione con la Chiesa non deve essere estesa al punto di richiedere una adesione che implichi forme di culto profane o errate.
10. Un motivo ancor più valido per resistere loro ci è però fornito dal secondo punto. In quanto si afferma che si deve riverenza alla Chiesa e se ne deve riconoscere l'autorità, riceverne le ammonizioni, sottoporsi al suo giudizio, essere in accordo con essa, ne consegue che non possiamo concedere il nome di Chiesa ai papisti senza necessariamente sottoporci ed ubbidire loro.
Sono disposto tuttavia a concedere loro volentieri quanto i profeti hanno concesso ai Giudei ed Israeliti del loro tempo, quando la situazione era simile all'odierna o forse migliore. Vediamo che i profeti denunciarono in ogni occasione le assemblee di costoro come conventicole profane (Is. 1.14) che non sarebbe lecito approvare più di quanto sarebbe lecito rinunciare a Dio. Ed in realtà, se tali assemblee fossero state Chiese, Elia, Michea e gli altri profeti di Israele sarebbero stati estranei alla Chiesa; similmente in Giudea, Isaia, Geremia, Osea e gli altri che, agli occhi sia dei profeti e dei preti del loro tempo sia del popolo, apparivano più esecrabili dei pagani.
Analogamente, qualora si dovessero considerare Chiese quelle assemblee, risulterebbe che la Chiesa di Dio non è affatto colonna di verità (1 Ti. 3.15) ma sostegno di menzogna, non santuario di Dio ma covo di idoli. Si richiedeva dunque che i profeti non avessero alcuna comunione con tali assemblee poiché questo avrebbe significato un cospirare contro Dio.
Per questa stessa ragione sbaglia grandemente chi consideri Chiesa le assemblee che sono sotto la tirannia del Papa, contaminate dall'idolatria, da molte superstizioni, da pessime dottrine, pensando che si debba mantenere questa comunione con esse sino al punto da accettarne le dottrine. Se sono Chiese hanno la potestà delle chiavi; le chiavi sono però legate da un vincolo perenne con la Parola che risulta invece annullata.
Anzi se sono Chiese, deve essere riferita loro quella promessa di Gesù Cristo secondo cui tutto quello che avranno legato in terra sarà legato nei cieli (Mt. 16.19; 18.18; Gv. 20.23). Mentre tutti coloro che senza infingimenti fanno professione di essere servi di Gesù Cristo ne sono espulsi. Da questo risulta, ovvero che la promessa di Gesù Cristo è inconsistente, ovvero che queste non sono Chiese, almeno sotto questo aspetto.
Il ministero della Parola infine è sostituito da scuole di empietà e da un oceano di errori di ogni genere. Per cui neppure sotto questo profilo sono da considerarsi Chiese, oppure non avremo nessun elemento in base al quale le assemblee sante dei credenti risultino diverse dalle conventicole dei Turchi.
11. Tuttavia come sussistevano fra i Giudei alcune prerogative appartenenti alla Chiesa, così non neghiamo che permangano anche oggi fra i papisti tracce della Chiesa, che sussistono, per grazia di Dio, anche in seguito alla scomparsa della Chiesa.
Dio aveva stabilito anticamente il suo patto con i Giudei e questo si manteneva fra loro garantito dalla parola di lui più che dalla loro osservanza. La loro empietà risultava essere un impedimento che il Patto doveva sormontare e, quantunque meritassero, per la loro slealtà, che Dio lo annullasse, nondimeno egli manteneva in mezzo a loro la sua promessa in quanto è costante e fermo nel manifestare la sua bontà. Così la circoncisione non poteva essere corrotta dalle loro mani al punto di non essere più segno e sacramento del patto di Dio. Per questa ragione Dio chiama suoi i figli che nascevano in quel popolò (Ez. 16.20) , che non gli appartenevano affatto se non in virtù d'una speciale benedizione.
Nello stesso modo avendo anticamente posto il suo patto in Francia, in Italia, in Germania e in altri paesi, quantunque tutti siano stati in seguito oppressi dalla tirannia dell'anticristo, ha voluto che il battesimo permanesse a testimonianza di quel patto inviolabile il cui valore sussiste malgrado l'empietà degli uomini in quanto è stabilito e deciso dalla sua bocca.
Similmente ha fatto sì, nella sua provvidenza, che permanessero altri segni affinché la Chiesa non scomparisse del tutto.
Come a volte permangono visibili le fondamenta di edifici demoliti, così nostro Signore non ha permesso che la Chiesa fosse dall'anticristo rasa al suolo al punto che non rimanesse nulla dell'edificio. Perciò pur lasciando che, a motivo dell'ingratitudine degli uomini che avevano disprezzato la sua parola, si producesse una così grande distruzione, ha voluto però che permanesse ancora un qualche residuo a prova e testimonianza che tutto non era abolito.
12. Quando rifiutiamo pertanto ai papisti il titolo di Chiesa, non intendiamo affatto negare che abbiano fra loro qualche elemento di Chiesa; contestiamo soltanto che abbiano la condizione autentica della Chiesa che richiede comunione sia nella dottrina che in tutto quanto appartiene alla professione della nostra fede cristiana.
Daniele e san Paolo hanno preannunziato che l'Anticristo si sarebbe seduto nel tempio di Dio (Da 9.27; 2 Ts. 2.4). Noi affermiamo che il Papa è il capo di quel maledetto ed esecrabile dominio, almeno nella Chiesa occidentale.
Quando è detto che la sede dell'anticristo sarà il tempio di Dio viene con ciò dimostrato che il suo regno non sarà tale da cancellare il nome di Cristo e della sua Chiesa. Ne consegue che non neghiamo che le Chiese su cui egli esercita la sua tirannia permangano Chiese; ma diciamo che le ha profanate con la sua empietà, le ha tormentate con il suo dominio disumano, avvelenate con false e perniciose dottrine, quasi assassinate cosicché Cristo vi è mezzo sepolto, l'Evangelo soffocato, la fede cristiana bandita, il servizio di Dio abolito. In breve ogni cosa vi si trova sotto sopra al punto che l'aspetto è piuttosto quello di Babilonia che della santa città di Dio.
Concludendo, affermo che si tratta di Chiese, in primo luogo perché Dio vi mantiene miracolosamente le tracce del suo popolo anche se miseramente disperse. In secondo luogo in quanto vi permangono alcuni elementi della Chiesa, principalmente quelli la cui efficacia non può essere abolita né dall'astuzia del Diavolo né dalla malizia degli uomini. D'altra parte però, essendo cancellati quegli elementi che, in questo dibattito si debbono prendere in considerazione, affermo che non c'è autentica forma di Chiesa né nelle singole membra né nell'insieme del corno.
CAPITOLO 3
DEI DOTTORI E MINISTRI DELLA CHIESA, DELLA LORO ELEZIONE E DEL LORO UFFICIO
1. È necessario esaminare ora con quale ordine Dio abbia voluto fosse governata la sua Chiesa. Quantunque, infatti, lui solo abbia a governare e regnare su di essa e avere in essa ogni preminenza, il suo dominio e il suo regno si debbano esercitare mediante la sua parola soltanto, egli tuttavia non dimora in mezzo a noi con una presenza visibile (Mt. 26.2) , in modo tale che possiamo udire dalla sua bocca stessa qual sia la sua volontà, perciò si serve, a questo scopo, del servizio di uomini, facendoli suoi luogotenenti; non per rassegnare il suo onore e la sua autorità nelle loro mani, ma soltanto per compiere, per mezzo loro, la sua opera come un artigiano si serve di uno strumento.
Sono costretto a ripetere quanto detto sopra. E bensì vero che egli potrebbe compiere questo da solo, senza aiuto o strumento alcuno, o mediante i suoi angeli, sussistono però alcuni motivi per cui egli preferisce agire per mezzo di uomini.
In primo luogo egli mostra così quale considerazione abbia per noi, in quanto sceglie fra gli uomini coloro che vuole suoi ambasciatori, con la missione di annunziare la sua volontà al mondo, i quali anzi, rappresentano la sua persona; in questo dimostra che in effetti non è senza ragione che ci chiama frequentemente "suoi templi ", visto che ci parla per bocca degli uomini come da cielo.
In secondo luogo si tratta di un esercizio utile e profittevole in vista dell'umiltà, in quanto ci abituiamo ad obbedire alla sua parola anche quando sia predicata da uomini simili a noi; a volte anzi inferiori in dignità. Se egli stesso parlasse dal cielo non desterebbe stupore il fatto che tutti accoglierebbero il suo dire con riverenza e timore. Chi infatti non sarebbe stupito dalla sua potenza qualora la vedesse palese dinanzi agli occhi? Chi non sarebbe spaventato al primo sguardo della sua maestà? Chi non sarebbe confuso vedendo la sua luce infinita? Quando però parla nel nome di Dio un uomo di misera condizione e senza autorità alcuna quanto alla sua persona, in tal caso diamo prova autentica e certa della nostra umiltà e dell'onore che abbiamo per Dio, non facendo difficoltà a mostrarci sottomessi al suo ministero, quantunque la sua persona non abbia alcuna superiorità nei nostri confronti. Dio nasconde così il tesoro della sua celeste sapienza in fragili recipienti di terra (2 Co. 4.7) allo scopo di sperimentare meglio quale sia l'affetto che abbiamo per lui.
