CAPITOLO 11
IL POTERE GIURISDIZIONALE DELLA CHIESA E
L'ABUSO CHE NE FA IL PAPATO
1. Il terzo elemento del potere e dell'autorità ecclesiastica, anzi il fondamentale è il potere giurisdizionale che concerne essenzialmente la disciplina, di cui dovremo occuparci nel capitolo seguente. Così come città e villaggi non possono sussistere senza autorità e senza governo, la Chiesa di Dio, come ho già detto altrove, ha bisogno di una autorità spirituale stabile, assolutamente diversa però da una autorità terrena; lungi però dal rappresentare per questa un impedimento o un ostacolo collabora invece alla sua conservazione e al suo progresso.
Questa autorità giurisdizionale rappresenta semplicemente un ordine stabilito per conservare il governo spirituale. A questo fine sono stati anticamente istituiti nella Chiesa collegi di sorveglianti che vegliassero sui costumi, correggessero i vizi, ricorressero alla scomunica quando fosse il caso. A questi allude Paolo quando, nella epistola ai Corinti, fa menzione dei "doni di governo " (1 Co. 12.28). Parimenti nella epistola ai Romani quando dice: "Chi presiede lo faccia con diligenza ", (Ro 12.8). Non si rivolge infatti ai magistrati o governatori terreni, dato che in quel tempo non ce n'era alcuno che fosse cristiano, ma a coloro che erano associati ai pastori per il governo spirituale della Chiesa. Similmente nella lettera a Timoteo fa menzione di due categorie di preti, quelli che lavorano per la Parola, quelli che non hanno l'incombenza della predicazione e tuttavia sono fedeli nell'assolvere il proprio compito (1 Ti. 5.17). Non c'è dubbio che, con questa seconda categoria, egli intenda alludere a coloro che erano delegati per sorvegliare i costumi e correggere mediante la scomunica i colpevoli.
Ora questo potere, di cui discorriamo, dipende interamente dalle chiavi, che Gesù Cristo ha dato alla sua Chiesa nel capitolo diciottesimo di san Matteo. Quivi infatti egli ordina si facciano ammonizioni a nome della comunità a colui che avrà disprezzato le ammonizioni private del fratello; e, qualora perseveri nella sua ostinazione, sia escluso dalla comunità dei credenti. Tali ammonizioni e correzioni non si possono fare senza previa conoscenza di causa. Si richiede pertanto l'esistenza di un giudizio e di una legislazione. È dunque necessario riconoscere alla Chiesa una qualche giurisdizione, se non vogliamo annullare e rifiutare la promessa delle chiavi e respingere sia la scomunica che le ammonizioni e ciò che ne consegue.
Non si tratta in questo caso, faccio notare al lettore, di un riferimento generale all'autorità della dottrina predicata dagli apostoli, come è il caso nel capitolo sedicesimo di san Matteo e nel ventesimo di san Giovanni, ma del fatto che Gesù Cristo trasferisce, per l'avvenire, alla sua Chiesa il diritto e le forme di controllo che, sino a quel momento erano in uso nella sinagoga dei Giudei. Questo popolo, infatti, aveva sempre avuto una forma di governo di cui Gesù vuole faccia uso la comunità dei suoi, a condizione che sia mantenuta la purezza delle istituzioni. Egli ricorre a severe minacce contro i contraddittori sapendo che i giudizi della sua Chiesa, oggetto di critiche e di disprezzo, potevano essere tenuti in nessun conto da gente temeraria e orgogliosa. I lettori potrebbero essere turbati dal fatto che Gesù Cristo, parlando di cose diverse, usa gli stessi termini; sarà perciò necessario chiarire questo problema.
Vi sono dunque due testi in cui si parla di "legare "e "sciogliere ". Il primo è nel capitolo sedicesimo di san Matteo, laddove nostro Signore Gesù, dopo aver promesso a san Pietro di dargli le chiavi del regno dei cieli, aggiunge: tutto ciò che avrai legato sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che avrai sciolto in terra sarà sciolto nei cieli. Con queste parole egli non intende dire nulla di diverso da quanto dice in san Giovanni, quando manda i suoi discepoli a predicare. Infatti, dopo aver soffiato su di loro, dice: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi; a chi li riterrete, saranno ritenuti " (Gv. 20.23). L'interpretazione che diamo di questo testo non è cavillosa e forzata, ma semplice, vera, adeguata. Questo ordine di rimettere e ritenere i peccati, e la promessa fatta a san Pietro di legare e sciogliere non si devono riferire ad altro che al ministero della Parola, che nostro Signore ha affidato ai suoi apostoli, congiuntamente con l'ufficio di legare e sciogliere. Quale è infatti la sostanza dell'evangelo se non che tutti noi, servi del peccato e della morte, siamo liberati e affrancati dalla redenzione che è in Gesù Cristo? E che all'opposto coloro che non ricevono Cristo quale liberatore e redentore siano condannati ad eterna cattività? Affidando ai suoi discepoli questa ambasciata, da recare a tutte le nazioni della terra, nostro Signore l'ha rivestita di onore con questo attestato di nobiltà, a dimostrare che gli apparteneva, procedeva da lui ed era da lui voluta; e questo per singolare consolazione sia degli apostoli che degli uditori cui tale ambasciata doveva essere recata.
Era certo conveniente che gli apostoli avessero una così sicura e forte garanzia nella loro predicazione, che non solo dovevano iniziare e condurre fra infinite fatiche, sollecitudini, problemi, pericoli, ma suggellare infine con il proprio sangue. Motivato era dunque il dono di questa certezza che la loro predicazione non sarebbe stata vana o senza incidenza, ma ricca di contenuto e di potenza. Era certo necessario che in tali situazioni di pericolo, difficoltà, angoscie avessero la certezza che compivano l'opera di Dio per sapere che, malgrado l'opposizione e gli ostacoli del mondo, Dio era con loro, e che pur non avendo, in terra, la presenza di Cristo, fonte del loro insegnamento, comprendessero che era in cielo per confermarne la verità. Bisognava, d'altra parte, che fosse attestato in modo inequivocabile agli uditori che quella dottrina non era parola degli apostoli, ma di Dio stesso, che non era voce nata in terra ma proceduta dal cielo. Queste cose infatti: la remissione dei peccati, la promessa della vita eterna, l'annunzio della salvezza, non possono fondarsi sull'autorità umana. Cristo dunque attesta che nella predicazione evangelica l'opera degli apostoli era limitata al ministero; che lui stesso servendosi della loro bocca come di strumenti parlava e prometteva ogni cosa; che la remissione dei peccati, che essi annunziavano, era autentica promessa di Dio, la dannazione minacciata, inevitabile giustizia di Dio.
Ora questo attestato è stato dato per ogni tempo e permane tuttora valido per assicurarci e garantirci che la parola dell'evangelo, da chiunque predicata, è sentenza di Dio stesso, emanata nella sede divina, scritta nel libro della vita, approvata, ratificata, confermata in cielo. Risulta così che il potere delle chiavi non è altro che la predicazione dell'evangelo, e anzi, se consideriamo gli uomini, non è tanto potere quanto ministero. Poiché Cristo non ha conferito questo potere agli uomini in proprio, ma alla sua parola di cui ha fatto gli uomini ministri.
2. L'altro testo si trova in san Matteo, dove è detto: "Se qualcuno dei tuoi fratelli si rifiuta di ascoltare la Chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano. Io vi dico in verità che tutte le cose che avrete legate sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che avrete sciolte sulla terra saranno sciolte nel cielo " (Mt. 18.17-18). Questo testo non è del tutto simile al primo ma presenta alcune differenze; tuttavia non li si può considerare così diversi da non avere fra loro una grande affinità e somiglianza. Sono simili, in primo luogo, nell'uno e nell'altro testo, il carattere generale dell'espressione, e il potere di legare e sciogliere è nei due casi uno solo, cioè la parola di Dio, identico l'ordine di legare e sciogliere, identica la promessa.
Differiscono però in questo: il primo si riferisce alla predicazione cui sono ordinati i ministri della Parola; il secondo include la disciplina della scomunica lecita nella Chiesa. Ora la Chiesa lega colui che scomunica, non nel senso che lo getti in rovina e disperazione eterna, ma in quanto condanna la sua vita e i suoi costumi, e gli preannunzia la sua dannazione, qualora non ritorni sulla retta via. Essa scioglie colui che accoglie nella sua comunione in quanto lo rende partecipe della comunione che ha in Gesù Cristo. Acciocché nessuno dunque disprezzi il giudizio della Chiesa e consideri con leggerezza il fatto di essere condannato dalla sentenza dei credenti, nostro Signore dichiara che questo giudizio altro non è se non la pubblicazione della sua sentenza, e che tutto quanto avranno fatto in terra sarà ratificato in cielo. Poiché sono in possesso della parola di Dio, con cui condannano i malvagi e i cattivi. Ed hanno la stessa parola per accogliere coloro che si pentono; e non possono errare né essere in contrasto con il giudizio divino perché giudicano unicamente in base alla sua legge che non è opinione incerta e terrena ma è la sua santa volontà, un oracolo celeste.
Da questi due testi, quei furiosi senza discernimento, si sforzano di ricavare ora la loro confessione, ora la scomunica, or la loro giurisdizione, ora l'autorità di legiferare, ora le indulgenze. Ricorrono al primo per stabilire il primato della Sede romana. Si dimostrano così abili nell'infilare le loro chiavi a tutte le serrature che ci si domanda se non hanno esercitato il mestiere del fabbro durante tutta la loro vita.
3. Coloro che considerano questo un ordine temporale, limitato al tempo in cui prìncipi, autorità, uomini di legge erano ancora contrari al Cristianesimo, si ingannano, non considerando quanta e quale differenza sussista tra la potestà ecclesiastica e il potere civile. La Chiesa infatti non dispone della spada per punire i malfattori né di una legislazione per frenarli, né di carceri, ammende, o altre punizioni cui sono soliti ricorrere i magistrati. Non corrisponde anzi al suo spirito che il colpevole sia punito suo malgrado, ma che faccia professione di pentimento con una punizione volontaria. Siamo dunque in presenza di una sostanziale differenza, in quanto la Chiesa non usurpa nulla di ciò che appartiene in proprio al magistrato, e questi non è in grado di compiere ciò che è fatto dalla Chiesa. Questo appare più chiaramente ricorrendo ad un esempio. Se un tale si ubriaca, sarà punito in una città ben amministrata, con il carcere; se si dà alla dissolutezza, con una pena uguale o maggiore, come ragionevolmente si richiede. Sarà data soddisfazione, in questo modo, alla legge, al magistrato, al giudizio terreno. Potra accadere però che questo malfattore non dia alcun segno di pentimento ma, al contrario, protesti o si indispettisca. Deve la Chiesa essere assente a questo punto? La cosa è tale che questo genere di persone non si può accogliere alla Cena senza recare offesa a Gesù Cristo e alla santa istituzione. Anzi ragionevolmente si richiede che chi ha scandalizzato la Chiesa con cattivo esempio, elimini lo scandalo suscitato, facendo dichiarazione solenne del suo pentimento.
Troppo debole è la motivazione addotta da coloro che sono contrari. Gesù Cristo, dicono costoro, demandava alla sua Chiesa questo compito nel tempo in cui non esistevano magistrati per poterlo eseguire. Però accade spesso, rispondo, che un magistrato si dimostri indolente, oppure meriti lui stesso di essere punito, come accadde all'imperatore Teodosio. Anzi, in tal caso, si potrebbe dire altrettanto di tutto il ministero della Parola: i pastori non dovrebbero attualmente denunciare crimini notori, né ammonire o accusare o minacciare, in quanto vi sono magistrati cristiani preposti alla correzione di tali errori. Affermo, al contrario, che se il magistrato deve, attualmente, purificare la Chiesa punendo i malvagi, il ministro della Parola deve, dal canto suo, aiutare il magistrato a ridurre il numero dei malfattori. Le loro amministrazioni debbono essere congiunte in modo tale che l'una sia di aiuto all'altra e non di impedimento.
4. E in verità, quando si considerino attentamente le parole di Cristo in quel testo, risulta evidente che egli non si riferisce ad una condizione provvisoria ma permanente della Chiesa. Non sarebbe infatti opportuno citare, in sede di giustizia terrena, chi non volesse prestare ascolto alle nostre ammonizioni, come invece si dovrebbe fare se il governo civile avesse preso il posto di quello ecclesiastico. Che significato ha questa promessa: in verità vi dico, ciò che avrete legato in terra sarà legato nei cieli? È stata data per un anno soltanto, per breve tempo? Gesù Cristo inoltre non ha istituito nulla di nuovo con queste parole ma ha seguito l'antica consuetudine, in uso da sempre presso il popolo giudaico. Così facendo ha mostrato che la Chiesa non può fare a meno di una giurisdizione spirituale, esistita sin dall'inizio, e che è stata confermata da un comune accordo in ogni tempo. Quando imperatori e magistrati sono entrati a far parte della cristianità non per questo è stata abolita la giurisdizione spirituale, soltanto la si è regolata in modo che non derogasse alla giustizia terrena e non si confondesse con essa; a ragione. Un magistrato credente infatti non si considererà, in quanto tale, dispensato dal sottomettersi alla ubbidienza che è comune a tutti i figli di Dio e di cui è parte la sottomissione alla Chiesa, che giudica sulla base della parola di Dio. Non c'è neppure da pensare all'eventualità che egli debba rendere inutile questo giudizio. "Che è più onorevole per l'imperatore "dice sant'Ambrogio "dell'essere figlio della Chiesa, visto che un buon imperatore non è al di sopra della Chiesa ma ne fa parte? ". Coloro pertanto che spogliano la Chiesa di questa autorità per esaltare il potere civile e la giustizia terrena, non solo snaturano le parole di Cristo sulla base di una falsa interpretazione, ma accusano altresì di grave colpa i santi vescovi che si sono susseguiti in gran numero dal tempo degli apostoli, quasi avessero usurpato la dignità e l'ufficio del magistrato sotto mentite spoglie.
5. Occorre altresì considerare attentamente quale sia stato anticamente l'uso autentico della giurisdizione ecclesiastica e quanto grave abuso se ne sia fatto in seguito, per sapere ciò che deve essere annullato e abolito, e ciò che deve essere invece reintegrato per distruggere il regno dell'anticristo e ricostruire da capo il regno di Cristo. Il nostro scopo deve essere, in primo luogo, quello di prevenire gli scandali e, qualora ve ne siano, eliminarli. Due cose sono da considerarsi nell'uso del potere spirituale: deve essere distinto in modo assoluto dalla spada e dalla potenza terrena; in secondo luogo non deve essere esercitato da un solo uomo, a suo piacimento, ma da una legittima assemblea a ciò preposta. Entrambe le cose sono state osservate nella Chiesa antica. I santi vescovi infatti non hanno esercitato la loro autorità mediante ammende, incarcerazioni, o altri provvedimenti di natura civile, ma hanno ricorso, come si conveniva, alla sola parola di Dio. Il provvedimento estremo della Chiesa è la scomunica di cui non fa uso, se non in casi di estrema necessità. Ma la scomunica non si avvale della coercizione fisica ma si limita all'efficacia della Parola. Insomma la giurisdizione della Chiesa primitiva non è stata se non la traduzione pratica di ciò che san Paolo afferma circa l'autorità spirituale dei pastori: "La potestà spirituale "egli dice "ci è data per distruggere ogni fortezza e abbattere ogni altezza che si eleva contro la conoscenza di Dio, per sottomettere ogni pensiero traendolo all'ubbidienza di Cristo, avendo in mano la punizione contro ogni disobbedienza " (2 Co. 10.4). Quanto egli afferma si compie mediante la predicazione, coloro dunque che si dichiarano credenti debbono essere giudicati secondo il contenuto di quest'ultima affinché la dottrina non sia oggetto di disprezzo. Questo non può avvenire qualora la Chiesa, unitamente alla predicazione, non abbia anche l'autorità di giudicare coloro che meritano ammonimenti in forma privata o riprensioni più severe, e abbia altresì l'autorità di proibire la comunione della Cena a coloro che non vi si potrebbero accogliere senza profanare il mistero e il sacramento. Quando perciò afferma in un altro testo, che non spetta a noi giudicare quelli di fuori (1 Co. 5.12) risulta evidente che intende sottomettere i figli e i famigliari della Chiesa alle censure e alle ammonizioni istituite per punire i vizi, e che si esercitava, in quel tempo, la disciplina a cui nessuno dei credenti era sottratto.
6. Questa autorità, come abbiamo detto, non risiedeva nelle mani di uno solo, onde agisse a suo piacimento; ma del corpo degli anziani che rappresentava ciò che il senato rappresenta in una città. San Cipriano, menzionando gli usi del suo tempo, afferma che in questa disciplina il vescovo era assistito da tutto il clero, per assumere le decisioni in forma collegiale; egli mostra però, in altri testi, che il clero derimeva queste questioni in modo tale che il popolo non fosse tenuto all'oscuro dei fatti. Ecco le sue parole: "Da quando sono vescovo ho sempre cercato di non fare nulla senza il consiglio del clero e il consenso del popolo ". Ma era prassi comune e abituale che la giurisdizione ecclesiastica fosse esercitata dal corpo dei preti, in cui vi erano, come abbiamo detto, due categorie: gli uni che avevano il compito dell'insegnamento, gli altri che erano incaricati di esercitare il controllo sulla vita di tutti.
Questo ordinamento si è a poco a poco corrotto cosicché già ai tempi di sant'Ambrogio il clero esercitava da solo il giudizio nella Chiesa; situazione di cui egli stesso si duole dicendo: "Anticamente la sinagoga, e in seguito la Chiesa, ebbe degli anziani senza il consiglio dei quali non si faceva nulla. In seguito a quale negligenza tale uso sia caduto in disuso, non saprei, per la trascuratezza dei dotti, o piuttosto a motivo del loro orgoglio, volendo essi dominare da soli ". Notiamo quanto si amareggi questo sant'uomo per il fatto che ci si sia allontanati in qualche modo dalla purezza, quantunque in quel tempo vi fossero ancora ordinamenti tollerabili. Quali sarebbero le sue lagnanze vedendo le impressionanti rovine attuali, in cui si stenta a riconoscere una minima traccia dell'antico edificio? In primo luogo i vescovi hanno usurpato per se ciò che era stato dato alla Chiesa tutta. Il caso è analogo a quello di un parlamento o di un consiglio cittadino in cui un presidente, un console, un sindaco scacci i consiglieri per governare da solo. Ora come il vescovo è superiore, in grado, ad ognuno degli altri, così una assemblea o congregazione debbono avere autorità superiore ad un singolo. Atto quanto mai avventato e sregolato questo: un uomo, avoca a se il potere di tutti, aprendo, in primo luogo la via ad una tirannide senza controllo e in secondo luogo sottraendo alla Chiesa ciò che le appartiene, e in terzo luogo abolendo l'ordine istituito da Cristo.
7. Siccome però un guaio ne provoca sempre un altro, Cl. Passare del tempo i vescovi non degnando occuparsi di questo compito, quasi fosse indegno della loro persona, l'hanno affidato ad altri. Hanno così avuto origine i delegati istituiti per occuparsi della giurisdizione ecclesiastica. Non mi interessa chi siano costoro come individui; affermo solo che non differiscono in nulla dai giudici secolari. E tuttavia chiamano ancora la loro giurisdizione "spirituale ", quantunque vi si discutano quasi esclusivamente problemi terreni. Quand'anche non ci fossero altri inconvenienti, non è forse vergognoso che costoro definiscano giustizia ecclesiastica una giustizia civile? "Ma vi si fanno ammonizioni e scomuniche "replicano. È questo il modo di farsi beffe di Dio? Prendiamo il caso di un poveretto indebitato. Viene citato davanti al giudice ecclesiastico; se si presenta viene condannato, se non paga, dopo la sentenza, viene ammonito e dopo una seconda ammonizione viene scomunicato Non si presenta? Lo si riconvoca una seconda volta, non si presenta in giornata? Dopo una seconda convocazione lo si scomunica su due piedi. Vi chiedo in che cosa un procedimento del genere rassomiglia all'istituzione di Cristo, all'uso antico, al modo di agire di una Chiesa? Risponderanno che correggono i vizi. Elegante risposta! Non solo tollerano dissolutezza, insolenze, ubriachezza e simili brutture, ma le approvano quasi e, con il loro consenso, le mantengono in vita. E non solo nel popolo ma nello stesso clero; convocano qualcuno, ogni tanto, per non sembrare del tutto disinteressati al loro compito, o per punire con una sanzione economica. Passo sotto silenzio, a questo punto, i saccheggi, le rapine, i furti, i sacrilegi che ne derivano. Né dirò che razza di gente sia il più delle volte eletta a questi uffici. Questo punto è sufficientemente chiarito: quando i Romanisti si vantano della loro giurisdizione spirituale è facile far loro notare che nulla potrebbe essere più contrario alle istituzioni che Gesù Cristo ci ha dato, e assomiglia alle antiche consuetudini quanto le tenebre alla luce.
