CAPITOLO 17
LA CENA DI GESÙ CRISTO ED I FRUTTI DA ESSA RECATI
1. Quando Dio ci ha accolti nella sua famiglia, e non solo in qualità di servi, ma di figli, egli adempie quanto compete ad un buon padre, che prende cura della sua figliolanza, assumendo contemporaneamente la responsabilità di curarci e di nutrirci per tutta la durata della nostra vita. Non accontentandosi di ciò, ci ha dato un pegno per meglio manifestare questa liberalità che dura senza fine. Ha dato perciò alla sua Chiesa, per mano del figlio suo, il secondo sacramento, cioè la Cena spirituale in cui Gesù Cristo ci attesta che è il pane vivificante di cui le anime nostre devono essere nutrite e saziate in vista della immortalità. Dato che la conoscenza di questo grande mistero è fondamentale e richiede, a causa della sua profondità, particolare attenzione, e Satana, dal canto suo, in vista di sottrarre alla Chiesa questo inestimabile tesoro, lo ha già da lungo tempo oscurato, dapprima con nebbia ed oscurità e poi con tenebre fitte, suscitando inoltre dibattiti e polemiche al riguardo per creare negli uomini avversione a questo sacramento, e si è servito nel nostro tempo degli stessi artifici e degli stessi inganni, mi sforzerò in primo luogo di esprimere in modo intelligibile anche ai profani ed ai semplici, quanto è necessario conoscere riguardo a questi temi ed esporrò, in seguito, i problemi con cui Satana ha cercato di ottenebrare il mondo.
In primo luogo i segni sono costituiti dal pane e dal vino che rappresentano per noi il nutrimento spirituale che riceviamo dal corpo e dal sangue di Gesù Cristo. Come Dio rigenerandoci nel battesimo ci incorpora nella sua Chiesa e ci adotta quali figli suoi, così, come abbiamo già detto, compie il suo ufficio di buon padre di famiglia, e padre previdente, nel darci costantemente il cibo necessario per mantenerci in quella vita a cui ci ha generati mediante la sua parola. Il solo nutrimento dell'anima è Gesù Cristo. Perciò il padre celeste ci chiama a se acciocché saziati della sua sostanza riceviamo di giorno in giorno nuovo vigore fino a giungere all'immortalità celeste. Il mistero della comunione con Gesù Cristo risulterebbe incomprensibile ai sensi naturali, ce ne presenta perciò una immagine e una figura in segni visibili adatti alla nostra debolezza. Dandocene la caparra, egli rende questa realtà altrettanto sicura per noi che se l'avessimo dinnanzi agli occhi; una similitudine così familiare infatti, parla agli spiriti più insensibili e semplici: come il pane e il vino nutrono i nostri corpi in questa vita provvisoria, così sono le anime nostre nutrite da Cristo.
Tale è dunque il fine di questo sacramento: garantirci che il corpo del Signore è stato offerto una volta in sacrificio per noi in modo che ora lo possiamo ricevere, e ricevendolo percepiamo in noi l'efficacia di questo dono unico, che ne è stato fatto. Ed anche che una volta è stato sparso per noi il suo sangue che ci è bevanda perpetua. Questo esprimono le parole della promessa quando è detto: "Prendete e mangiate questo è il mio corpo che è dato per voi " (Mt. 26.26; Mr. 14.22; Lu 22.19; 1 Co. 11.24). Ci è dunque ordinato di prendere e mangiare il corpo che è stato dato per la nostra salvezza, affinché, vedendo che ne siamo fatti partecipi, abbiamo certa fiducia che la potenza di questo dono si paleserà in noi. Perciò chiama il calice: patto del suo sangue. Essendo strumento per confermare la nostra fede, ogniqualvolta ci offre da bere il suo sangue rinnova in qualche modo, anzi mantiene, con noi il patto che ha ratificato in questo sangue.
2. Le nostre anime possono ricavare da questo sacramento grande consolazione e fiducia: riconoscendo che Gesù Cristo si è incorporato a noi e noi in lui al punto che possiamo dire che tutto ciò che gli appartiene è nostro e dire suo tutto ciò che è nostro. Osiamo perciò esprimere la certezza che nostra è la vita eterna e il regno dei cieli non può esserci tolto, più di quanto potrebbe essere tolto a Cristo stesso. E, d'altra parte, non possiamo essere dannati a causa dei nostri peccati, più di quanto potrebbe esserlo lui, poiché ci ha liberati da questi peccati assumendone l'imputazione quasi fossero suoi. Si tratta di un meraviglioso scambio, che, nella sua bontà infinita, ha voluto effettuare con noi: ricevendo la nostra povertà ha trasferito in noi le sue ricchezze, accogliendo su di se la nostra debolezza ci ha resi partecipi della sua forza, assumendo la nostra mortalità ha fatto nostra la sua immortalità, prendendo il carico della nostra iniquità, da cui eravamo oppressi, ci ha offerto la sua giustizia perché fossimo fondati in essa, venendo in terra ha aperto la via del cielo, facendosi figlio dell'uomo ci ha resi figli di Dio.
3. Tutte queste realtà ci sono promesse da Dio, in questo sacramento, con tale pienezza che dobbiamo essere certi della loro realtà come se Gesù Cristo stesso, in persona, ci stesse davanti agli occhi e fosse offerto al nostro tatto. Questa parola infatti non può venir meno o risultare falsa: "Prendete, mangiate, bevete, questo è il mio corpo che è dato per voi, questo è il mio sangue che è sparso per la remissione dei vostri peccati ".