In terzo luogo, nulla poteva essere più atto a mantenere fra noi uno spirito di fraterna carità che il legarci con questo vincolo, ordinando che uno fosse pastore per ammaestrare gli altri e facendo sì che questi ricevano da lui insegnamento e istruzione. Perché, se ognuno avesse in se tutto ciò che gli occorre, senza aver bisogno degli altri, dato il carattere orgoglioso della nostra natura, ognuno di noi disprezzerebbe il suo prossimo e sarebbe da lui disprezzato.
Dio pertanto ha collegato la sua Chiesa con un legame che considerava essere il più idoneo, per conservarne l'unità, affidando ad uomini la salvezza e la vita eterna affinché fosse mediata agli altri per mezzo loro.
Questo considerava san Paolo quando, scrivendo agli Efesini, diceva: "Vi è un corpo unico ed un unico Spirito, come pure siete stati chiamati ad un'unica speranza, quella della vostra vocazione. 5'è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un Dio unico e Padre di tutti, che è sopra tuttora tutti ed in tutti. Ma a ciascuno di noi la grazia è stata data secondo la misura del dono largito da Cristo. È detto perciò che, essendo salito ha condotto i suoi nemici prigionieri, e ha fatto dei doni agli uomini. Colui che e salito era innanzi sceso, ed è ris.lito per compiere ogni cosa. Perciò ha ordinato gli uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori e dottori per il perfezionamento dei santi, per l'opera del ministero, in vista di edificare il corpo di Cristo, finché giungiamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del figlio di Dio, allo stato di uomini fatti; affinché non siamo dei bambini sballottati da ogni vento di dottrina, ma che, seguitando verità in carità, noi cresciamo in colui che è il Capo, cioè Cristo, da cui il corpo essendo ben collegato mediante le sue giunture prende accrescimento nella carità, secondo la grazia che è data a ciascun membro " (Ef. 4.4)
2. Con queste parole viene affermato in primo luogo che il ministero degli uomini, di cui Dio si serve per governare la sua Chiesa, è come il legame dei nervi per unire in un corpo i credenti.
In secondo luogo è dimostrato che la Chiesa non si può mantenere nella sua interezza se non valendosi di questi mezzi che il Signore ha istituiti per la sua conservazione: "Gesù Cristo "dice "è salito in alto per compiere o riempire ogni cosa " (Ef. 4.10). Ora, il mezzo per raggiungere questa pienezza è la dispensazione e la distribuzione alla Chiesa delle sue grazie, mediante i suoi servi, che ha insediato in questo ufficio, e a cui ha dato la facoltà di assolvere; anzi, in loro, egli si rende presente alla Chiesa dando efficacia al loro ministero per virtù del suo Spirito affinché la loro opera non risulti vana.
Così dunque si compie il perfezionamento dei santi, così viene edificato il corpo di Cristo (Ef. 4.12) , così cresciamo in ogni cosa in colui che è il capo, e siamo fra noi uniti, così siamo tutti ricondotti all'unità di Cristo: quando cioè la profezia si attua fra noi, riceviamo gli apostoli, non disprezziamo a dottrina che ci viene offerta. Chiunque intenda abolire tale ordinamento e tale governo, ovvero lo disprezzi, considerandolo non necessario lavora dunque a disperdere la Chiesa anzi a ditruggerla interamente. Non v'è infatti luce solare, cibo o bevanda che sia così necessario alla conservazione della vita del corpo quanto lo è il ministero degli apostoli e dei pastori, per la conservazione della Chiesa.
3. Perciò ho già stabilito che nostro Signore ha esaltata la dignità di tale ufficio con ogni lode, affinché lo tenessimo in considerazione quale realtà eccellente fra tutte.
Quando ordina ai profeti di gridare che sono belli i piedi degli evangelisti e che la loro venuta è motivo di felicità (Is. 52.7) , quando chiama gli apostoli "luce del mondo "e "sale della terra " (Mt. 5.13-14) dimostra con ciò di voler fare agli uomini una grazia singolare dando loro dei dottori. E infine non avrebbe potuto tenere in maggior considerazione questo stato che dicendo agli apostoli: "Chi vi ascolta mi ascolta; chi vi respinge mi respinge " (Lu 10.16). Nessun testo però è più chiaro di quello della epistola ai Corinzi dove Paolo affronta di proposito questa questione.
Egli afferma che non v'è nulla di più degno ed eccellente nella Chiesa che il ministero dell'evangelo, in quanto ministero dello Spirito, della salvezza, della vita eterna (2 Co. 4.6; 3.9).
Tutte queste dichiarazioni, ed altre simili, hanno lo scopo di ammonirci a non disprezzare o annullare, per noncuranza nostra, il governo della Chiesa mediante il ministero degli uomini che Gesù Cristo ha istituito per durare sempre.
Anzi ha dichiarato non solo a parole ma con l'esempio quanto ciò fosse necessario. Volendo illuminare in modo completo, nella conoscenza dell'evangelo, il centurione Cornelio gli mandò un messaggero per metterlo in contatto con san Pietro (At. 10.3). Quando volle chiamare a se san Paolo e riceverlo nella sua Chiesa gli parlò direttamente, nondimeno lo rimandò ad un uomo mortale per ricevere la dottrina della salvezza ed il sacramento del battesimo (At. 9.6). Se non è accaduto a caso che un angelo, messaggero di Dio ben altrimenti qualificato, si sia trattenuto dall'annunziare l'Evangelo ma sia andato in cerca di un uomo per farlo, che Gesù Cristo, unico maestro dei credenti, anziché istruire san Paolo lo abbia inviato alla scuola di un uomo, quel san Paolo, si noti, che intendeva rapire al terzo cielo per rivelargli segreti ineffabili (2 Co. 12.2) chi oserà, dopo questo, disprezzare il ministero umano o lasciarlo come cosa superflua, visto che nostro Signore ne ha approvato in questo modo l'uso e la necessità.
4. Facendo menzione di coloro che nella Chiesa occupano un posto di preminenza per reggerla secondo l'ordine di Cristo, san Paolo parla in primo luogo degli apostoli, poi dei profeti, in terzo luogo degli evangelisti, poi i pastori e infine i dottori (Ef. 4.2). Fra tutti costoro, pero, due sono gli uffici a carattere ordinario nella Chiesa cristiana, gli altri sono stati suscitati per grazia di Dio, all'inizio, quando cioè l'Evangelo cominciò ad essere predicato, quantunque a volte ne susciti oggi ancora quando se ne presenta la necessità.
Quale sia l'ufficio di apostolo ) appare evidente dall'ordine che è stato loro rivolto: "Andate, predicate l'Evangelo ad ogni creatura " (Mr. 16.15). Non vengono assegnati a ciascuno precisi limiti territoriali, ma è affidato loro l'incarico di ridurre all'obbedienza di Cristo il mondo intero, affinché, seminando l'Evangelo ovunque sia possibile, stabiliscano il suo Regno in ogni nazione.
Perciò san Paolo, volendo garantire il suo apostolato, non dice di aver acquisito a Cristo luoghi determinati, ma di aver annunziato l'Evangelo qua e là, e non costruendo sul fondamento degli altri, ma fondando Chiese dove il nome del Signore Gesù non era ancora stato udito (Ro 15.19-20). Gli apostoli dunque sono stati inviati per ricondurre il mondo dalla dissipazione in cui si trovava, all'obbedienza di Dio ed edificare ovunque il suo Regno, mediante la predicazione dell'evangelo, ovvero, se si preferisce esprimere la cosa diversamente, porre le fondamenta della Chiesa in tutto il mondo come capo mastri della costruzione.
San Paolo chiama profeti non ogni commentatore della volontà divina in generale, ma colui che aveva fra gli altri qualche rivelazione particolare. Or di profeti siffatti non ne esistono ai tempi nostri oppure non hanno la notorietà che avevano allora.
Col nome di evangelisti egli intende un ufficio simile a quelli degli apostoli, quantunque inferiore a dignità, come furono Luca, Timoteo, Tito e altri simili. Possiamo forse includere in questa categoria i settanta discepoli che Gesù Cristo elesse per essere ministri in secondo grado, dopo i suoi apostoli (Lu 10.1). Se si accetta questa interpretazione del testo di Paolo, come penso debba farsi, questi tre uffici non vennero istituiti per essere perpetui nella Chiesa ma solo per il tempo in cui era necessario organizzare le Chiese laddove non esistevano, o annunciare Gesù Cristo agli Ebrei affin di condurli a lui quale loro Redentore. Non escludo che Dio abbia ancora suscitato degli apostoli, in seguito, o degli evangelisti in loro vece, come vediamo essere accaduto ai nostri giorni. Poiché era necessario che vi fossero tali uomini per ricondurre sulla retta via il misero popolo della Chiesa traviato dall'anticristo. Non dimeno si tratta, lo riaffermo, di un ufficio straordinario che non ha motivo di essere laddove le Chiese siano rettamente organizzate.
Seguono i dottori e pastori di cui la Chiesa non può mai fare a meno. Considero che la differenza tra queste due categorie di ministeri consista nel fatto che i dottori non hanno incarico disciplinare, né di amministrazione dei sacramenti, né di fare esortazioni o ammonizioni, ma solo di esporre la Scrittura affinché sia sempre conservata nella Chiesa una dottrina pura e sana. La carica di pastore invece ricomprende tutte queste mansioni.
5. Abbiamo così definito quali siano gli uffici stabiliti per un tempo nella Chiesa e quali siano destinati a durare in perpetuo. Se congiungiamo evangelisti e apostoli siamo in presenza di due coppie di ministeri corrispondenti l'una all'altra. Le affinità tra dottori e profeti si riscontrano tra apostoli e pastori.