8. Quantunque non si sia ricordato tutto ciò che si poteva menzionare al riguardo, e che il problema sia stato poco più che accennato, penso, tuttavia, aver rintunzato i nostri avversari, ed aver dimostrato chiaramente che la potestà spirituale, di cui si gloriano il Papa e tutta la sua gente, altro non è che una tirannia, profana nei riguardi della parola di Dio e ingiusta riguardo alla Chiesa. Sotto il termine "potestà spirituale ", includo sia l'ardire che hanno dimostrato nel diffondere nuove dottrine, per sviare la povera gente dalla purezza e semplicità della parola di Dio, sia le tradizioni inique in cui hanno avvolte le povere anime e tutta la giurisdizione ecclesiastica, come la chiamano, e che esercitano mediante i loro suffraganti, vicari, penitenzieri, officiali. Poiché se accettiamo che sia Cristo a regnare fra noi tutto questo dominio è immediatamente rovesciato e distrutto.
La trattazione del presente argomento non richiede che si esamini l'altro aspetto del loro dominio, che consiste in possedimenti terreni e patrimonio, in quanto non viene esercitato sulle coscienze. Quantunque anche in questo caso si potrebbe constatare che permangono sempre gli stessi, tutto fuorché pastori della Chiesa, come vorrebbero essere chiamati. Né intendo fare allusione ai vizi degli uomini, ma denunciare la malattia insita nella condizione generale che sembra loro insoddisfacente quando non si distingua per ricchezza e orgoglio. Se interroghiamo l'autorità di Gesù Cristo su questo punto, non c'è alcun dubbio che egli abbia voluto precludere ogni forma di autorità terrena ai ministri della sua parola quando ha detto: "I prìncipi delle nazioni le signoreggiano, ma non sarà così tra voi " (Mt. 20.25; Lu 22.25-26). Con queste parole infatti non solo indica che il compito del pastore è diverso da quello del principe ma che si tratta di due cose così diverse da non potersi riferire entrambe ad una stessa persona.
Il fatto che Mosè abbia ricoperto le due cariche è anzitutto un miracolo, e in secondo luogo è stato solo provvisoriamente fino a che la situazione fosse stabilita in forma definitiva. Dal momento che Dio ebbe stabilito una norma conforme alla sua volontà non rimase a Mosè che il governo civile. Egli dovette infatti cedere al fratello Aronne il sacerdozio; ed a ragione. Perché oltrepassa le possibilità di un uomo singolo il ricoprire entrambe le cariche. Questa regola è stata diligentemente osservata, in ogni tempo, nella Chiesa. Non si è mai verificato il caso di un vescovo, finché si è mantenuta una qualche forma di Chiesa, che abbia pensato dover usurpare l'autorità civile; al tempo di sant'Ambrogio circolava un proverbio secondo cui gli imperatori desideravano la dignità episcopale molto più di quanto i preti desiderassero l'impero o l'autorità. Era infatti radicata nel cuore di tutti la convinzione che i palazzi appartenevano agli imperatori e le chiese ai vescovi, come lui stesso dice poco dopo.
9. Quando si è inventato l'accorgimento di lasciare ai vescovi il titolo, l'onore, i vantaggi della loro carica senza che ne avessero le incombenze e i fastidi, perché non fossero del tutto oziosi è stata loro data la potestà della spada; per l'esattezza se la sono presa da se. A quali argomenti potranno ricorrere per giustificare tale spudoratezza? In primo luogo era forse compito dei vescovi l'immischiarsi di diritto, consacrarsi al governo di città e paesi e altre incombenze che non competono loro affatto visto che i compiti della loro carica sono così numerosi che quand'anche vi si dedicassero senza sosta a mala pena potrebbero assolverli? Ma con il loro consueto ardire non si vergognano di affermare che, in questo modo, la gloria di Cristo è convenientemente esaltata e nondimeno non sono eccessivamente distratti dalla loro vocazione. Se l'essere posti così in alto, da costituire una minaccia per gli stessi prìncipi, rappresenta per i vescovi e il loro Papa un onore adeguato alla dignità episcopale, debbono protestare contro Gesù Cristo da cui questo onore, se è lecito esprimersi così, è stato grandemente offeso. Perché, secondo la loro opinione quale maggior oltraggio potrebbe essere loro fatto che affermare: "I re e i prìncipi dominano sulle nazioni ma non sarà così tra voi " (Mt. 20.25) ? Quantunque Gesù non abbia imposto ai suoi servi, con queste parole, una condizione più dura di quella che ha preso su di se. Perché queste sono le sue parole: "Chi mi ha costituito su voi giudice o spartitore? " (Lu 12.14). Egli intende in questo modo rifiutare l'attribuzione di una autorità di giudice terreno, cosa che non avrebbe fatta se fosse consona al suo ufficio. Non sapranno i servi sottomettersi alla condizione cui si è volontariamente sottoposto il maestro?
Riguardo al secondo punto vorrei lo sapessero dimostrare nei fatti altrettanto bene quanto nelle chiacchiere. Se non è parso bene agli apostoli occuparsi della distribuzione delle elemosine, tralasciando la parola di Dio (At. 6.2) , dovrebbero essere convinti che non è compito di un uomo solo adempiere l'ufficio di buon principe e di buon vescovo congiuntamente. Se gli apostoli trovandosi, in virtù delle grazie ricevute da Dio, nelle condizioni di assolvere incarichi più impegnativi di quanto possano fare i loro successori, hanno riconosciuto l'impossibilità di adempiere contemporaneamente il servizio della Parola e della carità, senza venir meno, come potrebbero costoro centuplicare l'impegno degli apostoli, paragonati ai quali non sono nulla? Solo una temerarietà irresponsabile poteva suggerire questa iniziativa; pure è stato fatto. Come si attui ognuno lo può vedere. Né l'esito poteva essere diverso, rinunciando alla propria carica, questa gente piena di iniziativa, finisce Cl. Fare il mestiere degli altri.
10. È indubbio che siano giunti alla situazione attuale partendo da un piccolo inizio e procedendo nel tempo, a tappe. Non potevano infatti balzare così in alto, al primo colpo; ma con l'inganno e segreti maneggi si sono innalzati nascostamente, cosicché nessuno fu in grado di rendersi conto del trucco finché fu realizzato; da un lato quando se ne presentava l'occasione hanno strappato dalle mani dei prìncipi con ricatti e minacce un qualche accrescimento della loro autorità, dall'altro, constatando che i prìncipi si dimostravano inclini a cedere, hanno abusato di questa sconsiderata leggerezza.
Anticamente vigeva fra i credenti la consuetudine di affidare al proprio vescovo, facendo pieno affidamento sulla sua lealtà, l'arbitrato dei propri diverbi per evitare di giungere in tribunale; ed i vescovi, quantunque spiacesse loro assai, dovettero occuparsi spesso di tali arbitrati. Ma si dimostravano pronti ad assumere questo compito spiacevole per evitare che le parti intentassero causa, come attesta sant'Agostino. I loro successori hanno trasformato in giurisdizione ordinaria questi arbitrati volontari, il cui scopo era soltanto quello di evitare agli uomini procedimenti penali. Analogamente poiché le città e i paesi si sentivano oppressi e minacciati hanno scelto i loro vescovi quali difensori affinché fossero loro tutela e salvaguardia. I successori, con mezzi ingegnosi, da protettori si son fatti signori e padroni. Nessuno, anzi, potrà negare che una gran parte del loro dominio sia stato conquistato con la forza o deplorevoli intrighi.
Riguardo al fatto che prìncipi hanno, di buon grado, conferito potere ai vescovi, molte sono state le ragioni che li hanno indotti a fare questo. Tuttavia qualsiasi apparenza di devozione possa aver avuto la loro liberalità erroneamente hanno pensato recare vantaggio alla Chiesa mentre ne hanno, in questo modo, corrotta e annullata la primitiva integrità. I vescovi, d'altra parte, che hanno abusato di questa sciocca faciloneria dei prìncipi a proprio vantaggio, hanno chiaramente dimostrato, con questo solo atto di non essere affatto vescovi. Se avessero infatti posseduto un briciolo di quel retto intendimento, che hanno avuto gli apostoli, avrebbero risposto per bocca di san Paolo: "Le armi del nostro combattimento non sono carnali ma spirituali " (2 Co. 10.4). Trascinati invece da cieca cupidigia hanno causato la perdita loro, dei loro successori e della Chiesa.
11. Il Papa infine, non accontentandosi più di contee e ducati, ha messo la mano dapprima sui regni e per finire sullo stesso Impero d'Occidente. Al fine di mantenere, con qualche apparenza di legalità, il possesso di ciò che si è procurato Cl. Brigantaggio, ora si vanta di averlo per diritto divino, ora si appella alla donazione di Costantino, ora rivendica qualche altro titolo. Gli rispondo, innanzi tutto, con san Bernardo, che qualsiasi titolo egli possa rivendicare per dirsi imperatore non è però in base al diritto apostolico. Poiché san Pietro, egli dice, non poteva dare ciò che non possedeva, ma ha lasciato ai suoi successori quello che aveva: la cura delle Chiese. Poi aggiunge: "Considerando che il Signore e Maestro afferma non essere giudice fra due uomini, non deve sembrar strano al servo e discepolo non essere giudice di tutti ". In questo testo fa allusione ai giudizi terreni. Ed aggiunge rivolgendosi al Papa: "La vostra potestà dunque non è sui possedimenti ma sui peccati; avete infatti ricevuto le chiavi del regno celeste non per essere gran signore ma per correggere i vizi. Qual dignità vi sembra maggiore: rimettere i peccati o spartire territori? Non è possibile fare confonti. Questa autorità terrena ha i suoi giudici nella persona dei re e dei prìncipi della terra. Perché volete invadere il campo altrui? "; e ancora: "Siete in posizione di autorità non per dominare, io penso. Pertanto qualsiasi concetto abbiate di voi stesso ricordatevi che il vostro stato comporta ministero e servizio, non dominio. Imparate che per coltivare la vigna del Signore occorre maneggiare la vanga non impugnare lo scettro "; parimenti: È chiaro che gli Apostoli sono esclusi da ogni signoria, come oseresti tu dunque usurpare il titolo di apostolo signoreggiando? O il dominio stando seduto sul seggio apostolico? "Conclude infine: "l'apostolato è di tale natura che ogni signoria le è preclusa e le è ingiunto di servire e ministrare ". Tutto ciò che qui vien detto da san Bernardo è certa e pura verità divina, ma quand'anche non lo avesse detto, ognuno sarebbe in grado di vedere che è realmente così. Il Papa tuttavia non si è vergognato di decretare in un concilio d'Arles che, per diritto divino, gli spetta l'autorità sovrana delle due spade,
12. Riguardo alla donazione di Costantino, di cui si vantano, chi abbia una qualche conoscenza storica di quel periodo sa che si tratta non solo di un falso e di una invenzione ma di una ridicola sciocchezza. Ma anche tralasciando i dati storici, san Gregorio, vissuto circa quattrocento anni dopo, ci dà una testimonianza sufficientemente probante. Ogniqualvolta fa menzione dell'imperatore lo chiama suo "grazioso signore "e si dichiara suo "umile servo ". Parimenti afferma in un testo: "Voi che siete nostro principe e signore non siate adirato contro i vescovi visto che avete su di loro una autorità terrena; ma abbiate il giusto intendimento di esercitare su di loro la vostra autorità in modo però da averli in profonda stima a causa di Colui di cui sono ministri ". Notiamo che egli si pone sullo stesso piano di tutti per essere suddito come gli altri; egli tratta infatti in questo caso una questione personale. Egli afferma inoltre in un altro passo: "Ho fiducia che Dio onnipotente vi darà lunga vita e ci governerà, mediante la sua grazia, sotto la vostra mano ".
Con queste citazioni non abbiamo l'intenzione di esaminare a fondo il problema della donazione di Costantino; ma solo di illustrare ai lettori quanto sia puerile voler fare del Papa un imperatore. Tanto più grande è stata la stupidità del bibliotecario del Papa, Agostino Steuco, sfrontato al punto da farsi, per compiacere al suo padrone, avvocato di una causa così disperata. Lorenzo Valla aveva definitivamente refutata questa favola, come è facile per un uomo dotto e di acuto ingegno, anche se non aveva menzionato tutto ciò che si poteva riferire all'argomento non essendo versato in sacre Scritture né in temi religiosi o di storia ecclesiastica. Eccoti Steuco gettarsi nella lizza recando sciocchezze prive di qualsiasi valore e di senso per accecare gli occhi del popolo in una questione pur così chiara . Del resto egli riesce a trattare questo argomento con un linguaggio così distaccato da far pensare ad uno spirito burlone che voglia scherzare. Questi spiriti malvagi che danno in prestito la loro lingua per bestemmiare meritano di essere privati del guadagno che si ripromettevano.
13. Del resto se qualcuno desidera sapere donde procede questa rivendicazione di un impero inventato di sana pianta dovrà notare che non sono ancora trascorsi cinquecento anni da quando i papi erano soggetti all'imperatore e non venivano creati senza sua approvazione. Il mutamento avvenne al tempo di Gregorio 7, che già incline di per se a compiere questo, colse occasione dalla follia dell'imperatore Enrico 4. Perché questo Enrico, fra i numerosi atti inconsulti e insolenti da lui compiuti, era solito vendere i vescovati di Germania, ovvero distribuirli come benefici ai suoi cortigiani. Perciò Ildebrando, cioè papa Gregorio, da lui offeso, seppe cogliere, per vendicarsi, questa giusta e favorevole motivazione. Infatti molti si associarono a lui per sostenerlo poiché egli sembrava avere giusti e leciti motivi per porre rimedio ai sacrilegi dell'imperatore. D'altronde l'imperatore Enrico, a causa del suo malgoverno, non era amato dalla maggioranza dei prìncipi. Ildebrando, che si chiamò Gregorio, rivelò infine la sua malizia, da uomo malvagio e vile qual era, e coloro che avevano congiurato con lui lo abbandonarono. Tuttavia tanto fece che i suoi successori, non solo poterono sottrarsi alla loro sudditanza nei riguardi dell'imperatore, ma tenerlo nei loro lacci.
È accaduto in seguito che molti imperatori siano stati più simili ad Enrico che a Giulio Cesare cosicché non è stato difficile domarli e ridurli all'impotenza perché se ne stavano pacificamente a casa, senza preoccupazioni, mentre sarebbe stato necessario reprimere coraggiosamente la bramosia dei papi che di giorno in giorno andava crescendo. Vediamo così di che colori sia rivestita quella bella donazione di Costantino in base alla quale il Papa vuol far credere che l'Impero d'Occidente è roba sua.
14. Da quel momento i papi non hanno mai desistito dalla caccia per prendere nelle loro reti signorie e posizioni di potere, per impossessarsi del bene altrui, ora con sottili astuzie ora con atti sleali, ora con guerre; anzi si sono persino impadroniti della città di Roma, che aveva sempre mantenuta la sua libertà; e questo accadde neppure cento trent'anni or sono, circa. Insomma hanno costantemente esteso il loro dominio sino al raggiungimento di quella posizione di potere attuale, per mantenere ed accrescere il quale, nello spazio di duecento anni (poiché in precedenza avevano tentato di usurpare il governo della città ) hanno messo sossopra la cristianità intera al punto da distruggerla interamente.
Accadde ai tempi di san Gregorio che gli amministratori di beni ecclesiastici si siano appropriati di beni appartenenti alla Chiesa apponendovi blasoni in segno di possesso secondo l'abitudine dei prìncipi. San Gregorio convocò un concilio provinciale e criticò aspramente questa abitudine profana. Chiese ai partecipanti se a loro giudizio non dovesse considerarsi scomunicato un ecclesiastico che tentasse fare questo, o un vescovo che lo autorizzasse o lo lasciasse fare senza prendere provvedimenti in merito; tutti, unanimemente, risposero che si trattava di un atto che meritava la scomunica. A questo punto io chiedo: se deve considerarsi delitto così grave l'appropriarsi di un possedimento, appartenente di diritto alla Chiesa, da parte del clero, di sua iniziativa e in base alla propria autorità, quante scomuniche occorreranno per punire adeguatamente i papi che sono impegnati, da cinquecento anni, a macchinare guerre, spargimento di sangue, omicidi, saccheggi e rapine, distruzioni di popoli e di regni con il solo scopo di carpire per se i beni altrui?
È evidente che la gloria di Cristo è l'ultima cosa di cui si preoccupano. Quand'anche, infatti rinunciassero spontaneamente a tutto il potere secolare di cui dispongono questo non recherebbe pregiudizio alcuno né alla gloria di Dio, né alla retta dottrina, né alla salvezza della Chiesa. Ma sono furiosamente agitati da una sregolata brama di dominio e pensano che tutto sarebbe perduto non fossero più in condizione di dominare con severità e farsi temere, come dice il profeta Ezechiele (Ez. 34.4)
15. Alla giurisdizione è connessa l'immunità di cui si vanta il clero romano. Sono infatti d'avviso che si recherebbe loro torto o si farebbe loro ingiuria citandoli a comparire, per una causa privata, davanti ad un giudice terreno; e pensano che l'onore e la libertà della Chiesa debbano consistere in questa esenzione dalla giustizia comune.
Ora i vescovi antichi, che peraltro si dimostravano fortemente impegnati nella tutela dei diritti ecclesiastici, non hanno mai pensato che il loro diritto fosse in alcun modo sminuito dall'essere soggetti a giudici laici in cause di natura civili. Di fatto gli imperatori cristiani hanno sempre fatto uso della loro autorità sul clero senza essere contraddetti. Ecco infatti come parla Costantino ai vescovi di Nicomedia: "Se qualche vescovo provoca disordini con la sua follia, sarà punito dalla mano del ministro di Dio, cioè dalla mia ". E Valentiniano così si esprime in una epistola: "I buoni vescovi non cercano di abbassare il potere imperiale,
Ma serbano i comandamenti di Dio, re supremo, di buon grado ed obbediscono ai nostri ordinamenti ". Insomma era questo un fatto evidente per tutti in quei tempi e non creava alcuna difficoltà.
È bensì vero che le cause canoniche erano riservate al giudizio del vescovo e dei preti. Così ad esempio se qualche chierico, pur non avendo commesso nulla contro le leggi, avesse mancato nell'adempimento del suo ufficio, non veniva deferito ad un tribunale comune ma sottostava al giudizio del suo vescovo. Analogamente quando sorgeva una qualche controversia o una questione di ordine dottrinale, o concernente propriamente la vita della Chiesa era quest'ultima ad esaminare il problema. In questo senso deve intendersi ciò che scrive sant'Ambrogio all'imperatore Valentiniano: "Il padre vostro di buona memoria "dice "non solo ha ordinato a voce ma con un editto che le questioni in materia di fede dovessero essere giudicate da coloro che ne hanno l'ufficio e la dignità "; e: "Se consideriamo sia la Scrittura, sia gli esempi antichi chi potrà negare che in materia di fede siano i vescovi a giudicare gli Imperatori cristiani e non viceversa? "e ancora: "Mi sarei presentato al vostro consiglio, maestà, se il clero ed il popolo non me lo avessero impedito dicendo che una causa ecclesiastica deve essere dibattuta nella chiesa, in presenza del popolo ". In questi testi egli sostiene certo che una causa spirituale, concernente cioè la cristianità non si debba portare in sede di giustizia terrena, dove si trattano le cause profane; e non c'è nessuno che, sotto questo punto di vista, non lodi e approvi la sua fermezza. Tuttavia egli dichiara che se l'Imperatore ricorresse alla forza, preferirebbe cedere pur essendo nel suo diritto. "Non abbandonerei mai "egli dice "di mia spontanea volontà il posto che mi è affidato, ma qualora vi fossi costretto preferirei non resistere perché le nostre armi sono la preghiera e le lacrime ".
Notiamo che questo santo personaggio, pur con la sua fermezza e il suo ardire fa uso di grande prudenza e moderazione.