Nel dare l'ordine di prendere egli ci attesta che è nostro, nell'ordinare che si mangi e beva ci dà la prova che diventa una medesima sostanza con noi. Quando dice: "Questo è il mio corpo dato per voi, questo è il mio sangue sparso per voi "dichiara e insegna che non sono tanto da considerarsi suoi quanto piuttosto nostri. Poiché li ha assunti e lasciati non per utilità sua, ma per amor nostro e nostro giovamento.
Occorre osservare, con attenzione, il fatto che la forza e la sostanza fondamentali del sacramento, in una forma quasi assoluta, sono rinchiusi in queste parole "che è dato, che è sparso, per voi "Ci gioverebbe altrimenti assai poco la distribuzione del corpo e del sangue di Gesù Cristo, se non fossero stati una volta offerti per la nostra remissione e la nostra salvezza. Per questo motivo ci sono rappresentati sotto forma di pane e di vino: per insegnarci e dimostrarci che non soltanto ci appartengono, ma ci sono vita e nutrimento. Abbiamo detto poc'anzi che mediante le realtà materiali che ci vengono presentate nei sacramenti dobbiamo essere condotti alle realtà spirituali per via di proporzioni e similitudini. Vedendo il pane che ci è presentato quale segno e sacramento del corpo di Cristo, dobbiamo immediatamente cogliere questa similitudine: come il pane nutre, alimenta, conserva la vita del nostro corpo, così il corpo di Gesù Cristo è cibo e nutrimento per la conservazione della nostra vita spirituale. E quando vediamo il vino essere offerto qual segno del suo sangue, bisogna pensare all'utilità e al giovamento del vino per il corpo umano, onde intendere ciò che il sangue di Gesù Cristo ci procura spiritualmente: esso cioè conferma, conforta, rallegra, dà forza. Se consideriamo infatti attentamente il giovamento recatoci dal fatto che il sacro corpo di Gesù Cristo ed il suo sangue, siano stati offerti e sparsi per noi, vediamo chiaramente che le caratteristiche attribuite al pane ed al vino si adattano loro perfettamente in base a questa similitudine e a questa analogia.
4. L'elemento fondamentale del sacramento non è dunque l'offrirci semplicemente il corpo di Cristo, ma piuttosto il garantire e confermare la promessa mediante cui Gesù Cristo ci annunzia che la sua carne è realmente nutrimento e il suo sangue bevanda dai quali siamo nutriti in vista della vita eterna, e attesta che è il pane della vita e che chiunque ne avrà mangiato vivrà eternamente. Per attuare questa garanzia, riguardo alla promessa suddetta, il sacramento ci rinvia alla croce di Cristo in cui tale promessa trova la sua garanzia e il suo pieno compimento. Non riceviamo infatti Gesù Cristo in forma salvifica se non in quanto è stato crocifisso, e avendo una chiara comprensione della potenza della sua morte.
Di fatto, nel definirsi pane della vita, Gesù non intendeva alludere al sacramento (come molti hanno erroneamente inteso ) ma al fatto che tale ci era stato dato dal Padre e si era dimostrato quando, facendosi partecipe della nostra umana mortalità, ci aveva resi partecipi della sua divina immortalità, offrendosi in sacrificio ha preso su di se la nostra maledizione per colmarci della sua benedizione, ha travolto e inghiottito la morte nella sua morte, ha risuscitato alla gloria e all'incorruttibilità, nella sua risurrezione, la nostra carne corruttibile che aveva rivestito.
5. Queste realtà devono però essere riferite a noi. Ciò si verifica quando il Signore Gesù si dà a noi con tutti i suoi benefici. In primo luogo questo accade mediante l'Evangelo, e in modo più chiaro nella Cena quando la riceviamo in un atteggiamento di fede autentica. Non è dunque il sacramento che ha il potere di far sì che Cristo sia per noi pane di vita, ma ricordandoci che tale ci è stato fatto una volta onde ne fossimo costantemente nutriti, ci fa percepire il sapore di quel pane affinché ne ricaviamo nutrimento. Ci attesta infatti che quanto Gesù Cristo ha fatto e sofferto ha lo scopo di vivificare la nostra vita; in secondo luogo ci attesta che questa vita è duratura. Gesù Cristo non potrebbe essere per noi pane di vita, se, un tempo, non fosse nato, morto, risuscitato per noi, analogamente l'efficacia di questi fatti ha da essere permanente affinché ne derivi frutto.
Questo concetto è molto bene espresso nelle parole dette in san Giovanni: "Il pane che io darò, è la mia carne, che darò per la vita del mondo " (Gv. 6.51); con queste parole voleva indubbiamente dire che il suo corpo sarebbe stato alimento per la vita spirituale dell'anima nostra in quanto egli lo avrebbe offerto alla morte per la salvezza nostra. Poiché lo ha dato una volta, quale pane, quando lo ha offerto alla crocifissione per la redenzione del mondo. Egli lo offre quotidianamente, quando mediante la parola del suo Evangelo, offre se stesso affinché siamo resi partecipi del fatto che è stato crocifisso per noi e di conseguenza sigilla una tale partecipazione con il mistero della Cena, in cui, anzi, attua lui stesso interiormente quanto significa esteriormente.
Due errori sono da evitare a questo punto: il primo è che depauperando eccessivamente il valore dei segni, non si finisca Cl. Scinderli dai misteri a cui sono in qualche modo vincolati e, conseguentemente, se ne riduca l'efficacia. L'altro è che esaltandoli oltre misura si giunga ad offuscare la verità interiore.