L'ufficio dei profeti è stato più eccelso, a motivo del dono singolare di rivelazione fatto loro ma l'ufficio di dottore ha in ogni cosa il medesimo scopo e si attua quasi con i medesimi mezzi. Nello stesso modo i dodici apostoli che Gesù Cristo ha scelto per annunziare il suo Evangelo hanno superato in dignità e importanza tutti gli altri. Poiché, quantunque secondo il significato del termine ogni ministro dell'evangelo possa dirsi apostolo (per il fatto di essere inviato da Dio e messaggero ) , tuttavia, poiché richiedevasi che fosse approvato da testimonianze sicure la vocazione di quelli che dovevano annunziare l'Evangelo,
In tempi in cui risultava sconosciuto, era opportuno che i dodici che avevano tale incarico (Lu 6.13) , e Paolo aggiuntosi appresso a loro (Ga 1.1) , fossero insigniti di un titolo più eccelso degli altri. San Paolo fa bensì ad Andronico e Giunio l'onore di chiamarli Cl. Nome di "apostoli ", anzi dicendoli eccellenti fra gli altri (Ro 16.7) , quando però intende parlare in senso proprio non attribuisce questo titolo se non a coloro che godevano della suddetta preminenza; tale risulta essere l'uso comune della Scrittura.
Tuttavia i pastori ricoprono una carica simile a quella degli apostoli, con l'eccezione che ognuno di essi ha la sua Chiesa particolare. È: necessario esaminare più ampiamente questo punto.
6. Nostro Signore inviando i suoi apostoli in missione ordinò loro, come abbiamo già detto 8, di predicare l'Evangelo e di battezzare ogni credente nella remissione dei peccati (Mt. 28.19). Aveva però ordinato loro, in precedenza, di distribuire, seguendo il suo esempio, il sacramento del suo corpo e del suo sangue (Lu 22.19). Ecco una norma inviolabile imposta a tutti coloro che si dicono successori degli apostoli e che sono tenuti ad osservare in perpetuo: predicare l'Evangelo e amministrare sacramenti. Ne deduco che chi trascuri l'uno o l'altro non ha diritto di rifarsi agli apostoli.
Che diremo riguardo ai pastori? San Paolo non parla di se stesso ma di tutti loro quando afferma: "Ci si consideri servi di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio " (1 Co. 4.1). Parimenti, in un altro testo: "Bisogna che il vescovo sia attaccato alla Parola, onde sia capace di esortare nella sana dottrina e di convincere i contraddittori " (Tt 1.9). A queste due citazioni e da altre consimili possiamo dedurre che l'ufficio dei pastori comprende questi due elementi: annunziare l'Evangelo e l'amministrare i sacramenti
L'insegnare non consiste solo nella predicazione pubblica, ma comprende altresì le ammonizioni individuali. San Paolo pertanto si appella alla testimonianza degli Efesini affermando che non li ha lasciati senza annunziare loro quanto era utile sapere, insegnando pubblicamente e nelle case, esortando Giude. E Gentili al ravvedimento e alla fede in Gesù Cristo (At. 20.20). Parimenti, poco appresso, dichiara che non ha cessato dall'ammonire tutti con lacrime.
Non è mia intenzione esporre in questa sede tutte le qualità di un buon pastore ma di illustrare, brevemente, quale impegno assumano coloro che si dicono pastori e pretendono essere considerati tali: è loro domandato di presiedere nella Chiesa in modo tale da non rivestire una dignità inutile ma di istruire il popolo nella dottrina cristiana, amministrare i sacramenti, correggere gli errori con sagge ammonizioni usando la disciplina paterna usata da Gesù Cristo. Poiché Dio ricorda a tutti coloro che ha posti quali sentinelle della Chiesa che se alcuno perisce nella sua ignoranza a causa della loro negligenza il sangue di costoro verrà loro richiesto (Ez. 3.17). Similmente è da riferirsi a tutti la parola di san Paolo, quando afferma che sono maledetti se non predicano l'Evangelo dato che ne è stata loro rivolta vocazione (1 Co. 9.16. Infine, quanto gli apostoli hanno fatto attraverso il mondo, ogni pastore è tenuto a farlo nella Chiesa che gli è stata affidata.
7. Assegnando ad ogni pastore la propria Chiesa non intendiamo negare che chi si trova impegnato in un luogo non possa utilmente aiutare altre Chiese, sia che vi sorga qualche crisi, che possa essere risolta dalla loro presenza, sia che nascano delle difficoltà, in cui si richieda il loro consiglio. Ma poiché è necessario, per il mantenimento della pace nella Chiesa, che ognuno assolva il suo compito affinché tutti non accorrano nel medesimo luogo recandosi fastidio l'un l'altro e provocando confusione, e, similmente, affinché coloro che tengono il proprio profitto e la propria comodità in maggior considerazione che l'edificazione della Chiesa non abbandonino la loro sede, seguendo la propria fantasia, si deve mantenere, per quanto possibile, questa suddivisione geografica affinché ognuno, mantenendosi nei propri confini, non si immischi degli incarichi altrui.
Questa non è invenzione umana ma istituzione di Dio stesso. Leggiamo infatti che Paolo e Barnaba hanno ordinati preti in tutte le Chiese di Listra, di Antiochia e di Iconio (At. 14.22). San Paolo perciò ordina a Tito di consacrare dei vescovi in ogni luogo (Tt 1.5) - Secondo questi princìpi egli menziona i vescovi di Filippi (Fl. 1.1). Ed in un altro testo Archippo, vescovo dei Colossesi (Cl. 4.17). Similmente san Luca riferisce la predicazione che egli fece ai preti della Chiesa di Efeso (At. 20.18).
Chi assume pertanto la carica di una Chiesa, sappia che è obbligato a servirla secondo la vocazione divina. Non già che egli sia legato in modo tale da non potersi muovere quando la necessità lo richieda, purché ciò avvenga con ordine. Intendo però che chi è chiamato in un luogo non deve pensare ad effettuare cambiamenti o prendere ogni giorno nuove decisioni secondo il proprio vantaggio. In secondo luogo quando sia utile che qualcuno cambi di sede, vorrei che egli non facesse questo di sua propria iniziativa ma lasciandosi guidare dall'autorità generale della Chiesa.
8. Ho seguito, nell'adoperare indifferentemente i termini: vescovo, prete, pastore, ministro, l'uso della Scrittura che se ne serve per indicare la stessa funzione. Tutti coloro che hanno il compito di amministrare la Parola sono quivi detti vescovi.
San Paolo, dopo aver ordinato a Tito di stabilire preti in ogni luogo, aggiunge subito: "bisogna che il vescovo sia irreprensibile " (Tt 1.5-7). Parimenti rivolge il suo saluto ai vescovi di Filippi (Fl. 1.1) , che risultano essere parecchi in un solo luogo. E san Luca, dopo aver detto che san Paolo convocò i preti di Efeso, li chiama vescovi.
Si noterà che abbiamo menzionato sin qui solo uffici aventi attinenza con l'amministrazione della Parola, gli unici cui san Paolo si riferisce nel già citato capitolo quarto degli Efesini. Nell'epistola ai Romani e nella I Corinzi però ne elenca altri, quali: "autorità, dono delle guarigioni, governo, interpretazione delle lingue, responsabilità della cura dei poveri ". Tralasciamo quelli che sono stati istituiti solo per un tempo e su cui non occorre per il momento soffermarci.
Vi sono però due tipi destinati a durare: il governo e la cura dei poveri. Sono d'avviso che egli indichi, con l'espressione "governo ", gli anziani che venivano eletti nel popolo per assistere i vescovi nell'esercizio della disciplina. Non si può infatti interpretare in altro modo l'affermazione: "Colui che governalo faccia con diligenza " (Ro 12.8). Risulta pertanto che ogni Chiesa ha avuto, sin dall'inizio, un consiglio o concistoro di uomini retti, di condotta santa, rivestiti di autorità per correggere i vizi come appresso vedremo. L'esperienza dimostrando che tale situazione non è stata solo per un tempo, si deve ritenere che questo incarico di governo è necessario in ogni tempo.
9. La cura dei poveri è stata affidata ai diaconi, quantunque san Paolo nell'epistola ai Romani ne menzioni due tipi: "Quello che dà dia con semplicità, e quello che esercita la misericordia lo faccia con gioia ". Riferendosi indubbiamente agli uffici pubblici della Chiesa si deve ritenere che siano state due forme di diaconato. Se non mi inganno, nel primo caso, egli allude ai diaconi che distribuivano le elemosine, nel secondo a quelli incaricati di provvedere ai poveri e servirli, come ad esempio le vedove, di cui accenna scrivendo a Timoteo (1 Ti. 5.10).
Poiché le donne non potevano esercitare pubblico ufficio all'infuori del servizio dei poveri. Se accogliamo questa tesi, fondata su valide motivazioni, risulteranno esserci due tipi di diaconi: i primi al servizio della Chiesa nell'amministrazione e distribuzione dei beni ai poveri, i secondi nel provvedere agli ammalati ed agli altri indigenti.
Quantunque il concetto di diaconia abbia un significato assai più ampio, tuttavia la Scrittura definisce diaconi in modo particolare coloro che sono costituiti dalla Chiesa per distribuire l'elemosina ed hanno la funzione quasi di esattori e procuratori dei poveri, la cui origine, istituzione, carica è descritta da san Luca negli (At. 6.3). Era sorta, infatti, fra i Greci una lamentela per il fatto che le loro vedove non erano tenute da conto nella distribuzione dei doni ai poveri, gli apostoli, giustificando l'impossibilità di provvedere a due uffici, quali la predicazione e la cura dei poveri, chiesero al popolo di eleggere sette uomini di buona fama che assumessero tale incarico.