Giustina, madre dell'imperatore, non potendolo attrarre nell'eresia ariana si sforzava di farlo deporre; avrebbe raggiunto il suo scopo se si fosse presentato al palazzo imperiale per discutere quivi la sua causa. Egli però contesta che l'Imperatore sia giudice competente in si alta materia, come era nel caso suo e come è in verità. Egli era disposto a morire piuttosto che lasciare una simile prassi introdursi nella Chiesa con il suo consenso; e tuttavia se si fosse fatto uso della violenza, non si sarebbe sentito di resistere. Afferma infatti che non è confacente ad un vescovo tutelare con le armi la fede e il diritto della Chiesa. Per quanto concerne le questioni secolari egli si dichiara pronto a fare ciò che l'Imperatore gli vorrà ordinare. "Se chiede un qualche tributo "dice "non lo rifiuteremo; i beni della Chiesa pagano tributi. Se chiede anche il fondo, ha potere di prenderlo; nessuno di noi si opporrà ". San Gregorio si esprime in termini analoghi: "Conosco bene "dice "i sentimenti del nostro ottimo signore l'Imperatore, che non è solito intromettersi in cause riservate ai preti per paura di caricarsi dei nostri peccati ". Egli non esclude in assoluto, che l'Imperatore abbia il diritto di giudicare i preti ma dimostra solo che vi sono cause riservate ai giudici ecclesiastici.
16. Con queste riserve i santi uomini hanno voluto solo prevenire l'eventualità che prìncipi, sfavorevoli al Cristianesimo, ponessero ostacoli alla Chiesa nel compimento della sua missione. Non erano turbati dall'ingerenza dell'autorità dei prìncipi in campo ecclesiastico purché fosse attuata in vista di conservare l'ordine della Chiesa e non di turbarlo, di stabilire la disciplina non di distruggerla. Non avendo la Chiesa il potere di costringere, né dovendolo cercare (alludo ad una costrizione di natura secolare ) è compito dei buoni prìncipi mantenere la cristianità con buone leggi, decreti e provvedimenti adeguati. Per questo motivo san Gregorio ribadisce l'ordine dato dall'imperatore Maurizio ad alcuni vescovi, chiedendo loro di accogliere i loro confratelli vescovi espulsi dalle loro diocesi dai barbari. San Gregorio esorta dunque questi vescovi ad ubbidirgli. E quando lo stesso Imperatore lo invita a riconciliarsi col vescovo di Costantinopoli si giustificò di non poterlo fare perché non si riteneva colpevole, ma non addusse una sua immunità avendo la pretesa di sottrarsi all'autorità imperiale. Anzi riconosce che Maurizio ha fatto ciò che si addice ad un buon principe ordinando ai vescovi di essere uniti e promette di fare quanto, in buona coscienza, gli sarà possibile compiere.
CAPITOLO 12
LA DISCIPLINA DELLA CHIESA, LA CUI ATTUAZIONE CONSISTE PRINCIPALMENTE IN CENSURE E SCOMUNICHE
1. Occorre illustrare ora brevemente la disciplina della Chiesa, la cui trattazione abbiamo sin qui differita. Essa consiste essenzialmente nel potere delle chiavi e nella giurisdizione spirituale; per esaminare con maggior facilità questo problema divideremo la Chiesa in due categorie: il clero e il popolo. Adopero questo termine "clero" nella sua accezione comune, quantunque risulti improprio, intendendo coloro che nella Chiesa hanno cariche e ministeri. Parleremo in primo luogo della disciplina generale cui tutti i credenti debbono sottostare; tratteremo in seguito del clero che ha, oltre quella disciplina suddetta, una sua disciplina particolare.
Vi sono persone a tal punto prevenute contro la disciplina da essere inorriditi alla sola menzione del termine, è perciò necessario confutare questo loro errore. Nessuna comunità umana, neppure quella famigliare, sia pur piccola, può sopravvivere senza una disciplina, a maggior ragione si richiede che la Chiesa abbia una sua disciplina in quanto deve essere organizzata molto meglio che ogni casa e ogni comunità. Pertanto se la dottrina di nostro Signore può dirsi l'anima della Chiesa, la disciplina, come i nervi in un corpo, ha la funzione di unire le membra e tenere ognuno al proprio posto, nel suo ordine. Tutti quelli che desiderano la soppressione della disciplina o ne impediscono la restaurazione, agiscano scientemente o senza averne coscienza, conducono la Chiesa alla disgregazione totale. Che accadrebbe infine se fosse lecito ad ognuno condurre l'esistenza che meglio gli aggrada? Una libertà di quel genere esisterebbe qualora, con la predicazione della dottrina, non si ricorresse ad ammonizioni private, correzioni o altri provvedimenti, la cui funzione è quella di aiutare la dottrina sì che non risulti inutile. La disciplina è dunque come una briglia per trattenere e domare coloro che sono ribelli alla dottrina, un pungolo per coloro che sono tardi e svogliati, a volte può essere una verga per punire con dolcezza e cristiana mansuetudine coloro che hanno errato in modo più grave.
Di fatto constatiamo che la Chiesa decade e rischia di essere distrutta quando non ci si preoccupa, o manca la possibilità, di mantenere il popolo nell'obbedienza di nostro Signore; la situazione stessa dimostra la necessità di un rimedio. Ora l'unico rimedio è quello che Gesù Cristo ordina ed è stato da sempre in uso tra i credenti.
2. Il primo, fondamentale, elemento di una disciplina è l'esistenza di ammonizioni private: quando cioè qualcuno non compie il suo dovere volenterosamente, o non vive onestamente, o ha commesso atti degni di riprensione, o si lascia portare ad insolenze, accetti di essere ammonito e ognuno si impegni ad ammonire il prossimo quando ve ne sia necessità; ma che sopra tutto pastori e sacerdoti si preoccupino di questo, in quanto l'ufficio loro non consiste solo in predicazione dal pulpito ma anche in esortazioni ed ammonizioni particolarmente nelle case, nei confronti di coloro su cui l'insegnamento in forma generale non abbia avuto sufficiente efficacia; come dichiara san Paolo quando scrive che ha rivolto il suo insegnamento agli Efesini, sia nelle case che in pubblico, dichiarandosi puro del sangue di rutti, poiché non aveva smesso di ammonire ognuno con lacrime (At. 20.20.20. La dottrina ha piena autorità e produce i suoi frutti quando il ministro, non solo dichiara in forma generale a tutti quali responsabilità si abbia verso Cristo, ma ha anche modo e occasione di incitare, in modo particolare, coloro che vede essere distratti o disubbidienti alla dottrina e sollecitarli ad emendarsi.
Se qualcuno respinge con spirito ribelle tali rimostranze, o, perseverando nel male, dimostra di non tenerle da conto, dopo essere stato ammonito una seconda volta in presenza di due o tre testimoni, deve, secondo l'ordine di Gesù Cristo essere deferito al giudizio della Chiesa ed essere quivi ammonito più seriamente dalla pubblica autorità, affinché ascolti la Chiesa, si sottometta ad essa con spirito di umiltà e obbedisca.
Qualora non si siano raggiunti risultati con questo mezzo, ma costui perseveri nella sua malvagità, lo si deve escludere ed espellere dalla comunità dei cristiani in quanto sprezza la Chiesa (Mt. 18.15-17).
È Considerando che Gesù Cristo, in quel testo, fa riferimento solo a vizi segreti e nascosti, occorre fare una distinzione tra i peccati nascosti e quelli che sono pubblici e palesi.
Riguardo ai primi Gesù Cristo, rivolgendosi ad ognuno, dice: "Riprendi colui che ha peccato fra te e lui in segreto " (Mt. 18.15). Riguardo a quelli noti, san Paolo dice a Timoteo: "Riprendilo in presenza di tutti onde anche gli altri abbiano timore " (1 Ti. 5.20).
Poiché Gesù Cristo aveva detto prima: "se tuo fratello ha peccato contro di te o nei tuoi riguardi ", questa espressione può soltanto significare: se qualcuno ha peccato e che tu solo ne sia informato, senza che vi siano altri testimoni.
Ciò che san Paolo ordina a Timoteo di fare: redarguire coloro che abbiano commesso peccati palesi, egli stesso lo ha applicato e adempiuto nei confronti di Pietro. Infatti l'errore di questi provocava scandalo egli perciò non lo ammonì in forma privata ma lo condusse dinanzi a tutta la Chiesa (Ga 2.14).
Questo modo di procedere risulterà pertinente e legittimo se, nel correggere le colpe segrete, ci atterremo alla procedura che Gesù Cristo ha indicato, e nel correggere quelle pubbliche ci appelleremo subito alla Chiesa anche se questo implica scandalo.
4. Occorre altresì fare un'altra distinzione fra i peccati: alcuni sono di poco conto, da perdonarsi con facilità, altri sono azioni malvagie e riprovevoli.
Per porre rimedio alle azioni delittuose non basta fare ammonizioni o rimproveri ma occorre ricorrere a provvedimenti più severi come dimostra san Paolo quando, non solo rimprovera verbalmente l'incestuoso di Corinto, ma lo colpisce con la scomunica dopo aver preso le necessarie informazioni (1 Co. 5.4).
Iniziamo dunque a vedere più chiaramente come la giurisdizione spirituale della Chiesa, che secondo la parola di Dio ha funzione di correggere gli errori, rappresenti un ottimo ausilio per il mantenimento della Chiesa, la garanzia del suo ordine e il vincolo della sua unità. Quando perciò la Chiesa esclude dalla sua comunione rei manifesti di adulterio, furto, falso, rapina, omicidio, sedizione, dispute, tumulti, falsa testimonianza e altre cose simili, e anche quelli che, pur non avendo commesso peccati sì gravi, non avranno voluto fare ammenda delle proprie colpe e si saranno dimostrati ribelli, non compie nulla di irragionevole ma attua semplicemente la giurisdizione che Dio le ha affidato.
Affinché nessuno disprezzi questa sentenza della Chiesa o reputi cosa da poco l'essere condannato dal giudizio dei credenti, il Signore ha dichiarato che quest'ultimo deve considerarsi dichiarazione pubblica della sua sentenza e sarà ratificato in cielo quanto essi avranno decretato in terra (Mt. 16.19). Infatti essi hanno la parola di Dio per condannare i peccatori, hanno la stessa parola per graziare ogni penitente sincero.
Coloro che pensano la Chiesa possa esistere a lungo senza esser mantenuta e vincolata da questa disciplina, grandemente si ingannano, poiché è indubbio che non possiamo fare a meno del rimedio, che il Signore ha previsto esserci necessario. Di fatto il giovamento che ne ricaviamo dimostra ancor più chiaramente la sua necessità.
5. Tre sono gli scopi che la Chiesa persegue con queste punizioni e la scomunica.
Il primo è per evitare che gente dal comportamento vergognoso sia inclusa, con grande obbrobrio di Dio, nel numero dei credenti, quasi la Chiesa fosse ricettacolo di malvagi e malviventi. La Chiesa è il corpo di Cristo, non può dunque essere contaminata da membra malate senza che al capo stesso ne derivi disonore. Perché non vi sia dunque nella Chiesa nulla che rechi disonore al nome di Dio, occorre escluderne tutti coloro che, con i loro peccati, diffamano e disonorano la fede cristiana.
Occorre altresì aver riguardo alla Cena del Signore onde non sia profanata, con l'esser data indifferentemente a tutti. Il responsabile della sua amministrazione si rende certo colpevole di sacrilegio, qualora ammetta chi si dovrebbe o potrebbe respingere, altrettanto che se desse il corpo del Signore ai cani. Perciò san Crisostomo si indigna contro i sacerdoti che, per timore dei potenti e dei ricchi, non osavano respingere nessuno di costoro quando si presentavano. "Il sangue "diceva "sarà ridomandato alle vostre mani, se temete l'uomo mortale si befferà di voi, se temete Dio gli uomini stessi vi onoreranno. Non ci lasciamo impressionare né da scettri, né da diademi, né dalla porpora. Siamo qui in presenza di una potenza ben maggiore. Quanto a me preferirei offrire il mio corpo a morte e lasciare che il mio sangue sia sparso piuttosto che rendermi partecipe di tale profanazione ". Affinché non sia recata offesa a questo santo mistero si richiede dunque che esso venga amministrato con un discernimento che implica nella Chiesa una giurisdizione.
La seconda motivazione di una disciplina ecclesiastica è far sì che i buoni non siano, come accade sovente, corrotti dai malvagi. Essendo inclini a fuorviarci, nulla è più facile che seguire cattivi esempi. Questa necessità della disciplina è stata notata dall'apostolo quando ordinò ai Corinzi di escludere dalla loro comunità colui che aveva commesso un incesto. "Un po' di lievito "dice "agisce su tutta la pasta " (1 Co. 5.6). Anzi il santo Apostolo vedeva in questo un pericolo così grave che proibiva ai buoni ogni contatto e ogni rapporto con i malvagi. "Se uno "dice "che si chiama fratello, fra voi, è fornicatore, avaro, idolatra, oltraggiatore, ubriacone o rapace, non vi permetto di mangiare con lui " (Id 5.2).
Il terzo scopo consiste nel condurre coloro che sono puniti con la scomunica, ad essere confusi di vergogna, a pentirsi e con tale pentimento giungere a ravvedimento. È anzi utile per la loro stessa salvezza che il peccato sia punito, affinché, ammoniti dalla verga della Chiesa facciano ammenda delle loro colpe, di cui invece si compiacciono e che giustificano qualora siano trattati con dolcezza; questo intende dire l'Apostolo nel testo che citiamo appresso: "se qualcuno non obbedisce a quello che diciamo, notatelo e non abbiate relazioni con lui affinché si vergogni " (2 Ts. 3.14). E ancora in un altro testo quando afferma che ha dato l'incestuoso di Corinto in man di Satana, a perdizione della carne onde lo spirito sia salvo nel giorno del Signore (1 Co. 5.5) , cioè lo ha colpito con una condanna temporale affinché lo spirito fosse salvo eternamente. Esprime questo con i termini "dare a Satana "perché il Diavolo ha il suo regno fuori della Chiesa, come Gesù Cristo lo ha nella Chiesa. L'interpretazione data da alcuni secondo cui si tratterebbe qui di punizioni temporali che il Diavolo faceva subire mi pare molto discutibile e credo si debba piuttosto interpretare il testo come ho detto.
6. Avendo enunciato in questi termini i tre scopi della disciplina ecclesiastica, ci rimane da esaminare in che modo debba essere esercitato dalla Chiesa quell'aspetto della disciplina concernente la giurisdizione.
In primo luogo occorre tenere sempre presente la distinzione fatta più sopra tra peccati, che hanno carattere pubblico e altri che sono segreti. Peccati pubblici sono quelli noti non soltanto a uno o due testimoni, ma commessi in modo manifesto e con scandalo della Chiesa tutta. Considero peccati occulti non quelli che risultano ignoti in assoluto agli uomini, come nel caso dell'ipocrita (questi non vengono a conoscenza della Chiesa ) , ma che sono noti ad alcune persone soltanto.
Nel primo caso il procedimento non ha da essere attuato secondo la gradualità di cui parla Gesù nel diciottesimo capitolo di san Matteo, ma quando accade qualche scandalo palese la Chiesa deve esercitare il suo compito in modo immediato, convocando il peccatore e correggendolo secondo l'entità della sua colpa.
Per quanto concerne i peccati segreti, non è il caso che subito vengano deferiti alla Chiesa, a meno che ci sia ribellione e insubordinazione, che l'interessato rifiuti di obbedire alle rimostranze che gli vengono fatte, secondo la regola che dice: "se uno rifiuta di ascoltarti dillo alla Chiesa ".
Ora quando si è giunti a questo punto occorre tenersi all'altra distinzione tra "delitti "e "colpe leggere ". Poiché non è il caso di esercitare la stessa severità nei confronti di un errore di poco conto o di un crimine, è sufficiente una riprensione verbale, anzi dolce e paterna, affinché non abbia come risultato di inasprire il peccatore ma di ricondurlo in se e indurlo a rallegrarsi di essere redarguito più che a rattristarsi.
I delitti vanno puniti più severamente, poiché non è sufficiente correggere verbalmente chi abbia offeso la Chiesa con cattivo esempio, ma merita di essere privato della comunione della Cena sino a che non abbia manifestato segni di ravvedimento. Poiché san Paolo non fa soltanto uso di parole nel caso del peccatore di Corinto, ma lo esclude dalla Chiesa, rimproverando i Corinzi di averlo così a lungo tollerato (1 Co. 5.5).
Ed è questa la prassi seguita nella Chiesa antica, quando esisteva ancora una retta procedura. Se infatti qualcuno commetteva un peccato da cui poteva aver origine uno scandalo, in primo luogo gli veniva ordinato di astenersi dalla Cena, poi di umiliarsi davanti a Dio e attestare il suo pentimento in presenza della Chiesa. Di fatto esistevano riti specifici che si imponevano ai penitenti a testimonianza del loro pentimento. Quando il peccatore avesse dato così soddisfazione alla Chiesa, veniva accolto nella comunità mediante l'imposizione delle mani, accoglimento che san Cipriano chiama spesso "pace ", come nel testo dove dice: "Coloro che hanno commesso qualche scandalo fanno penitenza per il tempo imposto loro, indi fanno confessione delle loro colpe e mediante l'imposizione delle mani del vescovo e del clero ottengono pace e comunione ". Quantunque fossero il vescovo e il clero a riconciliare il peccatore alla Chiesa, veniva richiesto il consenso del popolo come dichiara in un altro testo .
7. Questa disciplina era generale, e senza eccezione di persona, al punto che gli stessi prìncipi vi erano sottomessi, come tutti, e a ragione, essendo consci che essa proveniva da Cristo cui è giusto sia sottomesso ogni scettro e corona di re. Perciò l'imperatore Teodosio, scomunicato da sant'Ambrogio, a causa del sangue sparso per ordine suo, si spogliò degli abiti reali e pianse pubblicamente nella chiesa, quantunque avesse commesso questo peccato dietro suggerimento di altri, e pianse con lacrime e sospiri. Fu questo un atto degno di grande lode, poiché i grandi re non devono considerare disonorevole umiliarsi e piegare le ginocchia davanti a Gesù Cristo, loro principe sovrano, e non deve sembrare loro disonorevole essere giudicati dalla Chiesa. Negli ambienti di corte non odono che adulazioni; tanto più necessario è dunque che siano corretti da Dio, per bocca dei pastori; devono anzi desiderare che i loro pastori non li risparmino affinché li risparmi Iddio.
Tralascio dal menzionare chi siano quelli che devono esercitare quella giurisdizione in quanto ne ho già parlato altrove; aggiungerò tuttavia, a quanto già detto, qualcosa riguardo alla legittima procedura per applicare la scomunica ai peccatori: gli anziani non lo facciano da soli ma il provvedimento sia a conoscenza e abbia il consenso della Chiesa, in modo che il popolo non abbia mano per dominare o prendere iniziative, ma sia d'altra parte testimone per vegliare a che nulla sia compiuto per sregolati desideri. Si richiede in questo, oltre l'invocazione del nome di Dio, l'uso di una serietà che attesti la presenza di Cristo, si percepisca cioè che egli presiede a quell'atto.
8. Non si deve tuttavia dimenticare che la severità della Chiesa deve essere di tale natura da risultare sempre congiunta con umanità e dolcezza. È da evitarsi, sempre, accuratamente, come san Paolo ordina, il pericolo che colui che si punisce sia oppresso da tristezza (2 Co. 2.7) perché, in questo modo, si muterebbe il rimedio in veleno.
La regola di questa moderazione si può ricavare meglio dallo scopo del provvedimento. Infatti la scomunica deve condurre il peccatore a pentirsi, ed eliminare ogni cattivo esempio affinché il nome di Gesù Cristo non sia bestemmiato e altri non siano indotti al male imitandolo; considerando queste cose sarà facile giudicare in quali casi deve procedersi con severità e in quali casi si debba soprassedere. Così quando il peccatore dia garanzie di pentimento alla Chiesa e perciò di togliere, per quanto dipende da lui, lo scandalo e annullarlo non si deve infierire oltre se non ha oltrepassata la misura.