Nessuno può negare, a meno di essere del tutto privo di sensibilità religiosa, che Cristo sia il pane di vita da cui sono nutriti i credenti per la vita eterna; ciò che però non è chiaro a tutti sono le modalità di tale partecipazione. Vi sono infatti quelli per cui mangiare la carne di Cristo e bere il suo sangue significano, semplicemente, credere in lui. Sembra però che egli stesso abbia inteso esprimere una realtà più profonda in quel fondamentale discorso in cui ci esorta alla manducazione del suo corpo: che cioè siamo vivificati dalla reale partecipazione a quanto di se ci offre, partecipazione espressa con i termini: "bere e mangiare ", affinché non si potesse pensare che la vita, che riceviamo da lui, consista in una semplice conoscenza. Come ad offrire nutrimento al corpo, è l'atto di mangiare del pane e non semplicemente guardarlo, nello stesso modo occorre che l'anima sia realmente resa partecipe di Cristo per essere nutrita a vita eterna. Riconosciamo certo che tale manducazione si compie solamente nella fede perché non si può concepire in alcun altro modo. La differenza che ci separa da coloro che sostengono quella tesi, è però nel fatto che essi considerano che mangiare non è altro che credere. Affermo che credendo mangiamo la carne di Cristo e questa manducazione è frutto della fede; in altri termini essi dicono che la manducazione si identifica con la fede stessa, mentre preferisco dire che proviene da quella. Il contrasto terminologico è minimo ma diventa sostanziale nella realtà. Quantunque l'Apostolo, infatti, insegni che Gesù Cristo abita nei nostri cuori per fede (Ef. 3.17) , non di meno nessuno identifica questo abitare con la fede stessa. Tutti riconoscono invece che egli ha voluto esprimere, con questo, un singolare beneficio della fede in quanto essa fa sì che Cristo abiti nei credenti. Nel definirsi pane di vita, il Signore ha voluto non solo attestare che la nostra salvezza consiste in una fiducia nella sua morte e nella sua risurrezione, ma che in virtù della reale comunione che abbiamo con lui, la sua vita viene trasferita in noi e diventa nostra, così come il pane di cui ci cibiamo dà vigore al nostro corpo.
6. Sant'Agostino, che citano a sostegno della loro tesi, scrivendo che mangiamo il corpo di Cristo credendo in lui ha inteso dimostrare soltanto che tale manducazione viene dalla fede. È questo un fatto che non contesto, ma aggiunge che riceviamo Cristo non contemplandolo da lontano ma quando si unisce a noi per diventare nostro capo e fare di noi le sue membra. Pur non rifiutando categoricamente questo modo di esprimersi non penso ci dia una interpretazione esatta ed esauriente dell'espressione "mangiare il corpo di Cristo ". Sant'Agostino fa spesso uso di questa espressione; quando ad esempio dice nel libro terzo della dottrina cristiana: "In questa parola "se non mangiate della carne del figlio dell'uomo non avrete in voi la vita "siamo in presenza di una espressione figurata che cioè abbiamo a comunicare alla passione del Signore Gesù e avere questo pPensiero impresso nella nostra mente, che la sua carne è stata crocifissa per noi ". E ancora, quando afferma in molte omelie su san Giovanni che i tremila uomini convertiti dalla predicazione di san Pietro, credendo in Gesù Cristo, hanno bevuto il suo sangue quello stesso che avevano sparso perseguitandolo. In molti altri testi però esalta, fin dove gli è possibile questa comunione con Gesù Cristo mediante la fede, affermando che le anime nostre sono nutrite dalla sua carne altrettanto quanto i nostri corpi lo sono dal pane di cui ci cibiamo.
È quanto intende Crisostomo in alcuni testi, dicendo che Gesù Cristo ci fa essere suo corpo non solo per fede ma altresì nella realtà 8. Non intende dire che otteniamo un tale beneficio all'infuori della fede; ma vuole evitare che si pensi che abbiamo tale comunione solo per immaginazione.
Tralasciamo di parlare di coloro che vedono nella Cena soltanto un segno mediante cui manifestare la nostra professione di fede cristiana davanti agli uomini, poiché ritengo aver sufficientemente refutato tale errore, nel trattare i sacramenti in generale. Basterà per ora porre attenzione al fatto che il calice è detto patto nel sangue di Gesù Cristo (Lu 22.20); occorre dunque vi sia contenuta una promessa, che serva a confermare la fede. Non si fa uso adeguato della Cena se non guardando a Dio per ricevere conferma della sua bontà.