Questi furono i diaconi dell'età apostolica, e tali uomini dobbiamo avere oggi seguendo l'esempio della Chiesa primitiva.
10. Poiché ogni cosa, nella Chiesa, deve essere fatta con ordine e decoro (1 Co. 14.40) si applicherà questa regola in modo particolare nel campo del governo; considerando che in questo settore i pericoli sono maggiori che in ogni altro, qualora si verifichi qualche disordine. Ad evitare perciò che spiriti superficiali e turbolenti si introducessero con temerarietà nell'ufficio di insegnamento o di governo della Chiesa, nostro Signore ha esplicitamente ordinato che nessuno assumesse un ministero pubblico senza aver ricevuto vocazione.
Perché un uomo debba essere considerato vero ministro della Chiesa è pertanto richiesto, in primo luogo, che egli sia chiamato nel modo dovuto (Eb. 5.4); in secondo luogo che egli adempia la sua vocazione, cioè esegua l'incarico assunto, come si può ricavare da parecchi testi di san Paolo.
Poiché, volendo giustificare il suo apostolato, menziona comunemente sia la vocazione che la fedeltà del suo impegno. Se un ministro di Gesù Cristo di tale levatura non si vuole attribuire autorità alcuna, se non in virtù dell'essere stabilito per ordine del Signore e dell'adempimento fedele della sua missione, quale mancanza di pudore risulterà esservi quando alcuno, chiunque sia, intenda usurpare questo stesso onore senza vocazione o senza adempiere il compito del suo ufficio. Avendo noi però trattato più sopra della carica ecclesiastica, occorre menzionare ora la sola vocazione.
11. Il problema consta di quattro elementi: quali debbano essere i ministri che si eleggono, come debba avvenire l'elezione, a chi spetti il diritto di eleggerli, con quali cerimonie debbano essere insediati nel loro ufficio. Mi riferisco qui alla sola vocazione esteriore, che fa parte della disciplina ecclesiastica, passando sotto silenzio la vocazione segreta di cui ogni ministro deve avere coscienza davanti a Dio e di cui gli uomini non possono essere testimoni.
Questa vocazione segreta è la ferma certezza che dobbiamo avere, nel cuor nostro, del fatto che la scelta di questa condizione non è stata determinata da cupidigia o ambizione ma da un autentico timore di Dio e dal desiderio di edificare la Chiesa. Questo è richiesto, come ho detto, a tutti noi ministri se vogliamo che il nostro ministero sia approvato da Dio. Tuttavia se qualcuno vi entrasse con cattive intenzioni, non per questo verrebbe meno la vocazione per quanto riguarda la realtà ecclesiastica finché la sua malvagità non diventi palese. Siamo soliti dire che un uomo è chiamato al ministero, quando lo consideriamo adatto ad esso, in quanto la scienza, il timor di Dio e le altre qualità di un buon pastore sono come una preparazione per il ministero. Poiché, a coloro che sono chiamati a questo ufficio, Dio fornisce in precedenza gli strumenti necessari per assolverlo affinché non vi giungano sprovvisti ed impreparati.
San Paolo pertanto nella I lettera ai Corinzi volendo trattare degli uffici ecclesiastici, inizia con l'elencare i doni che debbono possedere coloro che sono chiamati (1 Co. 12.7). Essendo questo il primo dei quattro argomenti che ho menzionato iniziamo la trattazione con questo.
12. Quali debbano essere coloro che vengono eletti vescovi è illustrato ampiamente da san Paolo in due testi (1 Ti. 3.1 ; Tt 1.7). Il pensiero fondamentale tuttavia si riassume in questo: non si eleggano persone che non abbiano sana dottrina e vita santa, o siano inficiati da qualche vizio palese che li renda spregevoli e renda il loro ministero oggetto di critica. Considerazioni analoghe valgano per i diaconi e i preti.
Per prima cosa occorre considerare che non siano inetti o incapaci a reggere la carica loro affidata, siano cioè provveduti dei doni necessari per adempiere il loro incarico. In questo modo nostro Signore Gesù Cristo, volendo inviare i suoi apostoli, li ha anzitutto dotati e riforniti di quelle armi e di quegli strumenti di cui non potevano fare a meno (Lu 21.15; 24.49; At. 1.8). E san Paolo avendo descritto un buon vescovo, esorta Timoteo a non contaminarsi eleggendo persone che non abbiano tali requisiti (1 Ti. 5.22).
Il problema della elezione non consiste nella cerimonia ma nella vigilanza e nella sollecitudine di cui si deve usare nel procedere a tale elezione. In questo contesto si spiegano i digiuni e le preghiere che, a dire di san Luca, facevano i credenti prima di nominare dei preti (At. 14.23). Poiché, consci del fatto che trattavasi di una decisione di grande importanza, non osavano prendere iniziativa alcuna se non con estremo timore, meditando lungamente su quanto avevano da fare. Ed in modo principale si sentivano in dovere di pregare Dio per chiedere lo spirito di consiglio e di discernimento.
13. Il terzo punto della nostra trattazione riguarda le persone a cui spetta il diritto di eleggere i ministri non è possibile ricavare una regola normativa dall'istituzione o elezione degli apostoli, per il fatto che non fu affatto simile alla vocazione comune degli altri ministri. Trattandosi, nel caso loro, di un ufficio eccezionale, che implicava una qualche preminenza sugli altri, dovevano essere eletti per bocca stessa. Del Signore. Gli apostoli dunque non sono stati ordinati nella loro carica mediante una elezione umana, ma dal solo ordine di Dio e di Gesù Cristo. Da ciò deriva altresì il fatto che quando vollero sostituire Giuda non osarono procedere alla nomina di alcuno ma ne scelsero due, pregando Dio di dichiarare mediante la sorte quale avesse scelto (At. 1.23). Nello stesso senso deve essere inteso quanto dice san Paolo ai Galati negando di essere stato creato apostolo per volontà di uomini, o da uomini, ma da Gesù Cristo e da Dio Padre (Ga 1.12).
Per quanto concerne il primo punto: il non essere stato eletto per decisione umana, questo gli fu comune con tutti i buoni ministri. Poiché nessuno può esercitare il santo ministero della Parola qualora non sia chiamato da Dio. Riguardo all'altro fatto: il non essere eletto da uomini, si tratta di un elemento caratteristico e particolare. Quando pertanto egli si vanta di non essere stato eletto da uomini non intende solo gloriarsi di ciò che ogni buon pastore deve avere, ma intende altresì garantire il suo apostolato. Vivevano infatti fra i Galati persone che si sforzavano di sminuire la sua autorità, affermando non essere l'apostolo che un discepolo insignificante ordinato dagli apostoli; per mantenere la divinità della sua predicazione, che quei malvagi volevano sminuire, era necessario che egli mostrasse di non essere in nulla inferiore agli altri apostoli. Egli afferma pertanto non esser stato eletto sulla base del giudizio di uomini, come erano i pastori comuni, ma per ordine e decreto di Dio.
14. Che la vocazione legittima di un vescovo richieda la sua elezione da parte degli uomini, nessuna persona di buon senso vorrà contestarlo, considerando le numerose testimonianze della Scrittura al riguardo.
Né questo risulta contraddetto da quel testo di san Paolo che abbiamo esaminato, dove dice che non è stato eletto né dagli uomini né per mezzo di uomini (Ga 1.1) , dato che in questo non parla dell'elezione ordinaria dei ministri ma del privilegio particolare degli apostoli. E quantunque egli sia stato eletto dal Signore in modo eccezionale, è tuttavia presente nella sua vocazione l'ordinamento ecclesiastico. Narra infatti san Luca che, quando gli apostoli pregavano e digiunavano, lo Spirito Santo disse loro: "Mettetemi da parte Paolo e Barnaba per l'opera alla quale li ho chiamati " (At. 13.2). Che significato può avere questa messa a parte e l'imposizione delle mani quando già lo Spirito Santo aveva attestato la sua elezione, se non per garantire la norma ecclesiastica che i ministri fossero eletti dagli uomini? Né Dio poteva dare la sua approvazione a quest'ordine in modo più evidente e con un esempio più notevole, che richiedendo l'ordinazione di san Paolo da parte della Chiesa dopo aver dichiarato che lo costituiva apostolo delle genti.
Il medesimo fatto si può altresì notare nella elezione di Mattia (At. 1.23). Essendo il ministero apostolico così elevato la Chiesa non ebbe l'ardire di porvi un uomo, a suo giudizio, ma ne scelse due da presentare alla sorte. In tal modo il governo della Chiesa si esercitava in questa elezione eppure si lasciava a Dio di mostrare quale dei due avesse eletto.
15. Un problema da affrontare ora è quello di sapere se un ministro debba essere eletto da tutta la Chiesa o dagli altri ministri e anziani, oppure se debba essere ordinato da un uomo solo.