A questo riguardo non è possibile approvare né scusare il rigore eccessivo degli antichi visto che il loro atteggiamento non concordava con le indicazioni della Scrittura ed era assai pericoloso. Nel privare infatti i peccatori della Cena ora per tre, ora per sette anni, e in certi casi sino alla morte, che producevano se non grande ipocrisia o disperazione estrema? Similmente il fatto che non potesse riammettersi alla penitenza chi fosse ricaduto, ma lo si espellesse dalla Chiesa per la vita non risultava né utile né ragionevole. Chiunque valuti con ponderatezza l'insieme del problema ammetterà che sono stati malispirati. Così dicendo deploro la prassi seguita, più che coloro che l'hanno seguita, fra i quali non mancavano certamente coloro ai quali dispiaceva ma la accettavano non potendola modificare.
San Cipriano dichiara di non aver agito in modo intransigente e inesorabile di sua volontà: "La nostra pazienza "dice "dolcezza, umanità è pronta per tutti coloro che si presentano. Desidero che tutti rientrino nella Chiesa. Desidero che tutti i nostri compagni d'armi siano nel campo di Gesù Cristo e tutti i nostri fratelli siano nella casa di Dio nostro Padre. Perdono tutti i peccati, molti ne taccio, e il desiderio di raccogliere tutti i nostri fratelli insieme fa sì che non esamini con rigore neppure le colpe commesse contro Dio. Poco manca a che non pecchi io stesso nel perdonare i peccati con più facilità di quanto sarebbe il caso. Accolgo con affetto spontaneo e pieno tutti coloro che ritornano con spirito di penitenza e confessano i loro peccati con umiltà ". San Crisostomo si dimostra più rigido, tuttavia si esprime in questi termini: "Se Dio è così benigno perché il suo ministro dovrebbe assumere atteggiamenti di severità? ". Ci è altresì nota la pazienza dimostrata da sant'Agostino nei rapporti con i Donatisti al punto da non esitare ad accogliere al vescovato coloro che avessero rinunciato ai loro errori, anche a breve distanza dalla loro conversione. In quanto la prassi risultava però diversa, queste ottime persone si videro costrette a mettere da parte il proprio punto di vista personale per seguire la consuetudine.
9. Ora dovendo, in tutto il corpo della Chiesa, regnare questo spirito di dolcezza e di umanità non si punirà chi ha errato, in modo eccessivo, ma con misura e dolcezza, e si userà piuttosto carità nei suoi riguardi secondo l'ordine di san Paolo (2 Co. 2.8). Ognuno deve, nella sua situazione personale, improntare la sua azione a questa mansuetudine e umanità. Non dobbiamo dunque cancellare dal numero degli eletti gli scomunicati o disperare di loro quasi fossero già perduti. Li bensì lecito considerarli estranei alla Chiesa, secondo la regola suddetta, ma per il solo tempo della loro esclusione. E anche quando si riscontri in essi più orgoglio e ostinazione che umiltà, dobbiamo rimettere queste persone nelle mani di Dio e affidarli alla sua bontà, sperando che l'avvenire rechi più di quanto dà il presente.
In breve non bisogna condannare a morte eterna le persone che sono soltanto nelle mani di Dio ma dobbiamo, in base alla legge di Dio, valutare le opere di ognuno. Seguendo questa regola anziché proporre il nostro giudizio ci atterremo al giudizio espresso da Dio. Non si deve dunque assumere, nel giudicare, eccessiva libertà onde non limitare la potenza di Dio e sottomettere al nostro fantasioso giudizio la sua misericordia che è tale da convertire, quando vuole anche i più cattivi soggetti in gente a modo, e raccogliere nella Chiesa gli estranei affinché l'opinione degli uomini sia frustrata e sia moderata la loro baldanza che sempre presume attribuirsi, qualora non venga repressa, più di quanto le spetti.
10. Riguardo alla parola di Cristo, secondo cui ciò che i ministri della sua Parola hanno legato e sciolto in terra sarà legato e sciolto in cielo (Mt. 18.18) , esse limitano l'autorità di legare al campo della censura ecclesiastica in base alla quale gli scomunicati non sono gettati nella dannazione e nella disperazione eterna ma ne è solo condannata la vita, e viene loro ricordato che la dannazione eterna li aspetta qualora non si pentano.
Poiché in questo sta la differenza tra la scomunica e la sconsacrazione che i dottori ecclesiastici chiamano l'anatema: anatemizzare una persona (ciò che s'ha da fare raramente, anzi non del tutto ) significa togliere ogni speranza di perdono e consegnarla al Diavolo, nella scomunica sono puniti piuttosto i suoi costumi. E quantunque si punisca anche la sua persona, tuttavia questo è attuato in modo tale che con la scomunica l'annuncio della sua dannazione eterna lo si riconduce sulla via della salvezza. La Chiesa è pronta, quando obbedisca, ad accoglierlo in spirito di fratellanza facendolo partecipe della sua comunione.
Quantunque, se intendiamo osservare rettamente la disciplina ecclesiastica, non sia il caso di frequentare e aver eccessiva famigliarità con gli scomunicati, dobbiamo tuttavia, per quanto spetta a noi, nei limiti del possibile, sforzarci sia con esortazioni e insegnamenti, sia con dolcezza e bontà, sia con le nostre preghiere a Dio, di far sì che ritornino sulla retta via; e di conseguenza siano reintegrati nella comunione della Chiesa; come ci insegna l'Apostolo: "Non reputateli nemici ma ammoniteli come fratelli " (2 Ts. 3.15). Egli richiede analogamente un atteggiamento di mansuetudine in tutta la Chiesa, quando si tratti di accogliere coloro che dimostrano qualche segno di pentimento. Non vuole infatti che in essa si attui una severità troppo rigida, e si proceda sino in fondo con spirito rigorista e ci si dimostri inesorabile, ma piuttosto la comunità faccia il primo passo verso lo scomunicato e si dimostri pronta a riceverlo affinché non venga oppresso da eccessiva tristezza. Quando tale moderazione non sia diligentemente osservata, sorge il pericolo che dalla disciplina si scada in una sorta di geenna e che da correttori si diventi boia.
11. C'è ancora un altro elemento atto a moderare la disciplina come si conviene, è l'ammonimento di Agostino nel corso della polemica contro i Donatisti: quando i credenti constatino che gli anziani sono negligenti nel correggere i vizi, non si debbono separare dalla Chiesa con il risultato di provocare una sedizione. Similmente se i pastori non sono in condizione di rimediare e correggere tutti gli errori che sono nel gregge, come lo desidererebbero, non debbono abbandonare il loro stato e turbare la Chiesa con eccessivo rigore Quanto infatti afferma è vero: chiunque corregga con ammonizioni quanto gli è possibile, rifiuti, senza rompere l'unità della Chiesa, quanto non può correggere, e sopporti, pur riprovando, quanto non può rifiutare senza provocare dissensi, costui è libero da maledizione e non è colpevole d'alcun male, Egli motiva questo fatto in un altro testo: il modo e la norma per mantenere un buon governo nella Chiesa deve sempre considerare l'unità dello spirito nel legame della pace. "L'Apostolo "dice "ci ordina di fare questo e quando si agisce altrimenti il rimedio del castigo non solo risulta superfluo ma pernicioso e di conseguenza non è più rimedio ". Ed aggiunge: "Chi mediti attentamente a queste cose non mancherà di ricorrere alla severità anche quando voglia conservare l'unità e non spezzerà il legame di comunione con l'essere intemperante nella correzione ".
Riconosce che non solo i pastori debbono adoperarsi a che la Chiesa sia purgata da ogni vizio ma ognuno deve, per parte sua, adoperarsi a questo. E non passa sotto silenzio il fatto che chi non si cura di ammonire e rimproverare i cattivi, anche se non li giustifica e non pecca come loro, è colpevole nei confronti di Dio; aggiunge, anzi, che chi è investito di una carica pubblica e avendo il dovere di scomunicare i malvagi non lo fa, pecca, a sua condanna; chiede solamente che questo venga fatto con quel tatto che nostro Signore richiede, quando dice che non si deve sradicare il grano con la zizzania (Mt. 13.29). Conclude infine con una citazione di san Cipriano: "Ognuno corregga dunque, con spirito di misericordia, quanto è in suo potere, quanto non può correggere lo sopporti con pazienza e ne soffra con partecipazione ".
12. Questo sant'uomo fa queste affermazioni a motivo dell'eccessivo rigore dei Donatisti, i quali riscontrando nella Chiesa la presenza di vizi, che i vescovi rimproveravano certo a parole ma non colpivano con scomunica (in quanto non speravano ottenere, con questo mezzo, risultati positivi ) protestavano contro di loro accusandoli di tradire la disciplina e, fatto più grave, si separavano dalla comunità dei credenti come gli Anabattisti odierni, che pensano non esservi comunità cristiana se non laddove si manifesti sotto forma di una perfezione angelica, e distruggono così, sotto apparenza di zelo, tutto l'edificio della Chiesa.
"Questa gente "dice sant'Agostino "desidera attrarre il popolo a se o di dividerlo dalla Chiesa seducendolo con le apparenze; e questo non tanto per odio verso il peccato altrui, quanto per bramosia di contese, gonfi di orgoglio trascinati dall'ostinazione, sottili nella calunnia ma passionali nelle sedizioni. Affinché non ci si accorga che sono privi della luce della verità si nascondono sotto un'apparenza di severità e di rigore; abusano di quanto viene ordinato nella Scrittura in vista di correggere i vizi dei fratelli, conservando l'unità e la fratellanza e ricorrendo a mezzi di dolcezza; e provocano così scismi e deplorevoli divisioni nella Chiesa.
Ecco come Satana si trasforma in angelo di luce (2 Co. 11.14) inducendo gli uomini a crudeltà disumana sotto pretesto di severità, poiché egli cerca unicamente di spezzare i vincoli della pace e dell'unione; e di fatto è questo il solo mezzo a sua disposizione per farci del male ".
13. Tutte queste parole sono di sant'Agostino; ma avendo detto questo, raccomanda in modo particolare che qualora tutto un popolo risulti affetto da un vizio, come da una malattia contagiosa, si moderi la severità con spirito di misericordia. Poiché il provocare scismi, dice, è una cattiva soluzione e pericolosa, che conduce sempre a risultati negativi, in quanto finisce Cl. Turbare più i buoni, spesso deboli, che i cattivi fieri nel male. Il suggerimento che egli dava agli altri lo ha attuato per primo, quando risultò necessario. Scrivendo infatti a Aurelio, vescovo di Cartagine, deplora severamente l'ubriachezza che regnava allora in Africa, in quanto la Scrittura condanna severamente questo vizio, e lo esorta a convocare un concilio provinciale per porvi rimedio, ma aggiunge appresso: "Credo che queste cose debbano essere eliminate con bontà e non con aspro rigorismo, con l'insegnare piuttosto che Cl. Condannare, ammonendo più che minacciando. Poiché occorre impegnarsi quando un vizio è comune a tutto un popolo, ma bisogna ricorrere ad una maggior severità quando il numero dei peccatori non è grande".
Non intende tuttavia affermare che un vescovo debba dissimulare o tacere quando non sia in grado di punire i peccati comuni, come dice appresso, ma vuole che la correzione avvenga in forma moderata sì da risultare medicina e non veleno. Perciò nel terzo libro contro Parmenio, dopo aver a lungo dissertato a questo riguardo, conclude in questi termini: "Non deve dunque essere negletto il precetto apostolico di allontanare i malvagi quando, come era nell'intenzione dell'apostolo, questo si possa fare senza pericolo di causar sedizioni e torbidi; e bisogna anche riflettere al fatto che l'impegno nostro è di mantenere l'unità sopportandoci a vicenda " (1 Co. 5.7; Ef. 4.2).
14. L'altro aspetto della disciplina, che non consiste propriamente nel potere delle chiavi è che i pastori, secondo le necessità dei tempi invitino il loro popolo a far digiuni o preghiere solenni o altri esercizi di umiltà e di penitenza; riguardo a queste cose non è stabilita nella parola di Dio alcuna regola, in quanto egli ha voluto lasciarle al giudizio della sua Chiesa. La pratica di questi atti, ritenuti utili, è sempre esistita nella Chiesa antica, sin dal tempo degli apostoli, quantunque essi stessi non ne siano gli autori, avendo tratto esempio dalla Legge e i Profeti. Vediamo, infatti, in quei testi che quando si verifica qualche avvenimento immediatamente si convocava il popolo in assemblea e lo si invitava a pregare Dio con digiuni. Gli apostoli dunque hanno seguito un uso, che sapevano non essere nuovo nel popolo di Dio, e giudicavano utile.
Identiche premesse si riscontrano in tutti gli altri mezzi e provvedimenti che hanno lo scopo di incitare il popolo a compiere il suo dovere e mantenerlo in obbedienza. Ne troviamo esempi qua e là nella storia sacra e non è il caso di farne qui la enumerazione. Questo è però il concetto base che ne dobbiamo ricavare: quando si verifica nella cristianità un qualche diverbio carico di gravi conseguenze, quando è il caso di eleggere i ministri, o quando sorge qualche questione difficile o di grande importanza, o si manifestano i segni dell'ira di Dio, quali pestilenza, guerre, carestie è norma santa e utile in ogni tempo che i pastori invitino i credenti a compiere digiuni e preghiere straordinarie.
Chi ritiene non poter accettare le testimonianze dell'antico Testamento al riguardo, considerandole non normative per la Chiesa cristiana, consideri che gli stessi apostoli hanno agito così. Riguardo alle preghiere non penso vi sia alcuno che sollevi obiezioni; facciamo dunque alcune considerazioni riguardo al digiuno.
Alcuni, non vedendone l'utilità, lo considerano poco importante; altri, e questo è peggio, lo respingono come del tutto superfluo. È facile, d'altra parte, assumere atteggiamenti superstiziosi qualora non se ne intenda rettamente l'uso.
15. Nel digiuno, rettamente e santamente inteso, si possono evidenziare tre scopi: domare la carne affinché non si affermi in modo eccessivo, indurci a preghiere o orazioni e altre sante meditazioni, essere segno della nostra umiltà dinnanzi a Dio quando vogliamo confessargli il nostro peccato.
Il primo scopo non si attua in modo precipuo nel corso di un digiuno pubblico, tutti non hanno infatti la stessa natura, né si trovano nelle stesse condizioni di salute; si verifica invece appieno nel caso di un digiuno privato.
Il secondo scopo è invece raggiunto nell'uno e nell'altro caso. La Chiesa tutta ha infatti bisogno di disporsi con digiuni a pregare Dio, quanto il singolo.
Lo stesso dicasi del terzo scopo. Quando avvenga che Dio colpisca con guerra, pestilenza, altre calamità tutto un popolo, è giusto che di fronte a questo flagello, comune a tutti, tutto il popolo si senta colpevole. Ma se Dio punisce un singolo questi deve riconoscere la sua colpa insieme alla sua famiglia. È ben vero che questa confessione consiste essenzialmente in un sentimento interiore. Ma quando il cuore è toccato come si conviene non può non rivelarlo, mediante segni esteriori, e soprattutto quando questo risulta ad edificazione degli altri, affinché tutti insieme, confessando il proprio peccato, rendano lode a Dio e si rivolgano mutue esortazioni con buoni esempi.
16. Perciò il digiuno, come segno di umiliazione, si addice maggiormente, nella sua forma pubblica ad un popolo che nella sua forma privata ad un singolo, quantunque sia comune all'uno e all'altro, come abbiamo detto. E in quanto concerne il problema della disciplina di cui stiamo parlando, sarebbe opportuno, ogniqualvolta si prega Dio in comune, per qualche problema importante, invitare al digiuno.
In questo modo i credenti di Antiochia, volendo imporre le mani a Paolo e Barnaba, per meglio offrire a Dio il loro ministero, aggiunsero il digiuno alla preghiera (At. 13.3). Analogamente Paolo e Barnaba, volendo istituire ministri nella Chiesa, avevano l'abitudine di digiunare per meglio pregare, come attesta san Luca (At. 14.23). Essi hanno considerato questo digiuno unicamente come strumento per una migliore disposizione alla preghiera. In realtà noi sperimentiamo che quando lo stomaco è pieno lo spirito non è nelle migliori disposizioni per elevarsi a Dio ed essere incitato alla preghiera da ardente desiderio né a perseverare in essa.
In questo senso deve essere inteso quanto san Luca dice riguardo ad Anna la profetessa che serviva Dio "con digiuni e preghiere " (Lu 2.37). Egli non considera certo che il servizio di Dio consista in digiuni, dichiara solamente che questa santa donna si esercitava a pregare del continuo con digiuni. Tale era anche il digiuno di Nehemia quando pregava Dio con zelo intenso per la liberazione del suo popolo (Ne 1.4).
Nello stesso senso san Paolo dice che il marito e la moglie credenti fanno bene ad astenersi per un tempo dalla comunione coniugale per dedicarsi più liberamente al digiuno e alla preghiera (1 Co. 7.5). Facendo del digiuno quasi il sostegno e l'ausilio della preghiera egli dichiara che di per se sarebbe inutile. Così dunque occorre che il digiuno sia orientato a questo scopo. Anzi quando egli ordina ai mariti e alle mogli di compiere il loro dovere reciproco (1 Co. 7.3) è chiaro che non intende separarli in vista di una preghiera normale ma solo in caso di particolare necessità.
17. Analogamente, quando inizi fra noi una pestilenza, una carestia, una guerra o quando vi siano segni che qualche calamità debba piombare su un popolo o su una nazione è compito dei pastori esortare la Chiesa a digiunare per pregare umilmente Dio affinché storni la sua ira. Egli infatti rivela che si prepara a far vendetta quando ci indica ci minaccia con un qualche pericolo. Come anticamente i malfattori erano soliti vestirsi di nero, lasciarsi crescere la barba e ricorrere a segni di lutto per commuovere i loro giudici, così quando Dio ci invoca dinanzi al suo trono per il giudizio è necessario e salutare per noi invocare misericordia con i segni esteriori della nostra tristezza e ciò per servire alla sua gloria e all'edificazione di tutti.
Che tale sia stata la prassi del popolo d'Israele si ricava facilmente dalle parole del profeta Gioele. Quando egli ordina che si suoni la tromba e si convochi il popolo, che si proclami il digiuno e quanto segue (Gl. 2.15) , Si riferisce a realtà usuali al tempo suo. Poco prima egli aveva detto che Dio stava istruendo il processo contro il suo popolo, era vicino il giorno del loro giudizio a cui sarebbero stati citati. Poco dopo egli esorta a ricorrere al sacco e alla cenere al pianto e al digiuno, cioè li esorta ad umiliarsi e abbassarsi dinanzi a Dio anche con manifestazioni esteriori.
È vero che il sacco e la cenere sono più adatti a quei tempi che al nostro, ma per quanto concerne la convocazione del popolo, il piangere, digiunare e simili non c'è dubbio che queste cose convengano altrettanto bene ogni volta che lo richiede la nostra vita. Trattandosi di un santo esercizio per i credenti sia per umiliarli che per manifestare la loro umiltà perché non ne faremmo uso come gli Antichi in analoghe situazioni? La Scrittura ci mostra che non solo la Chiesa di Israele, educata nella parola di Dio ha digiunato in segno di tristezza (1 Re 7.6; 31.13; 2 Re 12) , ma anche il popolo di Ninive che non aveva ricevuto alcun insegnamento all'infuori della predicazione di Giona (Giona 3.5). Perché dunque, in casi analoghi, non faremmo altrettanto?
Qualcuno mi farà notare che si tratta di un uso cerimoniale esteriore che ha, come gli altri, preso fine in Cristo. Penso invece sia oggi ancora eccellente ausilio per i credenti, come è sempre stato, e utile avvertimento per mantenerci vigili affinché non provochiamo più oltre l'ira di Dio con la nostra durezza e pigrizia quando siamo puniti dalle sue verghe. Perciò Gesù Cristo giustificando il fatto che i suoi discepoli non digiunavano, non dice che il digiuno sia abolito, ma afferma che si addice ai tempi di lutto e lo connette con il pianto e la tristezza: "il tempo viene "dice "che lo sposo sarà tolto " (Lu 5.34.35; Mt. 9.15).
18. Ad evitare però che si ingenerino errori riguardo al termine e necessario definire in che consista il digiuno. Con questo termine non intendiamo indicare solo una sorta di temperanza e sobrietà nel bere e nel cibo ma qualcosa di più. Li ben vero che la vita dei credenti deve essere moderata da una perenne sobrietà, in modo che l'uomo cristiano viva, finché vive nel mondo, una sorta di digiuno perenne; esiste però oltre a questo una forma specifica di digiuno, quando limitiamo il nostro cibo oltre il consueto, per un giorno o un certo tempo, e viviamo in una temperanza più rigida del solito.
Questa restrizione si manifesta in tre elementi: nel tempo, nella qualità dei cibi, nella loro quantità.