7. Insoddisfacente risulta altresì l'interpretazione di coloro che, pur avendo confessato che in qualche modo abbiamo comunione Cl. Corpo di Cristo, dovendo precis.re questa comunione, ci fanno partecipi del suo Spirito soltanto, tralasciando ogni menzione della carne e del sangue. Eppure queste parole non furono dette invano: che la sua carne è nutrimento, e il suo sangue bevanda, e nessuno avrà vita se non colui che avrà mangiato questa carne e bevuto questo sangue, e altre affermazioni analoghe. Essendo evidente che la comunicazione di cui è questione nella Cena, oltrepassa di molto ciò che essi ne dicono, prima di esaminare l'eccesso opposto, faremo brevemente cenno alla portata di questa comunione. Dovremo infatti impegnarci in seguito in una polemica molto più ampia con certi dottori, o sognatori di assurde fantasie, che dando un'interpretazione massiccia ed assurda dell'espressione "mangiare il corpo di Cristo, e bere il suo sangue "spogliano Gesù Cristo del suo corpo trasformandolo in fantasma. Ci sforzeremo di far questo nei limiti in cui risulta possibile illustrare, con parole, un mistero così grande che riconosco non poter comprendere nel mio spirito, e ne faccio esplicita ammissione, affinché nessuno ne valuti la grandezza in base alle mie parole così deboli e inadeguate alla realtà. Esorto anzi i lettori a non lasciare che il loro spirito si rinchiuda entro limiti e confini così ristretti, ma si sforzi di salire più in alto di quanto possa condurli io stesso. Ogniqualvolta affronto questa materia, dopo essermi sforzato di esaurire il tema, constato quanto io sia lontano dal raggiungere la perfezione. E quantunque l'intendimento abbia maggior capacità nel concepire e valutare di quanto ne abbia la lingua nell'esprimere, nondimeno risulta egli stesso trasceso e schiacciato da tanta grandezza. Non posso dunque far altro che lasciarmi afferrare da un sentimento di ammirazione dinanzi a questo mistero, che l'intendimento non è in grado di rettamente, concepire, né la lingua di esprimere. Esporrò nondimeno la sostanza del mio pensiero che sarà, spero, approvata da tutte le persone di cuore retto e tementi Iddio, non ho infatti il minimo dubbio che essa corrisponda a verità.
8. La Scrittura ci insegna anzitutto che Cristo è stato, sin dall'inizio, parola del Padre, vivificante, fonte e origine di vita da cui ogni cosa ha tratto forza e sussistenza. San Giovanni, pertanto, lo chiama a volte: parola di vita (1 Gv. 1.1) , altre volte dice che la vita è stata eternamente in lui (Gv. 1.4) , volendo dire che ha sempre largito la sua vita in ogni creatura per dare loro forza e vigore. Tuttavia egli stesso aggiunge poco dopo, che la vita è stata manifestata quando il figlio di Dio, presa la nostra carne, si è dato a vedere e a toccare. Quantunque infatti egli spandesse già precedentemente la sua forza sulle creature, essendo l'uomo separato da Dio a causa del peccato, ed avendo perduto la comunione della vita ed avvolto da ogni lato nella morte, era necessario che fosse nuovamente reintegrato nella comunione di quella parola per ritrovare una speranza di immortalità. Che motivo di sperare avremmo noi, se, udendo che la parola di Dio contiene in se la pienezza della vita, ci sentissimo però lontani da essa non vedendo in noi e attorno a noi altro che morte? Da quando però questa sorgente di vita ha preso a dimorare nella nostra carne non risulta più nascosta, lontano da noi, ma si offre e si dà in modo che se ne possa beneficiare. In questo modo Gesù Cristo ci ha recato i benefici della vita di cui era fonte.
Anzi, ha reso per noi vivificante la carne che ha preso e rivestita affinché, mediante la partecipazione ad essa, fossimo nutriti in vista dell'immortalità: "Io sono "dice "il pane della vita che è sceso dal cielo " (Gv. 6.48.58) e ancora: "Il pane che darò e la mia carne, che darò per la vita del mondo " (Gv. 6.51). Egli dimostra in queste parole non solo che è la vita in quanto è parola eterna di Dio scesa dal cielo a noi, ma altresì, per il fatto che, scendendo, ha sparso questa forza nella carne da lui assunta, affinché ne fossimo resi partecipi. Da questo deriva che la sua carne è realmente cibo e il suo sangue bevanda e l'uno e l'altro sono sostanze per nutrire i credenti in vita eterna. Da questo nasce pertanto una singolare consolazione: la vita si trova posta nella nostra stessa carne. In tal modo si può affermare che non solo giungiamo alla vita, ma essa stessa ci viene incontro per offrirsi a noi. Noi l'otteniamo alla sola condizione di offrirle posto nel nostro cuore.
9. Ora, quantunque la carne di Cristo non abbia in se stessa la forza di poterci vivificare, visto che nella sua condizione primitiva è stata sottoposta a mortalità ed essendo resa immortale trova la sua forza altrove, tuttavia a ragione è detta vivificante perché è stata ripiena di tale perfezione di vita da spargere su di noi quanto si richiede alla nostra salvezza. In questo senso deve intendersi ciò che dice Nostro Signore che come il Padre ha in se la vita ha pure ordinato che il Figlio avesse la vita in se (Gv. 5.26. In questo testo egli parla non delle proprietà che possedeva sin dalla eternità in virtù della sua divinità, ma di quelle che gli sono state date nella carnalità in cui ci è apparso. Egli dimostra perciò che la pienezza della vita abita anche nella sua umanità in modo tale che chiunque ha comunicazione con la sua carne e il suo sangue ottiene la partecipazione a quella vita. Questo fatto si può illustrare con un esempio familiare. Come da una fontana scorre l'acqua sufficiente per bere, irrigare i campi e molti altri usi, e non è la fontana ad avere in se tale abbondanza, ma la fonte da cui perennemente l'acqua affluisce per rifornirla si che mai non venga meno, analogamente, la carne di Cristo può paragonarsi ad una fontana in quanto riceve la vita che fluisce dalla divinità per farla penetrare in noi.