Quelli che vogliono affidare questo compito all'autorità di uno solo citano le parole di san Paolo a Tito: "Ti ho lasciato a Creta affinché tu istituisca dei preti in ogni città " (Tt 1.5). Parimenti a Timoteo: "Non imporre le mani ad alcuno con precipitazione " (1 Ti. 5.22). Chi immaginasse che Timoteo abbia esercitato in Efeso una sorta di autorità monarchica, disponendo a suo piacimento ogni cosa, e che Tito abbia fatto lo stesso in Creta si ingannerebbe grandemente. Entrambi hanno presieduto alle elezioni per condurre il popolo con saggi consigli e non certo per fare e decidere ciò che a loro piaceva ad esclusione degli altri. Dimostrerò, con un esempio, che questo non è frutto di mia invenzione. San Luca narra che Paolo e Barnaba hanno creato nella Chiesa dei preti, ma nel menzionare questi fatti ne sottolinea subito le modalità; li hanno creati mediante suffragio o, come dice il termine greco, mediante la voce del popolo (At. 14.23).
Non erano dunque loro a scegliere, ma il popolo, che esprimeva, secondo l'uso del paese, la sua scelta, con alzata di mano come testimoniano gli storici. Si tratta di un'espressione comune, come quando gli storici dicono che un console creava gli ufficiali raccogliendo i suffragi popolari e presiedendo alle elezioni. Non è certo pensabile che Paolo abbia concesso a Tito e a Timoteo di prendere delle iniziative che egli stesso non 5i era sentito di prendere. Ora sappiamo che avevano l'abitudine di creare i ministri sulla base del consenso e dei suffragi del popolo. Si devono dunque interpretare i testi summenzionati nel senso che la libertà e il diritto della Chiesa non debbano essere in nulla cancellati o sminuiti.
San Cipriano afferma giustamente che in base all'autorità di Dio un prete viene eletto in presenza di tutti, affinché sia considerato degno ed idoneo in base della testimonianza del popolo.
Vediamo infatti che questo è stato prescritto dal comandamento divino per i sacerdoti levitici presentati al popolo prima della consacrazione (Le 8.6 ; Nu. 20.26). In questo modo Mattia fu aggiunto al gruppo degli apostoli, e non diversamente furono creati i sette diaconi (At. 1.15 ; 6.2).
Questi esempi ci mostrano, afferma san Cipriano, che un sacerdote non deve essere creato se non coll'assistenza del popolo affinché l'elezione risulti valida e legittima in quanto vagliata dalla testimonianza di tutti.
Ne risulta che la vocazione di un ministro ordinato dalla parola di Dio è dunque da ritenersi valida quando colui che è stato ritenuto idoneo sia stato creato tale Cl. Consenso e la approvazione del popolo. Del rimanente i pastori presiedano alle elezioni affinché non vengano effettuate dal popolo con leggerezza, intrighi o tumulti.
16. Ci rimane da trattare ora il quarto punto: la cerimonia dell'ordinazione. Risulta evidente che gli apostoli non ne ebbero altre all'infuori dell'imposizione delle mani. Ritengo abbiano ricevuto questo uso dalla tradizione dei Giudei che presentavano a Dio, mediante l'imposizione delle mani, ciò che volevano benedire e consacrare. Così Giacobbe, volendo benedire Efraim e Manasse, pose le sue mani sul suo capo (Ge 48.14). Altrettanto fece nostro Signore Gesù con i bambini per cui pregava (Mt. 19.15). Per lo stesso motivo, penso, la Legge prescriveva di imporre le mani ai sacrifici che si offrivano.
Gli apostoli pertanto, mediante l'imposizione delle mani, intendevano significare che colui che introducevano nel ministero era offerto a Dio, quantunque abbiano anche imposto le mani a coloro ai quali conferivano i doni visibili dello Spirito Santo (At. 19.6). Comunque sia hanno ricorso a questa cerimonia solenne ogni qualvolta hanno ordinato nel ministero ecclesiastico qualcuno, come constatiamo nel caso di pastori, dottori e diaconi.
Ora, quantunque manchi un comandamento esplicito concernente la imposizione delle mani, constatando che gli apostoli hanno costantemente seguito quella prassi, dobbiamo ritenere normativo ciò che hanno fatto con tanta diligenza. È certo cosa utile onorare dinnanzi al popolo la dignità del ministero mediante tali cerimonie e ricordare in tal modo a colui che è ordinato che non appartiene più a se stesso ma è consacrato al servizio di Dio e della Chiesa.
Anzi, non siamo in presenza di un segno privo di contenuto e di forza quando venga ripristinato nella sua autenticità originaria. Poiché se lo Spirito di Dio non ha istituito nella Chiesa alcunché di inutile dobbiamo pensare che tale cerimonia, procedendo da lui, non è insignificante, non venga pervertita da forme superstiziose.
Dobbiamo infine notare che tutto il popolo non poneva la mano sui ministri ma solo gli altri ministri, quantunque non risulti chiaramente se questo venisse fatto da parecchi o da uno solo. È, chiaro che questo fu fatto per i sette diaconi, per Paolo e Barnaba e per alcuni altri (At. 6.6). Ma san Paolo ricorda di aver imposto lui solo le mani a Timoteo: "Ti ricordo "dice "di ravvivare il dono di Dio che è in te per la imposizione delle mie mani " (2Ti 1.6). Riguardo a quanto egli afferma in un altro testo, circa l'imposizione delle mani del sacerdozio (1 Ti. 4.14) , non lo interpreto come alcuni fanno, nel senso che egli alluda al corpo degli anziani, ma come un'allusione all'ufficio e al ministero, quasi dicesse: vigila affinché non risulti vana la grazia da te ricevuta mediante l'imposizione delle mie mani quando ti elessi nell'ordine del sacerdozio.
CAPITOLO 4
DELLE CONDIZIONI DELLA CHIESA ANTICA E DELLA FORMA DI GOVERNO IN USO PRIMA DEL PAPATO
1. Abbiamo sin qui parlato del governo della Chiesa, seguendo le indicazioni dateci dalla sola parola di Dio. Abbiamo altresì esaminato il problema dei ministri secondo l'istituzione di Gesù Cristo. A far sì che questo sia più chiaramente formulato e impresso nella nostra mente, sarà utile considerare a questo punto, quale sia stata, in questa materia, la prassi seguita dalla Chiesa antica, visto che può offrirci, come in uno specchio, l'immagine di quella istituzione divina di cui abbiamo parlato. Poiché i vescovi antichi, pur avendo emanato molti canoni e molte norme, che possono fare pensare si siano spinti nel legiferare oltre ciò che Dio aveva espresso nella Scrittura, hanno tuttavia conformato in modo così rigoroso le loro norme disciplinari e il loro governo all'unica norma della parola di Dio che si deve ammettere non esservi in essi alcun elemento estraneo. Quantunque il loro modo di agire susciti, sotto alcuni aspetti, riserve nondimeno, dato che si sono impegnati a mantenere l'istituzione del Signore con onestà, e non se ne sono allontanati in modo eccessivo, gioverà esporre brevemente, a questo punto, quale sia stata la loro prassi.
La Scrittura, come abbiamo detto, divide i ministri in tre ordini, così la Chiesa antica ha diviso in tre categorie tutti i suoi ministeri. Dall'ordine dei preti si sceglievano pastori e dottori, gli altri si consacravano alla disciplina ecclesiastica. I diaconi avevano l'incarico di provvedere ai poveri e distribuire le offerte. "Lettori "e "accoliti "non indicavano uffici precisi, ma quei giovani che venivano accolti nel clero e impegnati, molto presto, nel servizio della Chiesa con precisi incarichi, affinché si rendessero pienamente conto a quali compiti sarebbero stati destinati e si preparassero ad assumerli a suo tempo, come illustreremo in seguito. San Girolamo, perciò, dopo aver suddiviso la Chiesa in cinque ordini, menziona i vescovi, poi i preti, in terzo luogo i diaconi, poi i fedeli e infine coloro che non erano ancora battezzati ma si erano presentati per essere istruiti nella fede cristiana in vista del battesimo. Egli non fa dunque riferimento ne ad altri ordini nel clero né ai monaci.
2. Erano considerati preti tutti coloro che avevano l'incarico di insegnamento. Costoro eleggevano, in ogni città, uno di loro, cui attribuivano il titolo di vescovo, affinché, come spesso accade, l'eguaglianza non suscitasse dispute; tuttavia la superiorità del vescovo sui nuovi compagni, in onore e dignità, non era di natura tale da farlo signoreggiare, ma il suo ufficio, in relazione agli altri preti, era paragonabile a quello della presidenza in un consiglio cioè: fare proposte, raccogliere pareri, condurre gli altri con saggi consigli e ammonizioni, impedire con la sua autorità che sorgano disordini, e mettere in esecuzione quanto deliberato da tutti. I Padri antichi ammettono che questo è stato introdotto per necessità, Cl. Consenso degli uomini. San Girolamo, nel commento all'epistola a Tito, dice: "Il prete e un vescovo erano la stessa cosa, e prima che per istigazione del Diavolo si creassero partiti nella cristianità e uno dicesse: "sono di Cefa, e l'altro: "io sono di Apollo ", le Chiese erano rette, in forma comunitaria, dal consiglio dei preti ": "In seguito, per sradicare la radice dei dissensi la carica fu affidata ad uno solo. Perciò come i preti sanno di essere sottoposti al vescovo che presiede su loro, secondo le consuetudini della Chiesa, così questi sappia che è in virtù di consuetudine, più che per disposizione del Signore, che egli è maggiore dei preti e che deve governare la Chiesa con questi ". In un altro testo dimostra però l'antichità di questa prassi; egli dice infatti che in Alessandria i preti, dai tempi di san Marco evangelista, avevano eletto sempre uno di loro cui affidare le presidenza, che chiamavano "vescovo ". Ogni città aveva così un'assemblea di preti che erano pastori e dottori. Tutti infatti avevano l'incarico di insegnare al popolo, esortare e correggere, come ordina san Paolo ai vescovi, e per lasciare dopo di loro continuità di azione, istruivano i giovani, accolti nel clero, per essere loro successori. Ogni città aveva la sua diocesi in cui inviava i preti. Gli abitanti della città e della campagna formavano così un solo corpo ecclesiastico. Il fatto che ogni comunità avesse il suo vescovo è motivato unicamente da ragioni di ordine e per il mantenimento della pace. Il vescovo aveva sugli altri preminenza, in dignità però e non al punto da non essere sottoposto all'assemblea. Se la diocesi risultava così vasta da impedirgli di compiere ovunque il suo ufficio, egli eleggeva, in determinati luoghi, dei preti per rappresentarlo nel disbrigo delle pratiche di scarsa importanza. Costoro venivano detti "vescovi foranei "in quanto rappresentavano il vescovo nelle campagne.