Riguardo al tempo significa che dobbiamo essere digiuni nelle circostanze per cui abbiamo digiunato. Se qualcuno per esempio, digiuna in vista di una preghiera solenne deve rimanere digiuno finché questa sia stata fatta.
La qualità dei cibi consiste nel non avere cibi delicati e raffinati per solleticare il palato ma nell'accontentarsi di alimenti semplici, comuni, popolari.
L'aver misura consiste nel mangiare meno e più leggermente del solito, per necessità non per piacere.
19. È tuttavia necessario vigilare per non cadere in atteggiamenti superstiziosi come è accaduto nel passato con grave danno della Chiesa. Poiché sarebbe meglio non far uso di digiuni che osservarli diligentemente ma con cattive e perniciose opinioni, che la gente inventa facilmente se i pastori non vi si oppongono con cura e grande prudenza. Ecco dunque gli avvertimenti necessari per un appropriato uso del digiuno.
In primo luogo occorre ricordare quanto dice Gioele affermando che i cuori devono essere stracciati, non le vesti (Gl. 2.13). Poniamo cioè attenzione al fatto che il digiuno non è per Dio valido in se stesso ma unicamente quando è espressione di una situazione interiore e l'uomo prova un vero dispiacere di se e del suo peccato, una umiltà e un dolore autentici provocati dal timor di Dio.
Più importante ancora è l'aver coscienza che il digiuno risulta utile solo in quanto risulta congiunto con queste cose, come ausilio inferiore e di poco conto. Non c'è cosa che Dio odi quanto queste forme di ipocrisia, quando gli uomini, presentandogli delle apparenze e dei segni esteriori, anziché un cuore puro e semplice, presumono ingannarlo con l'apparenza. Perciò Isaia protesta con severità contro la finzione degli Ebrei che pensavano aver soddisfatto Dio perché avevano digiunato, mentre il cuor loro permaneva pieno di empietà e di sentimenti malvagi: "è forse questo il digiuno di cui mi compiaccio? Dice il Signore " (Is. 58.5). Perciò il digiuno degli ipocriti non è solo tempo perso e fatica inutile ma sommo abominio.
Occorre altresì evitare un altro male affine a questo: considerare il digiuno opera meritoria o servizio reso a Dio. Essendo cosa in se indifferente e priva di importanza, se non in quanto volto al fine cui abbiamo accennato, è pericolosa superstizione confonderlo semplicemente, e senza riserve, con le opere ordinate da Dio e in se necessarie. I Manichei, eretici antichi, sono stati esponenti di questa follia; sant'Agostino redarguendoli dimostra chiaramente che i digiuni si devono valutare unicamente in riferimento ai fini che abbiamo detto e Dio non li approva se non in quanto sono ad essi riferiti .
Il terzo errore, pur non essendo così grave, non è privo di pericoli. Consiste nel richiedere e imporre con carattere normativo il digiuno, quasi fosse una delle principali opere del cristiano, oppure valutarlo al punto che alla gente sembri aver compiuto opera meritoria ed eccellente quando abbia digiunato. Riguardo a questa situazione non mi sentirei di scagionare del tutto gli antichi Padri dall'aver gettato qualche seme di superstizione e offerto occasione alla tirannide che di poi è sorta. Li vero che s'incontrano nei loro scritti affermazioni pertinenti concernenti il digiuno, ma vi si leggono anche lodi eccessive intese a magnificarlo come una singolare virtù.
20. C'è di più: già al tempo loro si osservava la quaresima e in questa pratica religiosa erano presenti elementi di superstizione; il popolino infatti riteneva aver reso a Dio un grande servizio osservando la quaresima, e i pastori apprezzavano questa pratica, quasi fosse stata compiuta ad imitazione di Gesù Cristo.
È certo che Gesù Cristo non ha digiunato per fornire agli altri un esempio da seguire, ma, volendo iniziare la predicazione del suo Evangelo, ha voluto, con quest'atto singolare, fornire le prove che la sua era dottrina venuta dal cielo e non dagli uomini. Sorprende il fatto che un così grave fraintendimento abbia potuto venire in mente ai dottori antichi visto che furono uomini di retto intendimento e che vi erano molte ragioni che li dovevano preservare dal commettere un tale abuso. Gesù Cristo infatti non ha digiunato frequentemente, come sarebbe stato il caso qualora avesse voluto dare carattere normativo ad un digiuno annuo, ma una volta sola quando ha iniziato la sua predicazione.
Secondo: non ha digiunato in modo umano come sarebbe stato necessario fare per indurre gli uomini a seguire il suo esempio; ma con quel gesto ha inteso mostrarsi eccezionale dinnanzi a tutti piuttosto che invitare gli altri ad imitarlo.
Infine c'è in quel digiuno la stessa motivazione che in quello di Mosè quando ricevette le leggi dalla mano di Dio (Es. 24.18; 34.28). Come Mosè aveva digiunato in modo miracoloso quaranta giorni e quaranta notti onde l'autorità della Legge fosse, in quel modo, confermata, era opportuno che in Gesù Cristo avvenisse un miracolo simile affinché l'Evangelo non fosse giudicato inferiore alla Legge. Ora nessuno ha mai pensato dover introdurre nel popolo d'Israele una forma di digiuno analogo, Cl. Pretesto di imitare Mosè e nessun profeta né credente lo ha imitato al riguardo, quantunque tutti avessero zelo e coraggio sufficienti da impegnarsi in ogni opera pia. Il fatto che Elia abbia trascorso quaranta giorni senza bere o mangiare (3Re 19.8) , aveva come fine di ottenere il riconoscimento, da parte del popolo, del suo carattere di profeta, inviato da Dio per mantenere la Legge da cui tutto il popolo di Israele si era allontanato.
È stato dunque uno spirito di imitazione falso, vano e pieno di superstizione quello che ha spinto gli antichi a definire il digiuno di quaresima: una ordinanza stabilita in base all'esempio di Cristo. Quantunque le forme di questo digiuno fossero diverse, in quei tempi, come narra Cassiodoro nel libro nono della sua storia. I Romani, dice, non avevano che tre settimane per la quaresima ma digiunavano tutti i giorni eccetto la domenica e il sabato. I Greci e gli Illirici ne avevano sei, gli altri sette, ma digiunavano ad intervalli. Notevoli differenze sussistevano pure riguardo al cibo perché gli uni non si nutrivano che di pane e acqua, gli altri mangiavano erbe, alcuni pesci e volatili, altri non si astenevano da alcun nutrimento come attesta sant'Agostino nella seconda epistola a Ianuario.
21. Da quel tempo però le cose sono andate sempre peggiorando. Alla folle superstizione del popolo si aggiunse un altro male nella persona dei vescovi che risultarono in parte rozzi e ignoranti, in parte bramosi di dominare e tiranneggiare senza ragione. In questa situazione furono emanate le leggi inique e perverse con cui si sono vincolate le coscienze per trascinarle in inferno.
Si è proibito di mangiar carne quasi fosse un alimento contaminato e tale da contaminare gli uomini. Si sono aggiunte in seguito, le une alle altre, opinioni perverse finché si è precipitati n un abisso di errori.
Per non lasciar sussistere nulla di puro si è preso in giro Dio come se fosse un bambino. Poiché quando si è trattato di digiunare si è imbandita la tavola più riccamente del solito, si sono procurate tutte le ghiottonerie e leccornie possibili, si è raddoppiato in quantità e ricercatezza il cibo, poi si è definito tutto questo "digiuno "e ci si è illusi di servire Dio in questo modo. Tralascio dal far notare il fatto che quelli che hanno la pretesa di essere i più santi non riempiono mai tanto il loro ventre come durante il digiuno. In sostanza tutta la santità del digiuno, comunemente inteso, consiste nell'astenersi soltanto dal mangiar carne e abbondare, per il resto, in delizie e soddisfare le ghiottonerie a proprio piacimento purché sia una sola volta al giorno. Quantunque la maggioranza eviti di fare "colazione monacale "per usare la loro espressione. Considerano invece estrema empietà e delitto degno di morte mangiare un pezzo di lardo o una fetta di carne salata con un tozzo di pane nero, anche quando a farlo sia un poveretto che non ha altro cibo.
San Girolamo narra che già ai suoi tempi si incontrava gente che pensava soddisfare Dio con queste cose sciocche e prive di valore; che si procurava cibi squisiti nei paesi lontani, per non mangiar olio; anzi, per far violenza alla natura, non beveva acqua ma non so qual bevanda rara e di sapore ricercato, che per di più non beveva in bicchieri o tazze ma in una conchiglia . Quello che era allora vizio di pochi regna oggi fra i ricchi: il non digiunare se non per mangiar meglio e con maggior incertezza del solito.
Non voglio fare un lungo discorso riguardo ad un fatto così evidente. Affermo solo che non è il caso che i papisti traggano occasione per vantarsi né dai loro digiuni, né dal rimanente della loro disciplina, quasi contenesse elementi degni di lode, visto che tutto ciò che vi si riferisce è corrotto e perverso.
22. Esaminiamo ora il secondo aspetto della disciplina, concerne in modo specifico il clero, e consiste essenzialmente in questo: gli uomini di Chiesa si comportino secondo i canoni, promulgati anticamente in vista di un vivere onesto: quali ad esempio: un ecclesiastico non sia dedito alla caccia, al gioco dei dadi, ai piaceri della tavola o a banchettare, che nessuno si consacri all'usura o al commercio, non presenzi ai balli ed altre dissolutezze.
Gli antichi concili hanno ritenuto necessario punire chi non intendesse sottomettersi a tutte queste norme, concernenti l'onestà del clero. Per questo ogni vescovo ebbe l'incarico e l'autorità di governare il suo clero, per costringere ognuno a compiere il proprio dovere. Per questa stessa ragione furono istituiti le visite e i sinodi, affinché fosse ammonito chi risultava svogliato nella sua Carica e qualora avesse errato fosse punito secondo il suo demerito.
I vescovi si adunarono annualmente in concilio in ogni provincia, in un primo tempo anzi, i concili si tenevano ogni sei mesi, perché fosse giudicato in quella sede chi si era comportato indegnamente. Qualora un vescovo avesse agito con eccessiva durezza nei confronti del suo clero o lo trattasse in modo disumano, chi aveva motivo di lamentarsi di lui si presentava in quella sede e la sua causa veniva presa in esame. E si applicava una estrema severità. Chi infatti avesse abusato della sua autorità o agito male nell'esercizio del suo ufficio, veniva deposto, a volte persino scomunicato per qualche tempo. Inoltre, dato il carattere ordinario di questo governo, non si chiudeva un concilio provinciale senza che venisse fissato il luogo e la data del seguente. La convocazione di un concilio ecumenico era di competenza imperiale; l'Imperatore ne fissava la data, lo convocava ed ordinava a tutti di partecipare, come è illustrato dalla storia antica. Finché è stata usata questa severità, il clero non ha imposto al popolo obblighi se non in quelle cose in cui dava lui stesso l'esempio, poiché risultava molto più severo nei riguardi di se stesso che verso gli altri. In realtà è giusto che il popolo goda di una libertà maggiore e non sia tenuto così rigidamente a freno come il clero.
Non è necessario narrare nei dettagli in che modo questa legislazione fu rovesciata e se ne va ora alla deriva; ognuno è in grado di constatare che non esiste classe sociale più dissoluta e priva di freno degli ecclesiastici, al punto che si grida, da ogni parte, allo scandalo indipendentemente da quello che possiamo dire noi. Affinché non sembri che tutta la tradizione antica è tra loro interamente abolita, gettano è vero polvere negli occhi dei semplici, ingannandoli con delle ombre; tutto questo non assomiglia però a quello che fingono osservare più di quanto le smorfie di una scimmia assomiglino al comportamento razionale di un uomo.
Si legge in Senofonte un testo molto interessante a questo riguardo. Egli narra che i Persiani abbandonate le virtù dei loro antenati, avendone abbandonato il modo di vivere austero per assumere uno stile di vita molle ed effeminato, non mancavano di attenersi formalmente a quelle antiche leggi per mascherare la loro vergogna. Ai tempi di Ciro, per esempio, la temperanza e la sobrietà erano tali che non era lecito soffiarsi il naso e il gesto sarebbe stato considerato volgare e disdicevole; quest'uso si mantenne a lungo, in seguito; soffiarsi il naso continuò a non essere cosa lecita, lo era però inghiottire le immondizie e gli umori corrotti che avevano accumulato con la loro intemperanza sino a puzzare. Similmente da imitatori coscienziosi si sarebbero fatto scrupolo, secondo il precetto antico, di commettere l'atto delittuoso di recare a tavola coppe ma trovavano normale di ingurgitare vino in tale eccesso da dover essere portati via ubriachi. Era stato anticamente stabilito, nella loro nazione, di non mangiare che una volta al giorno; da buoni osservanti non avevano cassato la legge ma era per prolungare i loro banchetti da mezzogiorno alla mezzanotte. Poiché la legge antica prescriveva che in guerra un esercito non viaggiasse se non digiuno, questa abitudine è stata bensì osservata ma quei bravi imitatori avevano ridotto la giornata alla durata di due ore.
Quando i papisti citano le loro belle regolamentazioni, per darci a credere che sono del tutto simili ai santi Padri, questo esempio dei Persiani sarà sufficiente a smascherare il carattere ridicolo e sciocco della loro imitazione.
23. Tanto maggior rigore, anzi intransigenza, dimostrano nel negare il matrimonio ai preti. Quali licenze in materia di morale prendano e concedano sarebbe però superfluo dire. Sotto le parvenze di quella infetta e putrida santità del celibato risultano macchiati di ogni vizio. Questa proibizione dimostra in modo sufficientemente chiaro quanto le tradizioni umane siano nocive, perché non solo ha privato la Chiesa di buoni e capaci pastori, che avrebbero assolto il loro incarico rettamente, ma ha provocato un numero tragicamente alto di mostruosità, un vero mare, e ha precipitato molte anime nella disperazione.
Per quanto concerne la proibizione fatta ai preti di contrarre matrimonio, affermo che in questo vi è stato un deplorevole dispotismo, contrario non solo alla parola di Dio ma ad ogni senso di equità.
Anzitutto non era affatto lecito agli uomini proibire ciò che Dio aveva lasciato alla nostra libertà.
Secondo: è cosa evidente che non necessita di prove, che nostro Signore ha espressamente comandato che tale libertà non venisse violata.
Inoltre san Paolo ordina, sia a Tito che a Timoteo, che il vescovo sia marito di una sola moglie (1 Ti. 3.2; Tt 1.6).
Non avrebbe potuto esprimersi con maggior violenza dichiarando: vi saranno uomini malvagi che proibiranno il matrimonio con il pretesto che questa proibizione è frutto di una rivelazione dello Spirito Santo, ed invitando i credenti ad evitarli, e definendo questa specie di gente non solo seduttori ma diavoli. (1 Ti. 4.1-3). Questa è dunque la profezia e la testimonianza dello Spirito Santo con cui ha voluto, sin dall'inizio, ammonire la Chiesa: la proibizione del matrimonio è dottrina diabolica.
I nostri avversari pensano aver trovato una scappatoia geniale affermando che questa dichiarazione si deve riferire alle antiche sette eretiche, quali Montano, i Tazianei e gli Eucratiti . Sono costoro dicono, che hanno rifiutato il matrimonio, non noi; ci limitiamo a proibirlo al clero come sconveniente. Forse che la suddetta profezia, quand'anche adempiuta nel caso di Taziano e altri simili, non si può riferire egregiamente anche a loro?
Non condanniamo il matrimonio in assoluto, dicono, ma solo in riferimento al clero. Un cavillo tanto puerile non è degno di essere preso in considerazione, affermare che non si proibisce
Il matrimonio in quanto non lo si proibisce a tutti! Come un tiranno che pretenda le leggi da lui emanate non essere inique dato che opprimono solo una parte del popolo.
24. Obiettano che deve esistere un segno che distingua il clero dai laici, quasi Dio non avesse previsto quali debbano essere i veri ornamenti dello stato ecclesiastico. Parlando così, essi biasimano implicitamente l'Apostolo per aver sovvertito l'ordine della Chiesa e messo in crisi la sua integrità, visto che, nel definire il tipo di vero vescovo, include fra le virtù richieste il matrimonio.
Conosco l'esegesi che danno di questo testo: non bisogna eleggere alla carica di vescovo colui che sia stato sposato una seconda volta; e sono pronto ad ammettere che questa esegesi non è nuova tuttavia risulta in modo sufficientemente chiaro dal contesto che è errata; immediatamente dopo, infatti, egli indica quali abbiano da essere le mogli dei preti e dei diaconi. Eccoti dunque san Paolo che include il matrimonio fra le qualità di un buon vescovo e costoro pretendono trattarsi di un vizio, intollerabile per lo stato ecclesiastico. Ciò che è peggio, non contenti di averlo svalutato in forma generale, lo chiamano "sozzura ", "corruzione carnale "; parole di Siricio papa che sono incluse nei loro canoni!
Ognuno rifletta da quali ambienti ciò provenga. Nostro Signore Gesù fa invece al matrimonio l'onore di considerarlo immagine e rappresentazione dell'unità santa che egli stesso ha con la Chiesa. Che potrebbe dirsi di più per esaltare la dignità del matrimonio? Quale impudenza dunque è dirlo immondo e sozzo quando ci è invece dimostrazione della grazia spirituale di Gesù Cristo?
25. Quantunque il loro divieto contrasti in modo così evidente con la parola di Dio hanno ancora una scusa, per dimostrare che i preti non debbono contrarre matrimonio: se fu chiesto ai sacerdoti leviti, quando si avvicinavano all'altare, di non coabitare con le proprie mogli, per offrire il loro sacrificio in stato di maggior purezza, non sarebbe ragionevole che i sacramenti della cristianità, più nobili ed eccellenti, fossero amministrati da persone sposate.
Quasi fossero identici l'ufficio del ministro evangelico e il sacerdozio levitico! I sacerdoti leviti rappresentavano la persona di Gesù Cristo, il quale, essendo mediatore tra Dio e gli uomini, ci doveva riconciliare Cl. Padre mediante la perfetta sua purezza. Poiché costoro non potevano, in quanto peccatori, commisurarsi in alcun modo alla santità di lui, dovendolo in qualche modo rappresentare in forma figurata, erano tenuti a purificarsi oltre l'abitudine umana quando si avvicinavano al santuario, in quanto recavano, in quella circostanza, la figura di Cristo, perché si presentavano davanti a Dio mediatori, nel nome del popolo, nel tabernacolo che rappresentava quasi l'immagine della sede celeste. Non avendo i pastori questo ufficio il paragone non calza.
Perciò l'Apostolo non pone eccezioni, affermando che il matrimonio è lodevole fra tutti ma che Dio punirà i fornicatori e gli adulteri (Eb. 13.4). Di fatto gli apostoli hanno dimostrato, Cl. Loro esempio, che il matrimonio non contrasta con la santità di nessuna condizione umana per quanto eccellente sia. San Paolo attesta non solo che essi hanno conservato le loro mogli ma le hanno portate seco (1 Co. 9.5).
26. Anzi fu grande impudenza il richiedere tale prova di castità come necessaria. Così facendo hanno recato grande ingiuria alla Chiesa antica che pur eccellendo in purezza di dottrina nondimeno ha brillato ancor più per santità. Pur non facendo caso degli apostoli, che diranno, vi chiedo, di tutti gli antichi Padri i quali, a quanto ci risulta, non solo hanno tollerato il matrimonio dei vescovi ma lo hanno anche approvato? Ne conseguirebbe, secondo l'opinione di costoro, che hanno così profanato i misteri di Dio perché non li amministravano con purezza.
È bensì vero che questa materia è stata oggetto di dibattito al concilio di Nicea (trovandosi sempre qualche tipo superstizioso, che sogna fantasticherie nuove per rendersi interessante ). Vi furono persone che avrebbero voluto si proibisse il matrimonio ai preti. Che costa fu però stabilito? Fu accolta la tesi di Pafnuzio che dichiarò la coabitazione dell'uomo e della donna essere cosa casta . Così il santo matrimonio rimase nella sua pienezza, e non fu considerato disonorevole per i vescovi che erano sposati né si pensò che questo recasse in alcun modo offesa al ministero.
27. Da allora sono sopravvenuti altri tempi in cui si è sviluppata questa folle superstizione di tenere in eccessiva stima l'astinenza dal matrimonio. Poiché la verginità è stata assunta in così alta stima, che si considerava difficilmente un'altra virtù esserle paragonata, e quantunque il matrimonio non venisse considerato in modo assoluto come impuro, tuttavia la sua dignità era così offuscata che si pensava un uomo non potesse aspirare alla perfezione senza astenersene.