Chi non si rende conto ora che la comunicazione al corpo e al sangue di Cristo è necessaria a tutti coloro che aspirano giungere alla vita celeste? E questo scopo mirano le parole dell'apostolo: "La Chiesa è il corpo di Cristo e il suo compimento. Egli è il capo da cui tutto il corpo ben collegato cresce secondo l'aiuto fornito dalle sue giunture " (Ef. 1.22; 4.15-16) , e che i nostri corpi sono membra di lui (1 Co. 6.15). Queste affermazioni possono essere realizzate solo se egli si unisce a noi interamente, corpo e spirito. L'Apostolo però specifica in che consiste questa comunione, mediante la quale siamo uniti alla sua carne, dicendo che siamo membra del suo corpo, ossa delle sue ossa, carne della sua carne (Ef. 5.30). E infine, volendo affermare che questa realtà oltrepassa ogni formulazione, conclude il suo ragionamento esclamando con ammirazione trattarsi di un gran mistero. Somma follia sarebbe dunque il non riconoscere alcuna comunione alla carne e al sangue del Signore, mentre san Paolo la dichiara così profonda da preferire adorarla piuttosto che definirla con parole.
10. L'assunto del nostro problema è dunque questo: la carne e il sangue di Gesù Cristo saziano le nostre anime non meno di quanto il pane e il vino mantengano la vita dei nostri corpi. Non risulterebbe altrimenti valida la similitudine del segno, se le nostre anime non trovassero in Gesù Cristo di che nutrirsi. Questo non si potrebbe verificare se Gesù Cristo non si unisse realmente a noi, e non ci saziasse del cibo del suo corpo e del suo sangue . Ci sembra incredibile che la carne di Gesù Cristo, separata da noi, e da così grande distanza, possa giungere sino a noi per nutrirci? Consideriamo la potenza segreta dello Spirito Santo che sopravanza nella sua grandezza tutti i nostri sensi e di cui sarebbe follia voler ridurre la dimensione infinita alla nostra. Sia pertanto la fede a ricevere quanto il nostro intendimento non è in grado di concepire: che cioè lo Spirito unisce realmente cose separate dalla distanza. Gesù Cristo ci attesta e ci garantisce nella Cena questa partecipazione alla sua carne e al suo sangue mediante la quale fa scendere in noi la sua vita come se penetrasse nelle nostre ossa e nel nostro midollo. E non è segno vuoto, ingannevole quello che ci offre nella Cena, ma vi manifesta la potenza del suo Spirito per compiere le sue promesse. E in realtà egli lo offre e lo dona a tutti coloro che si avvicinano a questo banchetto spirituale, quantunque i credenti soli vi partecipino, in quanto mediante fede vera si rendono degni di godere di questo beneficio.
Per questa ragione l'Apostolo dice che il pane che rompiamo è la comunione al corpo di Cristo, e il calice che, mediante la parola dell'evangelo e la preghiera, consacriamo è la comunione del suo sangue (1 Co. 10.16). Non si deve obiettare, come fanno alcuni, che si tratta di una espressione figurata in cui il nome della cosa rappresentata è attribuita al segno. Quando affermano che evidentemente la frazione del pane non è la realtà spirituale, ma ne rappresenta solo il segno esteriore, possiamo accettare che le parole di Paolo si debbano intendere in questo modo, possiamo obiettare però che, essendoci offerto il segno, anche la sostanza ci è data in tutta la sua autenticità. A meno di considerare Dio bugiardo, infatti, nessuno oserà affermare che egli ci offra segni vani e privi di significato. Se perciò il Signore ci raffigura, nella frazione del pane, la reale partecipazione al suo corpo, non c'è dubbio che contemporaneamente egli ce lo dia. I credenti hanno da ritenere fermamente questo fatto: ogniqualvolta si trovano in presenza dei segni istituiti da Dio considerino come un dato certo il fatto che la verità della cosa rappresentata è congiunta al segno, e di questo abbiamo certa persuasione. Perché infatti nostro Signore darebbe in mano il segno del suo corpo se non fosse per renderci certi della partecipazione ad esso? Se è vero che il segno visibile ci è offerto per esserci garanzia del dono della realtà invisibile, occorre avere questa fiducia incrollabile: prendendo il segno del corpo prendiamo parimenti il corpo.
11. Affermo dunque, come è sempre stato accolto nella Chiesa ed è tuttora insegnato da coloro che predicano fedelmente, che vi sono nella santa Cena due realtà: i segni visibili che ci sono qui offerti a motivo della nostra infermità, e la verità spirituale, in questi segni figurata e parimenti offerta.
Volendo illustrare in modo chiaro questa verità, affermo che nel sacramento vi sono tre elementi da prendere in considerazione, oltre al segno esteriore di cui non è ora questione: anzitutto il suo significato, in secondo luogo la sostanza o la materia, in terzo luogo l'efficacia, la forza che procede da entrambi. Il significato è espresso dalle promesse che sono scritte nel segno; Gesù Cristo con la sua morte e risurrezione costituisce la materia o sostanza. Per efficacia intendo la redenzione, la giustizia, la santificazione, la vita eterna e tutti i benefici che Gesù Cristo ci reca.
Or, quantunque tutte queste cose si ricevano mediante la fede, non accetto il cavillo secondo cui dove è detto che riceviamo Gesù Cristo per fede, si intenda solo affermare che lo riceviamo mediante l'intelligenza e il pensiero. Le promesse ce lo offrono infatti, non semplicemente per farcelo contemplare illudendoci in una pura e semplice contemplazione, ma per farci godere realmente della sua comunione. In realtà non vedo come un uomo possa esser certo di avere la sua redenzione e giustizia nella croce di Gesù Cristo e la vita nella morte di lui, se non ha prima di tutto una reale comunione con lui. Mai giungerebbero a noi quei benefici se per prima cosa Gesù Cristo non si facesse nostro.
Affermo pertanto che nella Cena, sotto i segni del pane e del vino, ci ha offerto realmente Gesù Cristo, cioè il suo corpo e il suo sangue, nei quali ha adempiuto ogni giustizia per procurarci salvezza: e questo accade in primo luogo affinché siamo uniti in un corpo con lui; in secondo luogo affinché, resi partecipi della sua sostanza, percepiamo la sua potenza, avendo comunione a tutti i suoi benefici.