3. Tuttavia per quanto concerne il loro ufficio, sia il vescovo che i preti, erano dispensatori della parola di Dio e dei sacramenti. Solo in Alessandria fu ordinato ai preti di non predicare, a causa della crisi provocata da Ario nella Chiesa, come narra Socrate nella storia tripartita al nono libro. Decisione che, giustamente, san Girolamo disapprova. Sarebbe del resto parsa cosa mostruosa inorgoglirsi della carica di vescovo senza assolverne l'incarico. La disciplina, che vigeva in quel tempo, era tale che ogni ministro si trovava impegnato ad assolvere il suo incarico nel modo ordinato da Dio. Né questo si verificò solo per qualche tempo, ma sempre. Poiché anche nell'età di san Gregorio, quando già la Chiesa era molto decaduta, o per lo meno si era fortemente allontanata dalla sua condizione iniziale, non si sarebbe tollerato che un vescovo si dispensasse dal predicare. Egli afferma, in un testo, che un prete è reo di morte, quando non parli, poiché provoca l'ira di Dio su di se non predicando. E in un altro testo afferma: "quando san Paolo protesta di essere puro del sangue di tutti (At. 20.26) questa parola ammonisce, incolpa, minaccia noi che siamo preti, In quanto siamo colpevoli oltre che delle nostre colpe anche della morte degli altri. Poiché ne uccidiamo altrettanti quanti muoiono quotidianamente mentre ci riposiamo e taciamo". L'affermazione che egli e gli altri tacciano deve intendersi nel senso che non sono impegnati nel proprio compito come dovrebbero. Considerando che egli non perdona a chi adempie il suo incarico solo a metà, ci si può domandare come avrebbe reagito se qualcuno l'avesse trascurato del tutto. Questo principio dunque è stato per lungo tempo chiaro nella Chiesa: il compito essenziale del vescovo è di pascere il popolo con la parola di Dio, o edificare la Chiesa, sia pubblicamente che privatamente con puro insegnamento.
4. Il fatto che ogni provincia avesse il suo arcivescovo, e che il Concilio di Nicea ordinasse dei patriarchi superiori ai vescovi in dignità e onore, sono provvedimenti attuati in vista del mantenimento dell'ordine. Potremmo dispensarci dal parlarne, dato l'uso poco frequente di questo ordinamento, è però opportuno farne menzione a questo punto. Questi gradi gerarchici furono istituiti essenzialmente allo scopo di demandare al sinodo provinciale le questioni sorte in una Chiesa e non risolvibili fra poche persone. Qualora il problema si fosse rivelato di tale importanza o difficoltà da richiedere un ulteriore esame, veniva notificato ai patriarchi che convocavano il concilio dei vescovi dipendenti dalla loro giurisdizione, rimaneva quale istanza di appello superiore il concilio generale.
Alcuni hanno definito questa forma di governo gerarchia ricorrendo ad un termine che mi pare improprio, o per lo meno non riscontrabile nella Scrittura; lo Spirito Santo ha infatti voluto evitare, che nel governo della Chiesa, si introducessero fattori di autorità o di dominio. Considerando tuttavia la realtà, senza soffermarci sul termine, constatiamo che i vescovi antichi non hanno inteso creare una forma di governo ecclesiastico diversa da quella che Dio ha stabilito nella sua parola.
5. Similmente i diaconi non risultano, in quel tempo, diversi da come erano stati al tempo degli apostoli. Raccoglievano infatti sia le offerte fatte quotidianamente dai credenti, che le rendite annue per impiegarle al loro vero scopo; in parte al sostentamento dei ministri, in parte all'aiuto dei poveri, tutto sotto l'autorità del vescovo a cui rendevano conto ogni anno del proprio operato Quando infatti i canoni ecclesiastici ordinano che il vescovo sia dispensatore dei beni della Chiesa, questo non si deve intendere nel senso che egli debba assolvere questo incarico da solo, ma nel senso che gli spetta il compito di indicare al diaconi quali persone debbano essere sostentate con i beni comuni, a chi distribuire il rimanente; abbiano insomma la sovrintendenza per controllare come vadano le cose. Fra i canoni detti "apostolici "ve n'è uno che prescrive: ordiniamo che i vescovi abbiano in loro potere i beni della Chiesa; poiché, se le anime molto più preziose sono state loro affidate, a maggior ragione possono avere il governo del denaro, affinché tutto sia distribuito dai preti e dai diaconi con timore e sollecitudine, sotto la loro responsabilità. Ed il concilio di Antiochia decretò che si ammonissero i vescovi che disponevano dei beni ecclesiastici senza la collaborazione dei preti e dei diaconi.
Non è il caso di dibattere più oltre questo argomento, risultando da parecchie epistole di san Gregorio che, nel suo tempo, in cui l'ordinamento della Chiesa risultava già fortemente corrotto, permaneva in vigore la prassi che i diaconi fossero dispensatori dei beni della Chiesa, sotto l'autorità del vescovo. È verosimile che i suddiaconi siano stati aggiunti, da principio, per aiutare i diaconi nel servizio dei poveri; ma questa differenza è stata a poco a poco annullata. Gli arcidiaconi furono creati quando aumentarono i beni e la responsabilità divenne maggiore e si richiese una forma di governo più differenziata.

San Girolamo afferma che ve n'erano già al suo tempo. Avevano responsabilità tanto dei redditi e possedimenti, quanto degli utensili e delle elemosine quotidiane. Pertanto san Gregorio scrive dell'arcidiacono di Salona che sarà tenuto responsabile dei beni della Chiesa che si perdessero per negligenza o frode. L'ordinazione a leggere l'Evangelo, esortare il popolo alla preghiera, offrire il calice al popolo nella Cena, aveva lo scopo di conferire onore al loro stato; con queste cerimonie li si invitava a non considerare profana la loro condizione ma a sentirsi rivestiti di una carica spirituale e consacrata a Dio.
6. Da questo risulta facile dedurre qual sia stato l'uso dei beni ecclesiastici e la loro dispensazione. Viene spesso affermato nei canoni ecclesiastici e negli scritti degli antichi dottori che tutto il patrimonio della Chiesa in terreni o in denaro appartiene ai poveri. Viene perciò spesso ricordato ai vescovi ed ai diaconi che le ricchezze da loro amministrate non sono di loro proprietà, ma sono destinate all'assistenza dei poveri ed essi risulteranno colpevoli di omicidio qualora le dissipino malamente o se ne impadroniscano. Sono altresì ammoniti a fare la distribuzione di quanto è loro affidato, a coloro cui spetta di diritto, con timore e riverenza come in presenza di Dio, senza parzialità.
Da qui traggono origine le dichiarazioni di san Crisostomo, sant'Ambrogio, sant'Agostino e gli altri per attestare al popolo la loro integrità. Ora però essendo cosa giusta e stabilita da Dio nella Legge che la comunità provveda al sostentamento di coloro che si impegnano totalmente al servizio della Chiesa e poiché molti preti, in quel tempo, facevano dono a Dio del loro patrimonio, facendosi volontariamente poveri, la distribuzione dei beni ecclesiastici avveniva in modo tale che si poteva provvedere al mantenimento di ministri pur non tralasciando i poveri. Quantunque, secondo una norma molto saggia, i ministri cui è chiesto di essere esemplari in sobrietà e temperanza, non ricevessero stipendi tali da poter vivere in eccessi di fasto e di piaceri, ma sufficienti ad una vita di condizioni modeste. Perciò secondo san Girolamo i chierici che, pur essendo in grado d'assicurare il loro sostentamento con i beni di famiglia, sottraggono denari ai poveri, commettono sacrilegio e mangiano la propria condanna .