Da qui hanno avuto origine i canoni con i quali è stato ordinato a coloro che già erano nello stato sacerdotale di non contrarre matrimonio. In seguito altri che proibirono di accogliere al sacerdozio uomini sposati a meno che non si impegnassero, Cl. Consenso della moglie a mantenere una castità perpetua, canoni che sono stati accolti con favore in quanto sembravano utili a rendere il sacerdozio più onorevole.
Tuttavia se i nostri avversari muovono l'obiezione dell'antichità risponderò, in primo luogo, che la libertà di sposarsi esisteva per i sacerdoti al tempo degli apostoli, e ha durato ancora a lungo; anzi gli apostoli e i santi Padri della Chiesa primitiva non hanno avuto scrupoli a valersene.
In secondo luogo affermo che dobbiamo tenere in considerazione il loro esempio e commettiamo un errore ritenendo illecito o disonesto ciò che è stato allora, non solo in uso, ma anche apprezzato.
Dico inoltre che quando il matrimonio non ha più goduto della stima necessaria, a causa della valutazione superstiziosa che si dava della verginità, non per questo si è immediatamente proibito ai sacerdoti di sposarsi, quasi si trattasse di una cosa necessaria; si dava solo preferenza alla continenza.
Infine affermo che questa legge non è stata intesa allora in modo tale da costringere alla continenza coloro che non la potevano mantenere. I canoni antichi infatti, hanno previsto pene severe per i preti che si fossero resi colpevoli di fornicazione mentre hanno solo previsto l'esclusione dall'ufficio per coloro che avessero preso moglie.
28. Ogniqualvolta perciò i nostri avversari, per mantenere questa nuova tirannia di cui fanno uso, citano la Chiesa antica noi risponderemo che diano le prove che nei loro sacerdoti esiste una castità quale si riscontrava nei sacerdoti antichi. Sopprimano gli adulteri e gli scapestrati, non tollerino oggi ogni sorta di grossolanità da parte di coloro a cui non permettono di convivere con una donna, rimettano in vigore l'antica disciplina, che è stata abolita fra loro per reprimere le azioni vergognose commesse fra loro e liberino la Chiesa da quella vergogna e turpitudine che da lungo tempo la sfigurano.
Quando ci avranno concesso tutto questo avremo ancora una replica da fare: non impongano vincoli in una materia che di per se è libera e deve avere per scopo l'utile della Chiesa.
Non intendo dire con questo che si debba, in qualche modo, accogliere i canoni che hanno vincolato i chierici in stato di continenza, ma affinché ogni persona di buon senso si renda conto dell'impudenza con cui i nostri avversari diffamano il santo matrimonio Cl. Pretesto di rifarsi alla Chiesa antica.
I Padri di cui possediamo gli scritti, eccetto Girolamo non hanno combattuto il valore del matrimonio anche quando hanno dichiarato in privato il loro pensiero. Ci accontenteremo di una citazione di san Crisostomo, che non si può sospettare di aver favorito troppo il matrimonio visto che al contrario era fin troppo incline a stimare e magnificare la verginità. Egli si esprime così: "Il primo grado della castità è la verginità immacolata, il secondo è un matrimonio serbato fedelmente. L'amore di un marito e di una moglie quando vivono rettamente lo stato matrimoniale può considerarsi una seconda forma di verginità ".
CAPITOLO 13
I VOTI: CON QUANTA SUPERFICIALITÀ SIANO PRONUNCIATI NEL PAPISMO E COME LE ANIME NE SIANO MISERAMENTE SCHIAVE
1. Deplorevole è certo il fatto che la Chiesa, la cui libertà è stata acquistata a prezzo inestimabile mediante il sangue di Gesù Cristo, sia stata oppressa da una tirannia crudele e gravata da un cumulo infinito e insopportabile di tradizioni umane. La stupidità dei singoli dimostra però che, non senza ragione, Dio ha concesso a Satana e ai suoi ministri la libertà di agire. Quelli che si volevano spacciare per gente devota non si sono infatti limitati a disprezzare il giogo di Cristo, sostituendolo con i pesi che i falsi dottori giudicavano bene dover imporre, ma ognuno si e dato da fare per suo conto, e si è scavato il suo piccolo pozzo per sprofondarvisi. Questo si è verificato quando tutti hanno voluto dimostrarsi più abili degli altri nel formulare voti, volendosi vincolare con una obbligatorietà più severa di quanto si riscontrasse in un numero già eccessivo di norme.
Abbiamo dimostrato più sopra che il servizio di Dio è stato corrotto dall'arroganza di quelli che hanno dominato Cl. Titolo di pastori, quando hanno gravato le povere anime con le loro leggi inique. Non sarà fuori luogo, perciò, smascherare ora un'altra tendenza affine a quella, da cui risulta che l'uomo ha sempre avuto un animo così perverso da opporre resistenza in tutti i modi possibili agli aiuti, che Dio gli forniva. Per fare intendere più chiaramente ai lettori quale danno abbiano arrecato i voti, è necessario fare menzione dei princìpi che abbiamo ricordati più sopra.
Abbiamo affermato in primo luogo che la Legge contiene quanto si richiede per condurre un'esistenza onesta e santa.
Abbiamo inoltre detto che il Signore, al fine di preservarci dalla smania di creare forme nuove per servirlo secondo il nostro gusto, ha riassunto il significato della giustizia nella semplice obbedienza alla sua volontà. Se questo è vero risulterà che tutte le forme di pietà da noi inventate per piacere a Dio gli risultano sgradite quale sia il gusto che noi proviamo a praticarle. Il Signore infatti ha in molte occasioni non solo dimostrato di rifiutarle, ma di odiarle profondamente. Questo fatto suscita un problema riguardo ai voti che pronunciamo oltre le esplicite dichiarazioni della parola di Dio, e cioè il problema di sapere in che considerazione si debbano tenere, se i cristiani li possano pronunciare, e quando abbiano fatto voti sino a che punto sono tenuti ad osservarli.
Il vincolo che nel campo delle relazioni umane indichiamo Cl. Termine "promessa "è detto voto nei riguardi di Dio. Agli uomini promettiamo ciò che, a nostro giudizio, è di loro gradimento o ciò che dobbiamo loro per dovere di giustizia; discrezione ancora maggiore occorre dunque avere quando si tratta di voti che si rivolgono a Dio in quanto non ci si può far beffe di lui.
In realtà si riscontra da sempre, in questo campo, una stupefacente superstizione: gli uomini si sono sentiti autorizzati a promettere a Dio, sotto forma di voti, a sproposito e senza riflettere, tutto ciò che veniva loro in mente o sulle labbra. Di qui ha preso origine la follia dei voti con cui i pagani si son beffati dei loro dèi, non solo follia ma assurdità mostruosa. Piacesse a Dio che questa licenza non fosse stata imitata dai cristiani. Si sarebbe infatti dovuta evitare. Constatiamo invece che da lungo tempo nulla risulta più diffuso di questa presunzione e il popolo, abbandonata e disprezzata la legge di Dio, si è precipitato con folle bramosia dietro ai suoi sogni. Non intendo sopravvalutare questo errore e neppure esaminare dettagliatamente le enormità con cui si è recata offesa a Dio né gli errori che si sono commessi in questa materia; voglio solo accennare brevemente a questo problema perché risulti chiaro che affrontando il problema dei voti non solleviamo una questione oziosa.
2. Per giudicare rettamente quali voti siano da considerarsi leciti e quali siano invece perversi occorre tenere presente tre fatti: in primo luogo la persona a cui si fa il voto; in secondo chi siamo noi che lo pronunciamo; terzo, qual'è la nostra intenzione nel fare questo.
Il primo punto ci vuole rendere attenti al fatto che nei voti abbiamo a che fare con Dio; egli si compiace soltanto della nostra obbedienza e considera maledetta ogni forma di culto frutto della nostra mente (Cl. 2.23) , quand'anche abbia una apparenza piacevole di fronte agli uomini. Se ogni culto inventato da noi oltre i suoi comandamenti gli risulta abominevole è chiaro che nessuno gli risulterà gradito se non approvato dalla sua parola.
Non prendiamoci perciò la libertà di formulare a Dio dei voti riguardo a cose che non abbiano ricevuto da lui una qualche approvazione. L'affermazione di san Paolo: Tutto ciò che è compiuto senza fede è peccato (Ro 14.23) , Si riferisce a tutte le opere nostre, ma vale in modo specifico nel caso in cui Dio sia oggetto del pensiero dell'uomo. Soggetti a cadere e a peccare nelle cose minime del mondo, quando non abbiamo un atteggiamento di fede e non siamo illuminati dalla parola di Dio, quanto maggiore umiltà si richiede da noi trattandosi di prendere iniziative di tanta importanza! Nulla è infatti così impegnativo quanto il servire Dio.
Questa sia perciò la prima norma nella questione dei voti: non prendere la iniziativa di formularli se non avendo, in coscienza, la certezza di non agire in modo temerario. Il pericolo sarà evitato se seguiremo la guida stessa di Dio che ci illustra, nella sua parola, ciò che è opportuno o no di fare.
3. La seconda considerazione fatta sopra deve condurci a misurare le nostre forze, porre mente alla nostra vocazione e non disprezzare la libertà dataci da Dio. Colui infatti che pronuncia dei voti riguardo a cose che non sono in suo potere, o risultano essere in contrasto con la sua vocazione, pecca di temerarietà e colui che disprezza la grazia di Dio che lo ha reso signore di ogni cosa si dimostra ingrato.
Questo non significa che possiamo disporre dei nostri voti ponendo la fiducia del loro adempimento in noi stessi; a ragione infatti fu decretato al concilio di Orange che non possiamo promettere a Dio nulla che non abbiamo ricevuto dalla sua mano visto che quanto gli possiamo offrire è già un dono che procede da lui. Essendoci però alcune cose che Dio, nella sua bontà, ha lasciata alla nostra possibilità mentre altre ci sono state negate, ognuno, seguendo l'esortazione di san Paolo, consideri la misura della grazia che gli è stata concessa (Ro 12.3; 1 Co. 12.2). Intendo dire che occorre commisurare i nostri voti al metro che Dio ci dà e che è rappresentato dal dono da lui fattoci, per cui non dobbiamo osare più di quanto egli ci permette, per tema di cadere volendo strafare.
Ad esempio quei vagabondi, di cui parla san Luca nel libro degli atti, fecero voto di non mangiare neppure un tozzo di pane fin quando non avessero ucciso san Paolo (At. 23.12); quand'anche la loro intenzione non fosse stata malvagia, come in realtà era, la loro temerarietà risulta intollerabile in quanto pretendevano sottomettere al loro volere la vita e la morte di un uomo. Analogo è il caso di Jefte che ricevette una mercede degna della sua follia quando si trovò costretto a sacrificare la figlia impegnata dal voto sconsiderato che aveva pronunciato in modo irresponsabile (Gd. 11.30).
Questa mancanza di responsabilità raggiunge però il suo culmine nel caso di tanta gente che fa voto di non sposarsi. Preti, frati, monache, dimenticando la propria debolezza, pensano poter far a meno del matrimonio per tutta l'esistenza. Da chi hanno avuto la rivelazione che saranno in grado di serbare, durante la vita intera, la castità a cui si impegnano? Conoscono la parola di Dio riguardo alla condizione normale degli uomini: non è bene che l'uomo sia solo (Ge 2.18). Sentono (piacesse a Dio che non le sentissero ) quanto sono aggressive nella loro carne le forze dell'incontinenza. In nome di che decisione temeraria osano rifiutare, per la durata dell'intera esistenza, questa vocazione generale, visto che, il più delle volte, il dono della continenza è dato in particolari condizioni e secondo particolari necessità? Ostinandosi in questo modo non possono pretendere che Dio li soccorra; si ricordino piuttosto di ciò che è scritto: "Non tentare il Signore il tuo Dio " (De 6.10, e, in realtà, si tratta di un tentare Dio, questo volersi accanire contro la natura che egli stesso ci ha dato e disprezzare gli strumenti che egli ci offre, quasi non avessero per noi alcun interesse. È quanto fanno costoro, non solo ma osano definire sozzura il matrimonio, una condizione che Dio non ha considerata indegna della sua maestà, ed ha dichiarata essere degna di onore fra tutte (Eb. 13.4) , e che Gesù Cristo ha santificata con la sua presenza ed ha onorato del suo primo miracolo (Gv. 2.2-9).
Questo rifiuto del matrimonio ha unicamente lo scopo di esaltare la condizione in cui si trovano, quasi non risultasse chiaramente dalla loro esistenza che l'astenersi dal matrimonio e la verginità sono due cose assai diverse. Non di meno spingono la loro arroganza al punto da definire angelica la loro condizione di vita, recando, con questa espressione, somma ingiuria agli angeli di Dio a cui osano paragonare gente adultera, immorale, o peggio. In realtà non occorrono grandi argomentazioni visto che la verità stessa li smentisce. Vediamo infatti chiaramente con quali terribili castighi nostro Signore punisca questa loro arroganza e questo disprezzo dei suoi doni; per conto mio ho vergogna di svelare queste cose nascoste, perché il poco che se ne conosce è già sufficiente ad avvelenare l'atmosfera.
È naturalmente chiaro che non dobbiamo formulare voti che costituiscano, in qualche modo, un impedimento a servire Dio nella nostra vocazione. Un padre di famiglia che abbandonasse moglie e figli per assumere qualche altro incarico si troverebbe in questa situazione. Abbiamo affermato che la nostra libertà non è da disprezzarsi, questo però può dar luogo ad equivoci qualora non sia chiarito. Il senso di questa espressione è il seguente: avendoci Dio costituiti signori di ogni cosa e sottomesse a noi in modo tale che ne usiamo secondo il comodo nostro, non dobbiamo pensare di far cosa grata a Dio sottomettendoci in spirito di servitù alle realtà esteriori che ci debbono invece essere di ausilio. Dico questo perché molti considerano prova di umiltà l'assoggettarsi a molte pratiche da cui il Signore, non senza ragione, ci ha voluto liberi. Volendo evitare questo pericolo dovremo aver cura di non allontanarci da quell'ordine che il Signore ha istituito nella Chiesa cristiana.
4. Veniamo ora al terzo elemento summenzionato: prima di far voti a Dio è necessario esaminare attentamente con quale intenzione li formuliamo. Poiché Dio pone attenzione al cuore e non all'apparenza, sicché può verificarsi il caso che una stessa cosa gli risulti gradita in una circostanza o assai spiacevole in un'altra, secondo la diversità dell'intenzione. Se uno fa voto di astenersi dal vino, vedendo in questo un elemento di santità, sarà giustamente tacciato di superstizione. Se prende questa decisione sulla base di altre considerazioni che non siano da condannare nessuno lo potrà biasimare.
Per quanto io possa giudicare quattro sono gli scopi cui i nostri voti debbono tendere: per chiarezza diciamo che due concernono il passato e due concernono l'avvenire.
Concernono il passato i voti che facciamo allo scopo di dimostrare a Dio la nostra riconoscenza per i benefici ricevuti da lui, o per punire gli errori commessi in vista di ottenere il perdono. Possiamo definire i primi, "voti di ringraziamento ", i secondi "voti di penitenza ".
Esempio del primo tipo è il voto di Giacobbe che promette a Dio le decime di quanto avrebbe acquisito in Oriente, se gli fosse stata concessa la grazia di ritornare nel paese natio (Ge 28.20-22). Altro esempio comune è rappresentato dai sacrifici, detti di pace, che i santi re e governatori promettevano di fare a Dio prima di iniziare una guerra, in caso che fosse stata loro concessa la vittoria sui nemici; ovvero quelli che il popolo prometteva a Dio trovandosi in afflizione, nel caso fosse stato liberato. In questo senso debbono essere intesi i testi dei Sl. Che fanno menzioni di voti (Sl. 22.26; 56.13; 116.14-18).
Ci è lecito formulare oggi i voti di questo tipo ogni qual volta Dio ci libera da una calamità, da una grave malattia, da un pericolo. Non contrasta infatti con un atteggiamento autenticamente credente l'offrire a Dio, in tali circostanze, un'offerta che gli sia stata promessa, come attestato di riconoscenza per i benefici ricevuti, dimostrando così la propria gratitudine.
La seconda categoria è illustrata da un esempio familiare. Prendiamo il caso di una persona che abbia commesso qualche peccato a causa della sua intemperanza o della sua golosità; non subirà alcun danno se rinuncerà per qualche tempo ai piaceri in vista di porre rimedio a questo vizio cui si sente incline. Non c'è nessun inconveniente a che decida di vincolare la sua decisione con un voto onde impegnarsi in modo più rigoroso. Non mi sentirei tuttavia di imporre come normativo a tutti coloro che, in qualche modo, hanno errato, di fare un simile voto; chiarisco solo ciò che uno può considerare lecito di fare qualora pensi che questo gli può essere di giovamento. Considero perciò un voto di questo tipo santo e legittimo senza limitare minimamente la libertà di ognuno, che è libero di fare come gli pare.
5. I voti formulati per il futuro hanno lo scopo, come ho detto, di renderci da un lato più guardinghi per evitare i pericoli, dall'altro di incitarci a compiere il nostro dovere.
Ecco un esempio: uno sa di essere fortemente incline ad un vizio sì da non potersi mantenere temperatamente in cose che di per se possono essere buone, non farà male affatto rinunciando con un voto ad usarne per un certo tempo; o ancora se uno dovesse sentirsi incapace di vestirsi o acconciarsi senza vanità o vanagloria e nondimeno ne provasse fortissimo desiderio, non potrebbe fare cosa migliore che imporsi un limite considerando suo dovere l'astenersene in vista di mettere fine a questo suo desiderio. Analogamente uno si sente dimentico o svogliato nell'adempiere il suo compito di credente, perché non dovrebbe porre rimedio alla sua negligenza impegnandosi con un voto a fare ciò che è solito dimenticare? In questi casi siamo in presenza di una sorta di pedagogia, lo riconosco, ma possiamo affermare che si tratta di aiuti cui possono liberamente ricorrere, in vista di porre rimedio alla loro infermità, le persone semplici e deboli.
Consideriamo perciò legittimo ogni voto che sia formulato in vista di uno di questi fini, particolarmente quelli che concernono realtà concrete, purché siano garantiti dall'approvazione divina, giovino alla nostra vocazione, siano commisurati alla grazia fattaci da Dio.
6. Non risulta difficile dedurre a questo punto ciò che si deve pensare in generale dei voti. Tutti i credenti hanno in comune un voto pronunciato che è stato per loro al battesimo, e che confermano nella professione della fede e nel ricevere la Cena.
I Sacramenti possono infatti considerarsi dei contratti con cui Dio ci promette la sua misericordia e di conseguenza la vita eterna e ci impegniamo per parte nostra all'obbedienza. La sostanza e il compendio di quel voto pronunciato al battesimo è la rinuncia a Satana in vista di consacrarci al servizio di Dio per obbedire ai suoi santi comandamenti non assecondando i desideri perversi della nostra carne. Non v'è dubbio che questo voto risulti utile visto che non solo Dio l'approva nella Scrittura, ma lo richiede a tutti i suoi figli; né, d'altra parte, risulta contraddetto dalla constatazione che, nella sua vita presente, nessuno raggiunge per parte sua quella perfezione di obbedienza che Dio richiede da noi. Il contratto che Dio stipula con noi, ed in cui richiede il nostro servizio, è infatti incluso nel patto di grazia che contiene la remissione dei peccati e la rigenerazione, in vista di fare di noi delle nuove creature; la promessa da noi formulata presuppone perciò la richiesta a Dio del perdono delle colpe, e il suo intervento a favore della nostra debolezza mediante lo Spirito Santo.
Riguardo ai voti specifici si tengano presenti le norme che abbiamo menzionate più sopra e non sarà difficile discernere quali debbano essere; non si pensi tuttavia che per parte nostra teniamo in tanta considerazione i voti, anche quelli che abbiamo riconosciuti validi, da incoraggiarne un uso quotidiano. Quantunque, infatti, non mi senta in grado di dare nessuna indicazione riguardo al numero e alle circostanze, chiunque voglia seguire il mio consiglio pronuncerà voti con estrema sobrietà. Ad essere infatti superficiali nel fare voti, nel farli frequentemente e in numero abbondante, si finisce Cl. Non osservarli seriamente e si corre il rischio di finire nella superstizione. Chi si impegna in un voto perpetuo non sarà in grado di mantenerlo se non con estrema difficoltà e grandissimo impegno oppure, stancandosi alla lunga, finirà con l'abbandonare ogni cosa.