12. È opportuno affrontare ora il problema dei miscugli iperbolici, cioè eccessivi, frutto della superstizione. Satana infatti ha, in questo campo, messo in giro con astuzia fenomenale un sacco di illusioni per distogliere l'attenzione dal cielo, e tenere le intelligenze nel mondo quaggiù: facendo credere che Gesù Cristo è vincolato all'elemento del pane.
Si eviti anzitutto di concepire tale presenza secondo l'immaginazione dei Sofisti, quasi il corpo di Cristo scendesse sul tavolo e fosse quivi localizzato per essere toccato dalle mani, masticato in bocca e inghiottito nello stomaco. Fu papa Nicola a dettare questa bella formula a Berengario come attestato del suo pentimento. Sono parole di tale enormità da lasciare stupefatti; infatti il glossatore, nel testo di diritto canonico, si vede costretto ad affermare che se i lettori non fossero avvertiti e attenti, potrebbero essere indotti da tali espressioni, in un'eresia peggiore di quella di Berengario stesso. Il Maestro delle Sentenze, quantunque si dia da fare per giustificare l'assurdità, sembra però pensare piuttosto il contrario. Poiché non essendoci dubbio che il corpo di Cristo ha la sua dimensione, come è richiesto dalla natura di un corpo umano, e che è localizzato in cielo, dove è accolto finché non venga per il giudizio, dobbiamo considerare illecito includerlo fra gli elementi corruttibili e immaginarlo presente ovunque. Di fatto questa presenza non è necessaria per avere comunione Cl. Signore Gesù Cristo dato che egli ci elargisce, mediante il suo Spirito, il beneficio di essere fatto uno con lui, nel corpo, nello spirito, nell'anima. Il legame di questa unione è lo Spirito Santo, che è quasi un canale mediante cui scende sino a noi tutto ciò che Cristo è, e Cristo possiede. Noi infatti constatiamo, in modo visibile, che il sole illuminando la terra, invia, in qualche modo, mediante i suoi raggi, la sua sostanza per generare, nutrire, far crescere i frutti; perché dovrebbero essere la luce e l'irradiazione dello Spirito di Cristo meno potenti da non poter recarci la comunione della sua carne e del suo sangue?
La Scrittura pertanto, parlando della partecipazione che abbiamo con Cristo, ne sintetizza tutta la forza nello Spirito. Un testo solo risulta sufficiente: san Paolo nel capitolo ottavo dei Romani dichiara che Cristo abita in noi Cl. Suo Spirito. Dicendo questo non annulla tuttavia questa comunione del suo corpo e del suo sangue, di cui stiamo ora parlando, ma dimostra che lo Spirito è il solo mezzo per cui noi possiamo possedere Cristo e averlo dimorante In noi.
13. I teologi scolastici scandalizzati da così rozza empietà si esprimono in termini più moderati, o forse meno espliciti, si tratta però solo di un alibi più sottile. Ammettono che Gesù Cristo non sia rinchiuso nel pane e nel vino in forma locale, né corporale ma ne inventano una nuova, che non capiscono essi stessi, né tanto meno sono in grado di illustrare agli altri. La sostanza del loro insegnamento è in fondo che si debba cercare Gesù Cristo nelle specie del pane, per usare la loro espressione.
Quando però affermano che la sostanza del pane è tramutata in lui, non vincolano forse la sostanza di lui al candore che pretendono essere il solo elemento che quivi rimane? Dicono però che è contenuto nelle specie del pane in modo tale da rimanere tuttavia in cielo, e definiscono tale presenza abituale. Qualunque siano però i termini inventati per mascherare le loro false dottrine e renderle accettabili, si ritorna pur sempre a questo punto: ciò che era pane diventa Cristo: in modo tale che dopo la consacrazione la sostanza di Gesù Cristo è nascosta sotto forma di pane. E questo non hanno vergogna di dirlo in modo esplicito e chiaro. Queste sono infatti le parole del loro Maestro nelle Sentenze: che il corpo di Cristo, essendo visibile in se, è nascosto sotto l'apparenza del pane dopo la consacrazione; la realtà del pane non è perciò altro secondo lui che una apparenza per distogliere lo sguardo del corpo.
14. Di qui è venuta fuori quella assurda transustanziazione per la quale i papisti combattono oggi con impegno maggiore che per tutti gli altri articoli della fede.
I primi inventori di questa teoria non erano in grado di capire come il corpo di Gesù Cristo potesse essere unito con la sostanza del pane senza che sorgessero, immediatamente, molte assurdità evidenti. Sono perciò stati costretti a ricorrere a questo misero sotterfugio: il pane si è mutato nel corpo di Cristo non nel senso che il pane si è fatto corpo, ma nel senso che Gesù Cristo, per nascondersi sotto le specie del pane, annulla la sostanza di quello. Stupisce che siano caduti in tanta ignoranza, per non dire stupidità, osando contraddire, per sostenere tale mostruosità, non solo la Sacra Scrittura, ma anche ciò che era sempre stato creduto dalla Chiesa antica.