7. Dapprima l'amministrazione fu libera, in quanto si poteva fare pieno affidamento sulla integrità dei vescovi e dei diaconi e l'onestà rappresentava per loro la legge. In seguito, Cl. Passare del tempo, la concupiscenza di alcuni e la cattiva amministrazione, da cui ebbero origine non pochi scandali, hanno richiesto una serie di norme precise in base alle quali è stato suddiviso il patrimonio ecclesiastico in quattro parti: una prima attribuita al clero, una seconda ai poveri, una terza alla riparazione delle Chiese e altre spese affini, una quarta agli stranieri o alle necessità a carattere eccezionale. Il fatto che, in alcuni canoni, quest'ultima parte sia attribuita al vescovo, non contrasta con la suddivisione summenzionata, poiché non si intende con questo dargliela in modo che la divori da solo o la dissipi a suo piacimento, ma affinché possa disporre di quanto è necessario per esercitare la liberalità verso gli stranieri, secondo l'ordine di san Paolo (1 Ti. 3.2). Questa è l'interpretazione di Gelasio e di san Gregorio. Gelasio infatti ricorre a questo argomento per motivare il fatto che al vescovo non debba attribuirsi nulla più di quanto occorra per provvedere agli stranieri ed ai prigionieri. E san Gregorio si esprime ancora più chiaramente: "il primo provvedimento della Sede apostolica, quando sia istituito un vescovo, è di ordinargli di procedere alla suddivisione in quattro parti di tutto il reddito della Chiesa, di cui una vada al vescovo ed alla sua famiglia per provvedere all'assistenza degli stranieri e degli ospiti, la seconda al clero, la terza ai poveri, la quarta alla riparazione delle Chiese ". Non era dunque lecito al vescovo prendere se non quanto gli occorreva per vivere, per vestirsi sobriamente e senza sfarzo. Se qualcuno eccedeva, conducendo una vita lussuosa e dispendiosa, veniva immediatamente ammonito dagli altri vescovi e deposto qualora non avesse assunto modi più castigati.
8. I fondi consacrati all'ornamento dei templi erano, da principio, poca cosa; ed anche quando la Chiesa ebbe raggiunto una certa ricchezza si mantenne, al riguardo, una grande sobrietà. E tuttavia anche il denaro destinato a quest'uso era accantonato nell'eventualità di necessità particolarmente gravi. Per questo Cirillo, vescovo di Gerusalemme, non potendo provvedere alle necessità dei poveri nel corso di una carestia, vendette tutti i recipienti ed altri ornamenti per darli in elemosine. Analogamente Acacio, vescovo d'Amida, vedendo una moltitudine di Persiani in grande difficoltà, convocò il suo clero e dopo aver fatto una bella allocuzione, dimostrando che il nostro Dio non ha bisogno di piatti o calici poiché né mangia né beve, vendette ogni cosa per salvare o nutrire i poveri . E san Girolamo, criticando la tendenza al superfluo che già si manifestava al tempo suo nell'ornare i templi, loda Esuperio, vescovo di Tolosa, allora vivente, che amministrava il sacramento del corpo di nostro Signore in un piccolo recipiente di vimini ed il sacramento del sangue in un bicchiere, dando però ordine che nessun povero si trovasse nel bisogno . Quanto ho ricordato più sopra di Acacio sant'Ambrogio lo narra di se stesso. Essendo stato criticato dagli Ariani, per aver distrutto recipienti sacri, in vista di pagare il riscatto dei prigionieri caduti in mano agli infedeli, egli ricorre a questa giustificazione degna di essere menzionata: "Colui che ha inviato i suoi apostoli senza oro ha anche raccolto la sua Chiesa senza oro. La Chiesa possiede dell'oro non per tesaurizzare ma per distribuirlo e servirsene in caso di necessità. Perché tenere in serbo ciò che non serve? Sappiamo la quantità di oro e d'argento predata dagli Assiri nel tempio del Signore. Non è forse meglio che i pastori ne ricavino denaro per nutrire i poveri anziché lasciare che un ladro sacrilego se ne impadronisca? Dio non dice forse: perché hai lasciato tanti poveri morire di fame quando avevi l'oro necessario per nutrirli? Perché hai lasciato andare in cattività tanta povera gente senza riscattarli? Perché ne hai lasciati uccidere? Molto meglio serbare i corpi di creature viventi piuttosto che i metalli morti. Che potremo rispondere a questo? Se diciamo: temevo mancassero gli ornamenti nel tempio, Dio risponderà: i sacramenti non hanno bisogno di oro. Come non si procurano con oro così non si rendono preziosi con l'oro. L'ornamento dei sacramenti è la salvezza dei prigionieri ". Vediamo insomma che in quel tempo si metteva in pratica ciò che egli stesso dice, in un altro testo, che tutto quanto possedeva la Chiesa serviva al mantenimento di poveri. Parimenti tutto quanto possedeva un vescovo apparteneva ai poveri .
9. Questi i ministeri o uffici della Chiesa antica. Gli altri gradi del clero infatti, di cui è spesso fatta menzione nei testi dei dottori e nei concili rappresentano stadi preparatori più che veri uffici. Infatti per evitare che la Chiesa si ritrovasse ad essere sprovvista di ministri, quei giovani che, Cl. Consenso dei loro genitori, si presentavano Cl. Proposito di servire, venivano accolti nel clero e prendevano il nome di chierici. Venivano perciò istruiti ed educati in ogni opera buona affinché non risultassero inesperti e ignoranti quando sarebbe stato il momento di affidare loro qualche incarico. Preferirei certo si fosse scelto un altro termine più adatto visto che san Pietro chiama la Chiesa tutta "clero del Signore ", cioè sua eredità (1 Pi. 5.3). Questo termine non si doveva perciò riferire ad un ordine solo. Tuttavia era buona ed utile prassi che, coloro che intendevano consacrare alla Chiesa la propria vita, fossero educati sotto la guida del vescovo ad evitare che qualcuno assumesse una carica senza essere stato adeguatamente preparato e cioè istruito nella buona e santa dottrina, abituato alla disciplina, all'umiltà, all'obbedienza, e parimenti dedito a cose sante per dimenticare ogni occupazione profana e mondana. Come si allenano le reclute, con manovre e esercizi affinché sappiano come comportarsi di fronte al nemico, vi erano nel clero esercizi in vista di preparare coloro che non erano ancora in carica. In primo luogo si dava loro l'incarico di aprire e chiudere i templi ed in tal caso si chiamavano "portieri ". In seguito venivano ordinati, con l'incarico di dimorare Cl. Vescovo ed accompagnarlo, sia per la serietà della carica, che per evitare sospetti affinché in nessun luogo egli fosse senza scorta e senza testimoni. In seguito, affinché risultassero noti al popolo e acquistassero autorità e sicurezza nel presentarsi in pubblico e nel parlare, si affidava loro la lettura dei Sl. Al pulpito, per evitare che, trovandosi nella necessità di predicare, fossero turbati o confusi. Promossi in tal modo di grado in grado venivano valutati in ogni esercizio prima di essere fatti suddiaconi. Intendo far notare che si trattava di una preparazione e un apprendistato più che di uffici precisi, come già abbiamo detto sopra.
10. Riguardo all'elezione dei ministri abbiamo detto che il primo elemento concerne la persona che deve essere eletta, e il secondo la matura riflessione con cui si deve provvedere alla elezione; in questa materia la Chiesa antica ha osservato diligentemente ciò che ordina san Paolo. Era infatti consuetudine di convocare una assemblea, con grande serietà e invocando il nome di Dio, per eleggere i vescovi. Si ricorreva anzi, per effettuare l'esame della vita e della dottrina dei candidati, ad un formulario che seguiva la regola data da san Paolo (1 Ti. 3.2) . Un solo errore vi è stato in questo campo: Cl. Tempo si è assunto un atteggiamento di eccessiva severità, richiedendo ad un vescovo più di quanto avesse chiesto san Paolo. Principalmente quando si è stabilito, Cl. Passare del tempo, che si astenesse dal matrimonio. Per il rimanente ci si è attenuti alle indicazioni di san Paolo che abbiamo menzionato.
Riguardo al terzo punto: a chi spetti l'elezione e la istituzione dei ministri, gli antichi non hanno seguito una prassi costante. Dapprima nessuno poteva essere accolto nel clero senza il consenso di tutto il popolo, al punto che san Cipriano, avendo nominato un lettore senza chiedere il parere della Chiesa, si fa premura di scusarsi perché questo si era fatto, egli dice, contro la prassi, anche se esistevano valide ragioni per farlo. Formula dunque così il suo esordio: "Fratelli miei carissimi, siamo soliti chiedere il vostro parere prima di ordinare i chierici, e dopo aver udito i suggerimenti della Chiesa, valutare i meriti di ognuno ". Queste le sue parole.
Per il fatto che i gradi minori quali il lettore, l'accolita, non rappresentavano pericoli gravi, trattandosi di cariche poco importanti ed essendo il periodo di prova piuttosto lungo si tralasciò, Cl. Passare del tempo, di interpellare il popolo. In seguito il popolo accettò che per gli altri gradi, eccetto il vescovado, il vescovo e i preti scegliessero i candidati giudicando essi della loro idoneità, fuorché il parroco di una parrocchia per cui si richiedeva il consenso del popolo. Non deve stupire che il popolo abbia rinunciato al suo diritto in queste elezioni: nessuno infatti era eletto suddiacono senza essere stato provato per lungo tempo e con la severità che abbiamo detto. Dopo esser stato ancora messo alla prova in questo grado veniva fatto diacono, e giungeva al sacerdozio solo quando aveva fedelmente assolto il suo compito. In tal modo nessuno veniva eletto senza essere stato precedentemente esaminato a lungo anche alla presenza del popolo. Vi erano anzi molti canoni per correggere i difetti dei chierici, cosicché la Chiesa non poteva essere gravata da cattivi sacerdoti o cattivi diaconi, senza che fossero trascurati i rimedi a sua disposizione. Nell'elezione dei preti si richiedeva però espressamente il consenso degli abitanti del luogo; come attesta un canone attribuito ad Anacleto citato nel Decreto, distinctio 77. E si effettuavano le nomine in periodi fissi dell'anno, affinché nessuno venisse introdotto nascostamente senza il consenso popolare e fosse promosso con leggerezza senza avere ottenuto buona testimonianza .