7. Anzi sappiamo quanta superstizione abbia regnato, da tempo, nel mondo a questo riguardo. Chi faceva voto di non bere vino, come se astinenze di questo genere fossero di per se gradite a Dio; chi si impegnava ad osservare il digiuno e chi ad astenersi dalla carne in certi giorni, giudicandoli, erroneamente, più santi degli altri. Si dava il caso di voti ancora più infantili, eppure non erano bambini a pronunciarli; si è infatti considerato segno di alta spiritualità il far voto di recarsi in pellegrinaggio qua e là, il fare lunghe marce a piedi, l'andare seminudi in vista di acquistare maggior meriti con i disagi corporali.
Se paragoniamo tutte queste pratiche, in cui la gente si è impegnata in un modo che lascia sbalorditi, con le norme stabilite più sopra, dobbiamo constatare che non solo risultano vane e assurde, ma sono altresì indice manifesto di empietà. Qualsivoglia giudizio la sensibilità umana possa dare di un atto, al giudizio di Dio nulla risulta più abominevole che il voler creare, per lui, forme di pietà a nostro piacimento.
Pessime e deplorevoli opinioni sono inoltre diffuse nella maggioranza della gente. Gli ipocriti infatti essendosi impegnati in queste sciocchezze, danno a credere di essersi procurata una somma giustizia pensando che la sostanza della fede cristiana si debba ricercare in queste esteriorità e disprezzando tutti coloro che, secondo loro, non le tengono in dovuta considerazione.
8. Non è il caso di esaminare dettagliatamente tutti i tipi di voto; dato però che quelli tenuti in più alta considerazione sono i voti monastici, in quanto sembrano avere la considerazione generale della Chiesa, farò un breve cenno a questi. Ad evitare, anzitutto, che qualcuno pensi che il monachesimo, nella sua forma attuale, possa giustificarsi sulla base della antichità e della lunga tradizione, si deve notare che anticamente il tenore di vita nei monasteri era assai diverso da quello attuale. Vi si ritiravano coloro che avevano l'intenzione di praticare una vita di austerità. Come gli Spartani, che a quanto dicono le testimonianze storiche, si imponevano nella loro vita, una severa e rigida disciplina, così vivevano i monaci in quei tempi; anzi in una forma ancora più dura. Dormivano senza letto e senza giaciglio, in terra, bevevano soltanto acqua, si cibavano di pane secco, di erbe e di radici; le raffinatezze della loro mensa consistevano in un po' di olio, in una manciata di ceci e fave, non assaggiavano cibi delicati e si astenevano, per quanto possibile, da ogni comodità e da ogni agio corporale.
Queste cose risulterebbero oggi incredibili non possedessimo le testimonianze di coloro che le hanno constatate e sperimentate: uomini come Gregorio di Nazianzo, Basilio, san Crisostomo. Questi erano elementi di disciplina con cui ci si allenava in vista di una condizione più eccellente. Le scuole e le assemblee di monaci fungevano in quel tempo da vivaio per fornire buoni ministri alla Chiesa; lo dimostrano i tre personaggi summenzionati che furono appunto chiamati al vescovato dalla vita monastica, e molte altre illustri persone del tempo loro.
Sant'Agostino attesta che l'abitudine di prendere uomini dai monasteri per il servizio della Chiesa, vigeva ancora al tempo suo; egli si rivolge infatti ad un collegio di monaci in questi termini: "Vi esortiamo, fratelli, per nostro Signore, a mantenere il voto pronunziato e a perseverare sino alla fine, e qualora la Chiesa, vostra madre, dovesse avere bisogno di voi, non siate né tracotanti, bramando di ricevere la carica che vi imporrà, né pigri per rifiutarla; obbedite invece a Dio con spontaneità; non anteponete i vostri svaghi alle necessità della Chiesa che non sarebbe stata in grado di partorire voi se non fosse stata aiutata a partorire i suoi figli dai santi che sono stati prima di voi ". Egli si riferisce al ministero mediante cui i credenti rinascono spiritualmente.
Scrive anche ad Aureliano in un'altra epistola: "Quando vengono accolti nel clero quei monaci che nei loro monasteri si sono corrotti si dà agli altri occasione di fare altrettanto e si reca somma offesa alla condizione ecclesiastica perché fra quelli che nei monasteri perseverano nella vocazione siamo soliti prendere i migliori e quelli degni di maggior considerazione. Occorre agire in questo modo se non vogliamo diventare la favola del popolo e come c'è un proverbio che dice: da uno strimpellatore di fiera si fa un buon musicista, si giunga ad inventare il proverbio "con un cattivo monaco si fa un buon ministro". Pessima cosa è fornire ai monaci motivo di tanto inorgoglirsi e recare offesa al clero, visto che a volte anche un ottimo monaco è appena atto all'ordine ecclesiastico perché quand'anche abbia una condotta esemplare, non possiede la cultura richiesta da quell'ufficio ". Risulta da questi testi che molti uomini eccellenti consideravano la loro condizione monastica come una preparazione per giungere al governo della Chiesa in vista di essere più atti ad assolvere il loro compito, non già che tutti giungessero a questo fine o, vi aspirassero, visto che al contrario si trattava nella maggioranza dei casi di persone semplici e illetterate; perciò soltanto i più idonei venivano eletti.
9. Abbiamo in sant'Agostino, la descrizione quasi pittorica, del monachesimo antico principalmente in due testi: nel volume intitolato Dei costumi della Chiesa cattolica, in cui egli prende le difese dei monaci cristiani falsamente accusati e calunniati dai Manichei, e in un altro scritto intitolato Della vita monastica, in cui rimprovera e ammonisce i monaci che vivevano in condizioni corrotte. Esporrò ora la sostanza del suo pensiero contenuto in quei testi, anzi ricorrerò, per quanto mi sarà possibile, alle sue stesse espressioni.
"Disprezzando "dice "i piaceri e le delizie del mondo, conducono insieme una esistenza santa e casta, trascorrendo il tempo in orazioni, letture, discussioni; senza orgoglio né dispute né gelosie; nessuno possiede alcunché di suo e nessuno risulta essere a carico del prossimo. Lavorano consacrandosi ad un lavoro manuale, sufficiente a mantenerli, e tale da non impedire allo spirito loro di aprirsi a Dio. Consegnano il frutto della loro fatica nelle mani di coloro che chiamano decani e costoro, avendone ricavato frutto, fanno il resoconto a quello che fra loro è detto "padre ". I padri non sono solo persone sante riguardo ai costumi, ma anche eccellenti sotto il profilo dottrinale, nelle cose di Dio; distinguendosi per virtù e spiritualità, governano i loro figli senza orgoglio, avendo l'autorità necessaria a comandare, i loro figli si dimostrano pronti ad obbedire. Al vespro escono dalle celle, ancora digiuni, si raccolgono per udire il loro padre (egli aggiunge che in Egitto e nei paesi orientali ogni padre aveva la responsabilità di circa 3. 000 monaci ). Partecipano In seguito alla refezione nella misura richiesta dal loro stato di salute; ognuno sorveglia la sua concupiscenza per non far uso del cibo presentato se non sobriamente, anche se si tratta di cibi scarsi e poco raffinati. Per questo non soltanto evitano il vino e la carne, per vincere la loro concupiscenza carnale, ma anche altri cibi che, stuzzicando l'appetito, invogliano a ghiottonerie e a leccornie, tanto più che alcuni sono considerati più santi e puri; alcuni sono in questo ridicoli giudicando favorevolmente che ci si nutre di cibi squisiti a condizione che ci si astenga dalla carne. Il sovrappiù di nutrimento (abbondante sia a causa del loro lavoro diligente che della loro sobrietà ) viene distribuito ai poveri con maggior diligenza di quanto abbiano messo a guadagnarlo.
La loro preoccupazione non è infatti quella di avere in abbondanza ma di non serbare ciò che sopravvanza ".
Proseguendo, dopo aver fatto menzione dell'austerità di cui era stato testimone sia a Milano che altrove, aggiunge: "in questa vita rigorosa nessuno è costretto a portare un carico più pesante di quanto possa o voglia portare; il più debole non viene condannato dagli altri; tutti hanno coscienza di quanto sia necessaria la carità, sanno che ogni cibo è puro per coloro che sono puri (Tt 1.15). La loro attenzione perciò non è volta al rifiuto di questo o di quel cibo come contaminato, ma a vincere la propria concupiscenza e mantenersi in uno spirito buono. Tengono presente la parola: il ventre è per il cibo e il cibo per il ventre (1 Co. 6.13). Tuttavia parecchi di coloro che sono forti si impongono limiti per rispetto dei deboli, parecchi hanno una diversa motivazione in quanto amano nutrirsi di cibi grossolani e non raffinati, sanno astenersi perciò da un cibo quando sono in buona salute ma non si fanno scrupolo di cibarsene quando sono malati. Parecchi non bevono vino ma non si considererebbero contaminati qualora ne bevessero; essi stessi, infatti, sono i primi ad ordinare che se ne dia a coloro che sono di costituzione delicata e non potrebbero altrimenti godere di buona salute. Se qualcuno di questi rifiuta di bere lo ammoniscono fraternamente a non rendersi più debole che santo con una vana superstizione. Si applicano in tal modo, con cura, al timore di Dio. Riguardo all'esercizio corporale sanno che il giovamento non è che di breve durata. Particolarmente rispettata è la norma di carità; essa sola determina le parole, i cibi, i vestiti, gli atteggiamenti; ognuno si sforza di collaborare a questa carità e si ha timore di recargli offesa quanto a Dio stesso. Se qualcuno gli oppone resistenza lo si espelle, se qualcuno gli reca offesa, non lo si tollera neppure un giorno ".
Queste le parole di sant'Agostino, le ho citate a questo punto n quanto ci danno una chiara visione del monachesimo dei tempi antichi, avessi voluto raccogliere questi elementi da autori diversi sarei stato assai più lungo pur sforzandomi di riassumere.
10. Non ho l'intenzione di dibattere più a lungo questo argomento, voglio solo illustrare brevemente che tipo di persone siano stati i monaci nella Chiesa antica. E non solo questo, ma quale sia stato il carattere del monachesimo affinché i lettori possano valutare, stabilendo il paragone tra il monachesimo antico e quello odierno, quanto siano privi di pudore quelli che si appellano all'antichità per sostenere la condizione attuale.
Sant'Agostino, nel descrivere questo tipo santo e buono di monachesimo, esclude ogni forma di rigorismo nell'imporre o nell'esigere cose riguardo alle quali Dio ci ha data libertà nella sua parola. È invece proprio questo che si esige oggi con assoluto rigore. Delitto senza rimedio sono infatti la negligenza, sia pur minima, delle loro ordinanze in tema di vestiti, di alimenti, o di frivole cerimonie.
Sant'Agostino dichiara finalmente di non esser lecito a monaci di vivere oziosamente a spesa altrui e afferma non esservi stato, al tempo suo nessun monastero ben organizzato in cui i monaci non vivessero del loro lavoro. In quelli odierni l'elemento essenziale della santità è invece costituito dall'ozio. Se si eliminasse infatti l'ozio in che potrebbero far consistere la loro vita contemplativa che li fa superiori a tutti gli altri, anzi, secondo loro, li rende simili agli angeli?
Sant'Agostino concepisce infine il monachesimo come una forma di aiuto e un esercizio per mantenere gli uomini nel timore di Dio e nella fede autentica. Quando dice, anzi, che la carità costituisce la norma principale che è quasi l'unica da osservare, non conferisce alcun valore a quel tipo di congiura che fanno certuni, raccogliendosi insieme e separandoci dal corpo della Chiesa; egli vuole anzi che i monaci siano un esempio per tutti in vista di mantenere l'unità cristiana.
Le forme dell'attuale monachesimo sono così lontane da quella impostazione che, difficilmente, si potrebbe trovar cosa più contraria. I nostri monaci infatti, non soddisfatti di quella santità, cui Gesù Cristo vuole che i suoi servi applichino la mente, ne inventano una nuova, in base alla quale si considerano più perfetti di tutti gli altri.
11. Lo negano? Chiederò allora perché definiscono la loro condizione "stato di perfezione "negando questo termine a tutte le vocazioni stabilite da Dio. Conosco la loro sofistica risposta: questa definizione non indica che il monachesimo sia la perfezione in se, ma soltanto in quanto rappresenta la condizione più adatta all'acquisto di quella perfezione. Quando si tratta di crearsi un vanto umiliando il popolino o di attirare nelle loro reti i fanciulli ignari, mettono in evidenza i loro privilegi, magnificano la loro dignità, disprezzando gli altri e vantandosi del loro stato di perfezione. Quando però li si mette al muro, e non sono più in grado di giustificare questa arroganza, ricorrono al sotterfugio di affermare che non sono ancora giunti alla perfezione, ma sono entrati in questo stato per consacrare ad essa il loro pensiero sopra ogni cosa. Coltivano perciò nel popolino l'idea che la loro vita è angelica, perfetta, pura da ogni vizio e in quel modo tirano l'acqua al loro mulino e vendono cara la loro santità. Quella glossa invece è nascosta in pochi libri, quasi sepolta. Chi non si rende conto che in questo modo si fanno beffe di Dio e della gente?
Accettiamo tuttavia che attribuiscano al loro stato soltanto questo carattere di aspirazione alla perfezione. Nell'attribuirgli questo onore però lo distinguono pur sempre con un segno particolare, da tutte le altre forme di vita. Chi può permettere che questo onore venga conferito ad una condizione umana che Dio non ha mai approvato neppure con una parola e siano invece privati di questo onore ed escluse, come indegne, le sante vocazioni che non soltanto Dio ha ordinato, ma ha rivestite di titoli eccellenti? Vi prego considerate l'ingiuria che recano a Dio anteponendo uno stato creato dagli uomini e senza alcuna approvazione a tutte le condizioni che lui stesso ha stabilite e approvate con esplicita testimonianza.
12. È forse calunnioso affermare che essi si dimostrano insoddisfatti delle norme che Dio ha stabilito per i suoi? Lo smentiscano se possono. D'altronde non son io a dirlo ma loro stessi. Insegnano infatti esplicitamente che il carico che si impongono è più pesante di quanto sia stato quello imposto da Gesù Cristo ai suoi discepoli, impegnandosi ad osservare i consigli evangelici a cui i cristiani non sono comunemente vincolati.
Definiscono consigli le esortazioni di Gesù Cristo riguardo all'amore per i nemici, il non desiderare la vendetta, il non giurare eccetera, eccetera (Mt. 5.33). Che argomento di antichità possono far valere a questo riguardo? A nessuno degli antichi venne mai in mente questa idea; sono unanimi nel dichiarare che non c'è una sola parola di Gesù Cristo che non siamo tenuti ad osservare, anzi espressamente considerano queste espressioni altrettanti comandamenti.
Avendo già illustrato più sopra come debbasi considerare errore pestilenziale questo voler ridurre a semplici consigli le cose che ci sono chiaramente comandate, ci basta aver brevemente dimostrato, a questo punto, che il monachesimo, quale si incontra oggi, poggia su una valutazione delle cose che ogni credente deve, a diritto, considerare esecrabile: giudicando cioè che esista una norma di vita più perfetta da quella stabilita da Gesù Cristo a tutta la sua Chiesa. Quello che si edifica su queste premesse non può che essere considerato abominevole.
13. A sostegno della loro perfezione fanno uso di un altro argomento, che considerano definitivo: nostro Signore disse un giorno al giovane che lo interrogava circa la perfetta giustizia: "Va' e se vuoi essere perfetto vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri " (Mt. 19.21).
Non domandiamoci, per ora, se realmente essi facciano quanto sta scritto oppure no; accettiamolo come un dato di fatto. Si considerano dunque perfetti in quanto vendono i propri beni. Se la perfezione consiste unicamente in questo come si devono interpretare le affermazioni di san Paolo secondo cui chi ha distribuito tutti i suoi beni ai poveri non è nulla senza carità? (1 Co. 13.3). Che perfezione è mai quella che viene annullata con l'uomo quando la carità non è congiunta con essa? A questo punto devono ammettere, lo vogliano o no, che la rinuncia ai propri beni, quand'anche sia la principale opera di perfezione,
Non significa ancora tutto. Anche questo però viene smentito da san Paolo che dichiara la carità essere il vincolo della perfezione (Cl. 3.14) , senza far menzione di rinuncia dei propri beni. Se è vero che non esiste differenza tra il maestro e il discepolo, e san Paolo dichiara apertamente che la perfezione dell'uomo non risiede nella rinuncia a tutti i suoi beni, e che essa può esistere senza questa rinuncia, bisogna cercare di intendere il significato del detto di Gesù Cristo: "Va' e se vuoi essere perfetto vendi tutto quello che hai ".
L'interpretazione risulterà chiara se consideriamo a chi sono indirizzate queste parole; considerazione questa che si deve fare riguardo a tutti i detti di nostro Signore. Il giovane chiede che deve fare per entrare nella vita eterna. Gesù Cristo lo rimanda, giustamente, alla Legge, in quanto la domanda concerne il problema delle opere. La Legge, infatti, considerata in se stessa rappresenta il cammino della vita e il fatto che sia insufficiente a procurarci salvezza si deve attribuire alla perversità nostra. Gesù Cristo dichiara, con questa risposta, che non è venuto per insegnare un modo di vivere rettamente, diverso da quello dato anticamente da Dio in quella Legge. Così facendo rende testimonianza che la legge di Dio è indicazione perfetta della giustizia, e, nello stesso tempo, smentisce le calunnie con cui lo si accusava di indurre il popolo a ribellarsi all'obbedienza della Legge proponendogli una nuova legge. Il giovane, per altro non cattivo ma gonfio di orgoglio, risponde che ha osservato tutti i comandamenti sin dalla sua infanzia. Un fatto è certo: egli era ancora ben lontano dalla meta che si vantava aver raggiunto; se infatti la sua risposta fosse stata corrispondente a verità non gli sarebbe mancato nulla per raggiungere la perfezione assoluta. È stato dimostrato più sopra che la Legge contiene in se stessa una giustizia perfetta; e questo risulta anche da questo testo, in cui l'osservanza della legge stessa è definita ingresso nella vita eterna. Per dimostrare a quel giovane quanto poco gli giovasse quella sua giustizia, ch'egli si vantava con tanta leggerezza aver adempiuto, era necessario smascherare il vizio nascosto nel cuor suo; il suo animo infatti era vincolato alle sue ricchezze, dato che era ricco. Gesù Cristo perciò lo colpisce nel punto dove lo si doveva colpire, dato che per parte sua non si rendeva conto di questo vizio segreto, e gli impone di vendere tutti i suoi averi.
Se realmente fosse stato un uomo osservante della Legge, come pretendeva essere, non se ne sarebbe andato tutto triste dopo aver ricevuto questa risposta. Chi infatti ama Dio con tutto il cuore non solo considera sterco quanto contrasta con l'onore di lui, ma lo ripudia come dannoso. Quando perciò Gesù Cristo ordina a quel ricco avaro di vendere tutti i suoi beni è come se ordinasse ad un ambizioso di rinunciare agli onori, ad un uomo voluttuoso di rinunciare alle delizie, ad uno scapestrato di rinunciare a tutto ciò che lo può indurre a male agire. In questo modo si deve condurre la coscienza a percepire il proprio vizio particolare, quando non si possa raggiungere quello scopo con ammonizioni generali.
L'errore di questa gente che cita il testo suddetto per giustificare lo stato monastico consiste nel fatto che dà al caso particolare il valore di una dottrina generale; come se Gesù Cristo ponesse la perfezione nel fatto che un uomo rinuncia ai suoi beni; in realtà egli voleva soltanto costringere questo giovane, che sopravvalutava se stesso, a prendere coscienza del suo peccato, a comprendere cioè che era ancora lungi da quella perfetta osservanza della Legge che falsamente si attribuiva.
Riconosco che questo passo è stato male interpretato da alcuni Padri, al punto che si è ingenerata l'idea che la povertà volontaria dovesse considerarsi segno di grande virtù; considerandosi beati coloro che si scaricavano di ogni impegno terreno per darsi a Cristo . Spero che ogni lettore non polemico e non pignolo si dichiarerà soddisfatto dall'interpretazione che abbiamo fornito e si convincerà che questo è il significato autentico del testo.