Ammetto che fra gli antichi alcuni abbiano a volte adoperato il termine "mutamento ", non per abolire la sostanza dei segni esteriori, ma per sottolineare il fatto che il pane consacrato a quel mistero risulta differente dal pane comune, e da ciò che era prima. Nondimeno tutti affermano, unanimemente, che nella santa Cena sono presenti due elementi: uno terrestre, l'altro celeste, e non avvertono il minimo dis.gio nell'affermare che il pane e il vino sono segni terreni. È chiaro, qualsiasi cosa dicano costoro, che su questo punto sono in contrasto con gli antichi, la cui autorità spesso usano contrapporre a quella di Dio. Questa dottrina è di recente invenzione, per lo meno può considerarsi ignorata non solo ai tempi in cui la dottrina era ancora nella sua purezza, ma anche dopo, quando già era stata intaccata da molte macchie. Fra gli antichi, comunque, non c'è nessuno che non riconosca esplicitamente che il pane e il vino sono segni del corpo e del sangue di Gesù Cristo quantunque a volte in vista di sottolineare la dignità di questo mistero ricorrano a molte espressioni. Le loro affermazioni secondo cui, consacrando il pane, si opera un mutamento segreto in modo tale che sia presente altro che del pane e del vino, non è, come ho già mostrato, per significare che il pane e il vino svaniscano, ma ch devono essere considerati in modo diverso da alimenti comuni, atti solo a nutrire il ventre, dato che siamo quivi in presenza del cibo e della bevanda spirituale per nutrire le anime nostre. Accetto dunque la verità di queste affermazioni degli antichi dottori.
Riguardo però al dedurre, come fanno questi fabbricanti di nuove dottrine: se c'è mutamento il pane deve essere annullato, perché è il corpo di Cristo che prende il suo posto, replico che e bensì vero che il pane è reso altro da ciò che era ma se da questo pensano poter ricavare le loro speculazioni, domando loro quale cambiamento, a loro avviso, si compie nel battesimo. Gli antichi infatti affermano che anche qui si verifica un mirabile mutamento, nel senso che un elemento corruttibile è fatto lavacro spirituale delle anime, tuttavia nessuno contesta che l'acqua mantenga la sua sostanza.
Replicano che manca nel battesimo la dichiarazione esplicita che si riscontra nella Cena: questo è il mio corpo. Non è ora il momento di prendere in esame queste parole ma di precis.re semplicemente il termine: mutamento, che vale in un caso quanto nell'altro. Lascino dunque perdere queste sciocchezzuole che dimostrano chiaramente la loro mancanza di seri argomenti.
In realtà non potrebbe esservi significato alcuno se la verità figurata non avesse quivi, nel segno esteriore, la sua viva immagine. Gesù Cristo ha voluto dichiarare in forma visibile che la sua carne è nutrimento. Se offrisse una vuota apparenza di pane, senza alcuna sostanza, in che consisterebbe la similitudine che ci deve condurre dalla cose visibili ai benefici invisibili che sono quivi rappresentati? Se infatti si vuole prestare loro fede non si sarebbe condotti oltre né si potrebbe dedurre altro se non che siamo nutriti da una vana apparenza della carne di Cristo, come se, ad ingannare i nostri occhi, non vi fosse al battesimo che una apparenza d'acqua, certo non vi sarebbe segno della nostra purificazione; anzi, fatto più grave ancora, in uno spettacolo ingannevole di questo tipo, non potrebbe essere che motivo di dubbio. In sostanza la natura dei sacramenti è sovvertita quando il segno terrestre non corrisponde alla realtà spirituale per significare autenticamente ciò che deve essere quivi inteso La verità della Cena risulterebbe solo annientata se non vi fosse del vero pane per rappresentare il vero corpo di Gesù Cristo.
Essendo la Cena null'altro che una visibile conferma di quanto è detto nel capo sesto di san Giovanni, che cioè Gesù Cristo è il pane di vita disceso dal cielo, è assolutamente necessario che vi sia pane visibile e materiale per essere figura di quello spirituale, se non vogliamo che lo strumento dato da Dio a sostegno della nostra debolezza venga meno senza che ne ricaviamo alcun vantaggio. Come potrebbe san Paolo dedurre che nell'aver parte all'unico pane siamo fatti un pane e un corpo (1 Co. 10.17) se non vi fosse che apparenza di pane e non invece la sostanza e la realtà?
15. In realtà non si sarebbero lasciati così grossolanamente ingannare dalle illusioni di Satana se già non fossero stati stregati dall'errore che il corpo di Cristo, essendo rinchiuso sotto il pane, si mangia e si digerisce. Una teoria così priva di senso è derivata dal fatto che quel termine "consacrazione ", assume per loro il carattere di un incantesimo o di uno scongiuro di tipo magico. Ignorano il fatto che il pane non è sacramento se non per coloro cui è stata rivolta la Parola; come l'acqua del battesimo non è mutata in se stessa, ma comincia ad essere per noi ciò che non era prima, al momento in cui le si aggiunge la promessa. Questo fatto sarà illustrato ancor meglio da un sacramento analogo. L'acqua che fluiva dalla roccia del deserto (Es. 17.6) era per gli Ebrei segno e tessera della medesima realtà che ci è oggi rappresentata dal pane e dal vino della Cena; san Paolo infatti dice che hanno bevuto una stessa bevanda spirituale (1 Co. 10.4). Pure quest'acqua serviva ad abbeverare il bestiame. È dunque facile dedurre che, quando elementi terreni vengono adoperati per un uso spirituale della fede, il solo mutamento che si verifica concerne gli uomini, in quanto questi elementi diventano per loro suggelli di promesse divine.