2. Nell'elezione vescovile fu lasciata per lungo tempo libertà al popolo di richiedere che venissero nominate persone gradite a tutti. Il Concilio di Antiochia proibisce pertanto che si ordini un vescovo contro il parere del popolo; decreto che Leone primo conferma dicendo: "si elegga quello che sarà stato richiesto dal clero e dal popolo, o per lo meno dalla maggioranza ". E similmente: "colui che deve presiedere su tutti sia eletto da tutti. Poiché chi è stato ordinato senza essere conosciuto ed esaminato è introdotto con la forza ", ed ancora: "si elegga quello che sarà stato votato dal clero e richiesto dal popolo e sia consacrato dai vescovi della provincia, con l'autorità del metropolita ". Tanta fu la cura dei santi Padri affinché non fosse violata in alcun modo questa libertà popolare che lo stesso concilio ecumenico, riunito a Costantinopoli, non volle ordinare vescovo Nettario senza l'approvazione del clero e del popolo, come risulta dalla lettera inviata al vescovo di Roma . Pertanto quando un vescovo ordinava il suo successore, l'ordinazione era priva di valore, qualora non fosse ratificata dal popolo. Possediamo non solo esempi storici di questi atteggiamenti, ma un documento nel formulario adoperato da sant'Agostino per la nomina di Eradio a suo successore . E lo storico Teodoreto narrando che Atanasio ordinò Pietro qual suo successore, aggiunge subito che questo fu ratificato dal clero, con l'approvazione della magistratura, delle autorità politiche, del popolo.
12. Ammetto che la decisione presa al concilio di Laodicea, di non lasciare al popolo l'elezione del vescovo fu saggia, perché difficilmente si possono mettere d'accordo tante persone per condurre a buon fine una impresa. E quasi sempre corrisponde a verità il proverbio che dice: il popolo, per natura volubile, si fraziona secondo desideri contrari . Ottimo era poi il provvedimento adoperato per rimediare a questo difetto. In prima istanza il clero solo procedeva all'elezione, presentava colui che aveva eletto ai signori ed ai magistrati. Costoro, dopo una deliberazione comune, ratificavano l'elezione se la giudicavano buona, in caso contrario procedevano ad una nuova elezione. Infine ci si appellava al popolo che pur non essendo vincolato ad accettare l'elezione già fatta, non aveva tuttavia occasione di provocare tumulti; oppure prendendo l'avvio da una decisione popolare si effettuava un sondaggio per sentire chi fosse maggiormente desiderato, e, dopo aver saggiato le preferenze popolari, il clero provvedeva all'elezione. In tal modo non era lasciata al clero libertà di scegliere a suo piacimento, e tuttavia non era soggetto ai desideri disordinati del popolo. Questa procedura è illustrata da Leone in un testo che dice: "si debbono avere le voci della borghesia, le testimonianze del popolo, l'autorità dei governanti, l'elezione del clero, ", e parimenti: "Si abbiano le testimonianze dei governanti, l'approvazione del clero, il consenso del senato e del popolo . La ragione vuole che non si proceda altrimenti ". I decreti di Laodicea, che abbiamo citato in realtà non dicono altro. Poiché intendono chiedere solo al clero e ai governanti di non lasciarsi trasportare dalla volontà sconsiderata del popolo, ma anzi reprimere piuttosto la sua folle bramosia, quando sia necessario, con la propria serietà e prudenza.
13. Questo modo di eleggere era ancora in uso al tempo di san Gregorio, ed è verosimile che abbia durato ancora a lungo in seguito. Ne danno conferma parecchie epistole della sua produzione. Ogniqualvolta infatti si tratta di ordinare un vescovo in qualche luogo, è solito scrivere al clero, al consiglio, al popolo, a volte al signore, a seconda del tipo di governo della città a cui si rivolge. E quando egli delega, a motivo di qualche disordine o crisi, un vescovo vicino a provvedere ad una elezione, richiede sempre la stesura di un atto pubblico garantito dalla sottoscrizione di tutti . Anzi, essendo stato eletto una volta un vescovo a Milano, in assenza di molti milanesi, ritiratisi a Genova a causa della guerra, egli non considerò legittima l'elezione fintantoché un'assemblea di questi profughi non l'ebbe approvata . Non sono trascorsi 500anni da quando un papa di nome Nicola emanò un decreto riguardo all'elezione del Papa chiedendo che i cardinali fossero i primi ad esprimersi, indi si convocasse il rimanente clero ed infine l'elezione fosse ratificata dal consenso popolare. Cito il decreto di Leone che ho ricordato più sopra chiedendone l'applicazione in avvenire. Nel caso che i malvagi provocassero tali disordini da costringere il clero ad uscire dalla città per procedere ad una valida elezione, stabilisce che alcuni membri del popolo siano presenti per approvare . Il consenso dell'imperatore era richiesto per due sole città, secondo quanto sappiamo, Roma e Costantinopoli, trattandosi di sedi imperiali. Il caso di sant'Ambrogio, inviato a Milano dall'imperatore Valentiniano in qualità di luogotenente imperiale, per presiedere all'elezione del vescovo fu eccezionale e motivata dalle gravi tensioni esistenti fra i cittadini. A Roma l'autorità imperiale aveva anticamente tale peso nella creazione del vescovo che san Gregorio scrisse all'imperatore Maurizio di essere stato ordinato con il suo consenso, quantunque fosse stato richiesto solennemente dal popolo . La prassi prescriveva che il vescovo eletto a Roma dal clero, il senato e il popolo, notificasse la sua nomina all'imperatore che l'approvava o la invalidava . Né contrastano questa tradizione le decretali raccolte da Graziano; vi si afferma solo che non deve essere tollerata la soppressione dell'elezione canonica permettendo al sovrano di stabilire i vescovi a suo piacimento e che i metropoliti non debbono consacrare un candidato imposto con la forza. Una cosa è privare la Chiesa del suo diritto, permettendo che una sola persona agisca a suo piacimento, altra è rendere al sovrano o all'imperatore l'onore di convalidare una legittima elezione.
14. Ci resta ora da illustrare le cerimonie con cui, dopo la loro elezione, si ordinavano i vescovi nella Chiesa antica. I Latini hanno chiamato questa cerimonia "ordinazione "o "consacrazione". I Greci usarono due termini che significano "imposizione delle mani ". Un decreto del concilio di Nicea stabilisce che il metropolita e tutti i vescovi della provincia devono riunirsi per l'ordinazione del vescovo che è stato eletto. Se qualcuno risultasse impedito per malattia, o difficoltà di viaggio i convenuti non siano meno di tre e gli assenti dichiarino per iscritto il loro consenso . Ed essendo questo canone caduto in disuso Cl. Passare del tempo, fu ribadito in molti concili. Era dunque fatto obbligo a tutti, o per lo meno a coloro che non avevano impedimenti, di riunirsi affinché l'esame sia della dottrina che dei costumi, desse garanzie di serietà. Infatti non si procedeva alla consacrazione senza preventivo esame. Anzi è evidente dalle epistole di san Cipriano che anticamente i vescovi non erano convocati dopo l'elezione ma erano presenti quando il popolo eleggeva per assistere e sovrintendere a che non si facesse nulla in base ad agitazioni popolari. Perché, dopo aver affermato che il popolo ha il potere di eleggere coloro che ritiene degni o rifiutare coloro che riconosce indegni, aggiunge: "Dobbiamo pertanto serbare fedelmente quanto ci è stato lasciato dal Signore e dagli apostoli suoi, e viene praticato da noi e quasi in tutte le province che i vescovi viciniori si radunino laddove si deve eleggere un vescovo e questi venga eletto in presenza del popolo ". Tali assemblee però si convocavano con difficoltà e gli ambiziosi avevano modo di darsi da fare, si ritenne perciò sufficiente l'assemblea dei vescovi per procedere alla consacrazione di quello che era stato eletto dopo averlo esaminato.
15. Questa prassi era seguita ovunque, senza eccezioni. In seguito venne introdotto un diverso sistema: il candidato eletto doveva recarsi nella città metropolitana, per essere confermato; trattasi di un procedimento attuato più per ambizione o degenerazione che per motivi validi. In seguito all'accresciuta autorità della Sede romana si creò l'abitudine ancor peggiore di convocare a Roma i vescovi d'Italia per essere quivi consacrati, come si può vedere dalle epistole di san Gregorio. Solo poche città mantennero il loro diritto antico non volendo sottomettersi. Milano, per esempio, come si ricava da una epistola di Gregorio . Probabilmente furono le sole città metropolitane a mantenere questo privilegio. Poiché l'uso antico era che tutti i vescovi della provincia convenissero quivi per consacrare il metropolita.
Per il rimanente la cerimonia consisteva nell'imposizione delle mani. Non sono infatti a conoscenza di altre particolarità se non che i vescovi avevano un particolare abbigliamento per distinguersi dagli altri preti. Similmente ordinavano i preti e i diaconi con la sola imposizione delle mani. Ogni vescovo ordinava però i preti della diocesi con il consenso degli altri preti. Siccome questo, pur facendosi in comune, avveniva sotto la presidenza del vescovo e sotto la sua direzione, l'autorità è detta vescovile. Perciò è detto spesso, nei testi degli antichi dottori, che un prete differisce da un vescovo solo per il fatto che non ha autorità di ordinare.



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Istituzioni della religione cristiana
di Giovanni Calvino (1559)