14. Intenzione dei Padri non era però affatto l'enunciazione di un tipo di perfezione come quella che, in seguito, i monaci inventarono delle loro celle in vista di stabilire una seconda forma di Cristianesimo. Era infatti di là da venire quel parallelismo perverso, stabilito più tardi, tra il battesimo e i voti monastici e l'affermazione che il monachesimo è una sorta di secondo battesimo. Chi non sa che i santi Padri hanno avuto orrore di tali bestemmie?
Riguardo alla carità che, secondo sant'Agostino, reggeva l'intera vita dei monaci antichi, occorre forse mostrare che essa è assolutamente in contrasto con la professione dei monaci odierni? È evidente agli occhi di tutti che chi entra in un chiostro per farsi monaco si separa e si allontana dalla Chiesa. Costituiscono infatti comunità a parte e hanno amministrazione dei sacramenti separata dagli altri. Se questo non è distruggere la comunità della Chiesa mi chiedo che forma maggiore di distruzione Si potrebbe inventare.
Per attenerci al paragone sin qui fatto e per condurlo a termine, in che cosa, a questo riguardo, assomigliano ai monaci antichi? Anticamente, infatti, i monaci pur abitando lontano dagli altri non costituivano una Chiesa a parte ma ricevevano i sacramenti con tutti, nei giorni festivi, si raccoglievano insieme alla comunità dei credenti per udire il sermone e pregare e si comportavano quivi come una parte del popolo cristiano. I monaci del giorno d'oggi, erigendosi un altare per conto proprio, hanno rotto il vincolo dell'unità. Si sono autoscomunicati dal corpo della Chiesa, hanno disprezzato il ministero ordinario mediante cui Dio ha voluto che fossero mantenute fra i suoi pace e carità. Affermo perciò che i monasteri, oggi, nel mondo, sono altrettante conventicole di scismatici che hanno sovvertito l'ordine della Chiesa, spezzando la comunità legittima dei credenti.
Per rendere ancor più manifesta questa rottura hanno assunto nomi diversi, da setta, e non si sono vergognati di trarre vanto da ciò che Paolo aveva sopra ogni cosa esecrato; a meno di affermare che Gesù Cristo era diviso fra i Corinzi, in quanto ognuno si vantava del proprio dottore (1 Co. 1.12 ; 3.4) ma oggi non si deroga in nulla al suo onore benché gli uni si dicano Francescani, gli altri Domenicani, gli altri Benedettini, anzi si impadroniscano di questi titoli per fare una speciale confessione che li distingua dal resto della cristianità.
15. La diversità sin qui notata tra i monaci antichi e quelli moderni non concerne tanto i costumi quanto la professione di fede. I lettori avranno infatti notato che ho parlato più del monachesimo che dei monaci, i vizi denunciati si riferiscono non solo alla vita dei singoli, ma risultano indissolubilmente legati ad un modo di vita quale è oggi. Non è il caso di spendere molto tempo a dimostrare, nei dettagli, quanta diversità si riscontri nel campo dei costumi; ognuno infatti è in condizione di constatare che non esiste oggi al mondo condizione depravata in modo così integrale e dedita alla corruzione con tanto furore, una condizione ove si annidano tanti odi, intrighi, faziosità, ambizioni, con tutte le azioni che ne conseguono. : È vero che in alcuni conventi si vive castamente, se è lecito parlare di castità quando la concupiscenza è semplicemente repressa per non dare scandalo al popolo. Oso tuttavia affermare che difficilmente si troverà un convento su dieci che sia asilo di castità più che bordello. Riguardo al vivere come è possibile parlare di sobrietà? Non diversamente vengono ingrassati i maiali al truogolo. Per evitare che mi si accusi di trattare questa gente con eccessiva severità non proseguo il discorso; ognuno infatti può constatare che nelle poche cose che ho detto ho detto soltanto la verità.
Abbiamo citato la testimonianza di sant'Agostino riguardo ai monaci del tempo suo, da cui risulta che furono uomini di santità singolare. Eppure egli si duole del fatto che fra loro esistessero vagabondi ed impostori che succhiavano i beni della gente semplice con la loro astuzia; che vi fossero altresì trafficoni che si consacravano a commerci disonesti portando qua e là reliquie di martiri ovvero, come dice, spacciando per ossa di martiri ossa comuni; e altri tipi consimili che con le loro malefatte diffamavano la condizione monastica. In un altro testo egli afferma che se le migliori persone da lui incontrate sono quelle che hanno tratto profitto dalla vita monastica egli deve deplorare il fatto che le peggiori sono quelle che dalla vita monastica sono state corrotte . Che cosa dovrebbe dire oggi, vedendo i conventi pieni di vizi così enormi e così gravi che non si può più andar oltre senza morire. E quanto sto dicendo è noto a tutti.
Non penso però che questo si debba estendere indistintamente a tutti. Nessuna regola e nessuna norma è infatti mai stata così stabile, nei monasteri, al punto da impedire che qualche canaglia si unisse ai buoni; così si deve ammettere che fra i monaci odierni la santità degli antichi non è scaduta al punto che non sussista, nella schiera dei cattivi, qualche buon elemento; ma sono così pochi che si trovano sepolti nella sconfinata moltitudine dei malvagi. E non solo scompaiono, ma sono disprezzati, ingiuriati, molestati, anzi trattati crudelmente; è infatti uno dei principi che regna fra loro quello di non tollerare nella loro compagnia una persona dabbene.
16. Penso aver dimostrato con questo paragone tra il monachesimo antico e quello odierno, che questo riferimento alla Chiesa primitiva, da parte dei nostri cocollati, per giustificare e per difendere la loro condizione è errato visto che fra loro e i monaci sussiste una differenza non minore di quella che esiste fra gli uomini e le scimmie.
Non nascondo però che anche nella descrizione offertaci da sant'Agostino ci sia qualcosa che non mi convince. Che i monaci non abbiano valutato, con occhio superstizioso, la loro disciplina esteriore lo ammetto; in essa però si annidava un'affettazione assurda ed una assurda brama di gareggiare gli uni con gli altri, e questa la mia impressione.
Cosa bellissima abbandonare i propri beni per essere libero da ogni sollecitudine terrena, Dio però apprezza maggiormente la condizione di un uomo, che libero da ogni spirito di avarizia, ambizioni, concupiscenza carnale, abbia cura di governare rettamente e santamente la sua famiglia, ponendosi quale meta il servire Dio in una giusta vocazione e da lui approvata. Cosa piacevole, indubbiamente, il ritirarsi dalla società per filosofeggiare interiormente in un luogo segreto; che un uomo però, quasi per odio del genere umano, fugga nel deserto per starvi solitario, astenendosi da ciò che nostro Signore richiede essenzialmente da tutti i suoi e cioè l'aiuto reciproco, questo non è confacente alla fraternità cristiana. E quand'anche non sia derivato da questo modo di vivere altro danno che questo, è stato di per se sufficientemente grave introducendo nella Chiesa un esempio pericoloso e nocivo.
17. Vediamo ora quali siano i voti con cui i monaci del nostro tempo entrano negli ordini.
In primo luogo, in base a quanto è stato detto considero che tutti questi voti non sono, dinanzi a Dio, altro che abominazione in quanto costoro hanno l'intenzione di inventare, a loro piacimento, una nuova forma di vita per servire Dio volendo compiacergli e acquistare grazia.
In secondo luogo, trattandosi di una invenzione di un modo di vita che non tiene in considerazione la vocazione di Dio e non cerca la di lui approvazione affermo che si tratta di licenza temeraria e perciò illecita, in quanto la loro coscienza non ha su che fondarsi dinanzi a Dio, e tutto ciò che si compie senza fede è peccato (Ro 14.23).
In terzo luogo visto che consacrano se stessi a forme di vita perverse e malvagie, quali le idolatrie di cui tutti i conventi sono ricettacolo, affermo che così facendo non si consacrano a Dio bensì al Diavolo. Il profeta accusa gli Israeliti di aver immolato i loro figli ai diavoli e non a Dio, per aver corrotto il vero culto di Dio con cerimonie peccaminose (De 32.17; Sl. 106.37) , perché non dovrebbe essere lecito fare la stessa affermazione riguardo ai monaci che rivestono l'abito per immergersi in mille superstizioni?
Quale è però la sostanza di questi voti? Fanno a Dio promessa di serbare perpetua verginità, quasi avessero pattuito con lui l'esonero dalla necessità di sposarsi. Non devono replicare che pronunciano quel voto solo confidando nella grazia di Dio; egli stesso, infatti, afferma che questo non è dato a tutti (Mt. 19.2); non sta a noi perciò fare ipotesi su quel dono. Ne facciano uso quelli che lo hanno. E quando si sentono molestati dai pungoli della carne ricorrano all'aiuto di colui che può assisterli per resistere. Se così facendo non ottengono nulla, non respingano il rimedio che viene loro offerto; tutti coloro infatti a cui la continenza è negata sono evidentemente chiamati da Dio allo stato matrimoniale. E definisco continenza non solo mantenere il corpo puro e netto dall'impudicizia ma il custodire l'anima in stato di incorrotta castità. San Paolo non proibisce solo l'impudicizia esteriore ma altresì l'ardore interiore della carne (1 Co. 7.9).
La prassi di impegnarsi con un voto alla continenza, affermano, è stata seguita da sempre, da coloro che volevano consacrarsi a Dio in modo totale.
Certo si tratta di una prassi antica, non penso però che l'atteggiamento degli antichi stessi sia stato a tal punto immune da vizio da doversi accogliere quale norma e metro di vita.
Anzi questo eccessivo rigorismo che impedisce a chi abbia fatto un voto di mutare atteggiamento si è fatto strada solo a poco a poco, Cl. Passare del tempo, come risulta dalle parole di san Cipriano quando si esprime in questi termini: "Le vergini si sono date liberamente a Cristo? Perseverino in castità, senza finzione, mantenendosi così forti e costanti da ricevere il premio della loro verginità. Non vogliono o non si sentono in grado di perseverare? Meglio per loro sposarsi anziché essere precipitate nel fuoco dalla loro concupiscenza ". Se oggi uno volesse così porre limiti al voto di verginità che insulti gli toccherebbe sentire! Non sarebbe forse fatto a pezzi? È dunque evidente che siamo molto lontani dal tempo antico visto che non solo il Papa e la sua banda non ammettono eccezione o concessione alcuna, qualora uno si trovi nell'impossibilità di mantenere i suoi voti, ma non si vergognano di affermare che se uno si sposa, per porre rimedio alla intemperanza della carne, pecca più gravemente che se insozzasse il suo corpo e l'anima sua con impudicizia.
18. Hanno però un altro argomento con cui cercano di dimostrare che questo tipo di voto fu già in uso nell'età apostolica. San Paolo infatti afferma che quando una vedova, accolta in un ministero pubblico della Chiesa, si sposi, spezza la sua fede primitiva o la sua promessa (1 Ti. 5.2).
Che le vedove assunte per compiere un servizio nella Chiesa si sottoponessero anche all'obbligo di non contrarre matrimonio è noto; non già perché attribuissero a questa astensione un carattere di santità, come in seguito è accaduto, ma perché non sarebbero state in grado di assolvere il loro incarico se non godendo di assoluta libertà e non essendo vincolate dal matrimonio. Perciò, quando avessero fatto questa promessa alla Chiesa, e manifestassero l'intenzione di sposarsi, rinunciavano alla vocazione di Dio. Niente di strano dunque nell'affermazione dell'apostolo secondo cui, desiderando sposarsi, esse si ribellano a Cristo. Ampliando il discorso egli aggiunge che non solo non mantenevano la promessa fatta alla Chiesa, ma violavano la prima promessa fatta al battesimo. In questa parola dell'apostolo c'è il pensiero che ognuno deve servire Dio nella condizione a cui è stato chiamato; a meno che si preferisca interpretare le sue parole nel senso che quelle vedove, avendo perso ogni senso di vergogna non si curavano più del loro pudore e si abbandonavano ad ogni dissolutezza al punto da non assomigliare più in nulla a donne cristiane; questa ultima esegesi mi pare pienamente soddisfacente.
Ai nostri avversari risponderemo perciò che le vedove accolte n quel tempo al servizio della Chiesa si impegnavano a non sposarsi; sposandosi si trovavano nella condizione definita da san Paolo: smarrito cioè ogni senso di pudore si abbandonavano ad una licenza non confacente a donna cristiana, in tal modo esse commettevano peccato non solo in quanto rinunciavano alla promessa fatta alla Chiesa, ma in quanto abbandonavano l'atteggiamento di una donna cristiana.
Contesto però anzitutto che nel formulare questo voto, di vivere in continenza, vi fosse da parte delle vedove altra motivazione che quella di una incompatibilità tra il matrimonio e l'ufficio a cui si presentavano. Nego anzi che in questo gesto vi fosse altra preoccupazione che quella di assolvere un incarico della loro condizione.
In secondo luogo contesto che quel voto avesse un carattere tale che fosse preferibile ardere di desiderio e cadere in atti immorali piuttosto che sposarsi.
In terzo luogo osservo che san Paolo, vietando di accogliere vedove che non abbiano sessant'anni, fissa un'età in cui, comunemente, ci si può considerare fuori del pericolo di incontinenza; egli specifica, anzi, che non si debbono accettare quelle che abbiano contratto più di un matrimonio dando così prova della loro continenza.
Rifiutiamo dunque il voto di celibato unicamente per queste due motivazioni: lo si considera erroneamente servizio gradito a Dio, e inoltre è formulato temerariamente da gente che non ha la capacità di assolverlo.
19. Mi domando, anzi, che relazione esista fra questo testo di san Paolo e i frati. Le vedove infatti venivano elette al servizio della Chiesa non per rallegrare Dio con canti e boffonchiamenti, oziando tutto il tempo, ma per il servizio dei poveri effettuato nel nome della Chiesa tutta e per impegnarsi a fondo nelle opere della carità. La volontà del vivere fuori dello stato matrimoniale non nasceva dall'idea che l'astenersi dal matrimonio facesse piacere a Dio ma semplicemente in vista di essere più libere nell'assolvere il proprio compito. Non pronunciavano infine questo voto nella prima gioventù o nel fiore degli anni per sperimentare in seguito, quando ormai era troppo tardi, che si erano cacciate in una situazione impossibile, ma questo voto era pronunciato quando, verosimilmente, si trovavano già fuori del pericolo dell'incontinenza.
Del resto, anche a non volersi soffermare su tutti gli altri punti, questo solo basta: il fatto che non fosse lecito accogliere al voto di castità una donna di età inferiore ai sessant'anni, in quanto l'Apostolo l'aveva proibito ordinando ai più giovani di sposarsi. Non si giustifica, perciò, in nessun modo il fatto che, in seguito, il termine per la formulazione di questo voto si sia spostato a 48 anni, poi a 40 e infine a 30. Ancor meno tollerabile è la prassi di indurre con l'inganno e subdole manovre povere ragazze prima che abbiano avuto modo di conoscere e di sperimentare le proprie forze, a mettersi al collo questo sciagurato legame; quando non le si costringe con la forza!
Non starò a trattare dettagliatamente gli altri due voti pronunciati da frati e monache cioè i voti di povertà e di obbedienza. Dirò solo questo: oltre al fatto che sono oggetto di infinite superstizioni, a come stanno oggi le cose, mi sembrano fatti per prendere in giro Dio e gli uomini. Non voglio essere tacciato di rigorista fanatico esaminando con cura, nei dettagli, tutte le questioni, mi accontenterò perciò della confutazione generale fatta più sopra.
20. Penso avere sufficientemente illustrato quali siano i voti legittimi e graditi a Dio; si incontrano però a volte coscienze tormentate le quali, pur pentite di aver formulato un voto ed essendo conscie del fatto che esso deve ritenersi annullato, permangono non di meno nel dubbio che in fondo siano tenute ad osservarlo e questo crea per loro un grave problema in quanto, da un lato temono di venir meno ad una promessa fatta a Dio e dall'altro temono di peccare in modo più grave ancora mantenendo questo voto; è necessario dunque, a questo punto, venir loro in aiuto per liberarle da queste incertezze.
Per troncare in breve ogni scrupolo affermo che ogni voto illecito e formulato contro il diritto e la ragione, essendo privo di valore davanti a Dio, si deve considerare come non fatto. Se infatti nei contratti umani si considera vincolante unicamente ciò che è considerato tale da parte di colui con cui si fa il contratto, è assurdo e irragionevole pretendere che siamo impegnati ad osservare ciò che Dio non ci chiede; anzi poiché le nostre opere si devono considerare buone soltanto nella misura in cui piacciono a Dio, e ricevono dalla coscienza dell'uomo la testimonianza che Dio le accetta, si deve considerare valida la parola: tutto ciò che si compie senza fede è peccato (Ro 14.23).
Con questo san Paolo intende affermare che ogni iniziativa presa con dubbia coscienza è viziata in quanto la fede soltanto costituisce la radice di ogni buona opera: la fede, dice, mediante la quale siamo certi che esse sono gradite a Dio. Non essendo lecito al credente intraprendere nulla se non con questa certezza, si potrà impedire che uno rinunci al voto fatto per ignoranza quando abbia preso coscienza del suo errore? Infatti i voti pronunciati sconsideratamente, lungi dal costituire vincoli assoluti devono essere annullati; c'è anzi di più: non solo Dio non ne fa caso alcuno, ma, come è stato più sopra dimostrato, essi gli risultano odiosi. È inutile dunque trattare più ampiamente questo problema.
Sufficiente a tranquillizzare ogni coscienza credente, liberandola da ogni scrupolo, mi pare essere il seguente argomento: tutte le opere che non procedono da fonte pura e non hanno un fine valido sono condannate da Dio e con una condanna che concerne sia il voler perseverare in esse, quanto il volerne iniziare. La conclusione risulta dunque essere questa, tutti i voti che risultano esser frutto di errore o di superstizione sono privi di valore dinanzi a Dio e debbono essere abbandonati.
21. Questa affermazione permette altresì di dare una risposta valida ai malvagi che calunniano coloro che hanno abbandonato il monachesimo scegliendo di vivere in una onesta condizione di vita. Muovono loro il rimprovero di avere rinnegato le promesse fatte ed essere spergiuri avendo, come dicono, infranto il vincolo indissolubile che li impegnava nei riguardi di Dio e della sua Chiesa.
Nego per conto mio l'esistenza di qualsiasi legame quando Dio abbia sciolto o annullato quello che l'uomo aveva stabilito.
In secondo luogo, pur ammettendo che tali vincoli siano esistiti durante il tempo dell'errore e dell'ignoranza di Dio, affermo che essi sono stati per grazia di Dio liberati da questi vincoli quando Dio li ha illuminati e ha fatto loro conoscere la sua verità. Se infatti la morte del nostro Signore Gesù ha avuto il potere di liberarci dalla maledizione della legge di Dio, in cui eravamo vincolati, non avrà essa tanto più forza per liberarci e scioglierci da vincoli umani che altro non sono se non legami di cui Satana si serve per trarci in inganno? Non c'è dubbio, pertanto, che chiunque abbia ricevuto la grazia di Dio sia sciolto da tutti quei legami in cui la superstizione lo imprigionava. Coloro che sono stati frati hanno ancora un altro argomento riguardo il matrimonio (qualora non abbiano avuto la forza di contenersi ) e altrettanto dicasi dei monaci. Se infatti un voto impossibile diventa una rovina e una perdizione per le anime che Dio intende salvare, non perdere, lo si deve abbandonare. Che il voto di continenza risulti impossibile da osservarsi, da parte di coloro che non hanno ricevuto la grazia speciale da Dio, lo abbiamo dimostrato più sopra e l'esperienza lo dimostra, quand'anche non lo dicessimo noi. Le sozzure che riempiono i conventi sono note a tutti, e quei pochi nei quali sembra esserci un po' più di moralità non sono per questo più casti, ma sono tali semplicemente perché l'impudicizia è nascosta. In questo modo Dio compie la sua vendetta mediante orribili punizioni quando gli uomini nella loro audacia, misconoscendo la propria infermità, pretendono giungere, contro natura, a ciò che è loro negato e pensano, disprezzando i rimedi che Dio ci ha dati, poter sormontare il vizio dell'incontinenza con la propria ostinazione e la propria testardaggine. Come si deve infatti definire questo atteggiamento se non ostinazione? Dio fa capire ad uno che abbisogna del matrimonio e glielo offre come rimedio, e quello non solo lo disprezza ma si impegna con giuramento a rifiutarlo!