Anzi, poiché l'intenzione di Dio è, come ho già spesso ribadito, di innalzarci a se mediante i mezzi che ritiene opportuno, coloro che vogliono chiamarci a Cristo facendocelo cercare nascosto in modo invisibile sotto il pane, fanno tutto al rovescio. Di salire a Cristo non se ne parla fra loro, perché troppa è la distanza. Hanno perciò cercato di rimediare, con una soluzione più dannosa, a quanto risultava loro impossibile per natura: far sì che restando in terra non abbiano alcun bisogno di avvicinarsi al cielo per essere uniti a Gesù Cristo. Ecco perciò la necessità di trasfigurare il corpo di Cristo. Ai tempi di san Bernardo, quantunque si adoperassero già espressioni improprie, la transustanziazione non era ancora accettata. Non si era mai verificato, prima, il caso di qualcuno che non accettasse il corpo e il sangue di Gesù Cristo essere uniti nella Cena al pane e al vino.
Sembra loro che una scappatoia valida esista nella citazione testuale dove le due parti del sacramento sono dette pane e vino. La verga di Mosè, rispondono, quando fu mutata in serpente, quantunque abbia assunto il nome di serpente, non cessò di mantenere la sua qualifica propria di verga (Es. 4.3.7.10) ne traggono la conclusione che non c'è alcun inconveniente a che il pane, pur essendo mutato in altra sostanza, mantenga il suo nome in quanto appare alla nostra vista quale pane. Quale similitudine o analogia pensano riscontrare fra il miracolo di Mosè, del tutto evidente, e i loro diabolici illusionismi di cui nessuno in terra può essere testimone? I maghi facevano le loro stregonerie per convincere il popolo d'Egitto che erano muniti di un potere divino per mutare le creature; Mosè li sfida e, avendo smascherato il loro inganno, dimostra che la invisibile potenza di Dio sta dalla sua parte in quanto fa inghiottire tutte le verghe degli altri dalla sua. Questa trasformazione però si è effettuata in modo visibile, e non può riferirsi in alcun modo alla questione presente come ho già detto. Infatti, poco dopo, la verga assume nuovamente la sua forma primitiva; anzi, non si può neppur sapere se tale improvviso. Mutazione sia avvenuta realmente nella sostanza. Occorre anche notare che Mosè contrapponeva la sua verga a quella dei maghi, e per questa ragione le ha lasciato il suo nome naturale, affinché non sembrasse che concedeva a quegli ingannatori la realtà di un mutamento che era nullo, ma unicamente frutto dei loro incantesimi con cui avevano stupito la vista degli ignoranti. Ora questo non si può in alcun modo riferire a parole del tutto diverse quali: "Il pane che noi rompiamo e la comunione al corpo di Cristo " (1 Co. 10.16) , oppure: "Ogni volta che voi mangiate di questo pane commemorate la morte del Signore " (1 Co. 11.26); e ancora: "Erano uniti nel rompere il pane " (At. 11.42). È ben certo infatti che i maghi, con i loro incantesimi, altro non facevano se non ingannare la vista. Riguardo a Mosè non c'è dubbio che la mano mediante la quale non è stato più difficile a Dio di trasformare una verga in serpente e da capo un serpente in verga, potesse vestire gli angeli di un corpo carnale indi spogliarli di nuovo.
Se si dovesse vedere questa motivazione, o una analoga, nella Cena, questa brava gente avrebbe qualche motivo per sostenere la validità della sua tesi; dato che questo non è il caso ci sia chiaro questo punto: la ragione per raffigurarci nella Cena che la carne di Gesù Cristo è realmente alimento, non sussisterebbe se la reale sostanza del segno esteriore non corrispondesse a questo fatto.
Da un errore ne nasce un altro, hanno perciò tratto da Geremia, per sostenere la loro transustanziazione, un testo che ho vergogna di citare. Il profeta si lamenta del fatto che si sia messo del legno nel suo pane (Gr. 11.19) , egli intende dire che crudelmente i suoi nemici gli hanno tolto il gusto del cibo. Come Davide che si lamenta con immagini analoghe che il suo pane sia stato mutato in fiele e la sua bevanda in aceto (Sl. 69.22). Questi acuti dottori interpretano allegoricamente che il corpo di Gesù Cristo è stato appeso al legno. Sosterranno che alcuni, fra gli antichi, hanno interpretato il testo in questo modo. Risponderò che è già sufficiente perdonare la loro ignoranza e passare sotto silenzio il loro disonore senza dover aggiungere anche questa impudenza di farsi scudo degli antichi per falsificare il significato naturale della parola profetica.
16. Altri, constatando che non si può scindere il vincolo esistente fra il segno e la realtà significata senza che la verità del mistero svanisca, confessano bensì che il pane della Cena è sostanzialmente pane, elemento terrestre e corruttibile e non soggetto ad alcun mutamento sostanziale, ma pretendono che non di meno il corpo di Gesù Cristo vi è rinchiuso. Dicessero apertamente che la presentazione del pane nella Cena significa vera presentazione del corpo, in quanto la verità è inseparabile dal suo segno, non avrei nulla da ridire. Essi però rinchiudendo il corpo nel pane ne rivendicano la ubiquità, cosa contraria alla sua natura, e poi aggiungendo che è sotto il pane, lo rinchiudono quivi come in un nascondiglio; è dunque necessario smascherare questi cavilli. Non già che io intenda ora esaminare tutti i problemi ma quanto sto per dire costituisce la premessa per la discussione che a suo tempo seguirà.
Sostengono che il corpo di Cristo è invisibile e infinito per poter essere nascosto sotto il pane, poiché, secondo la loro opinione, non lo possono ricevere se non scende nel pane. Non considerano però il fatto che questo scendere, di cui abbiamo parlato, è in vista di innalzarci al cielo. È vero che ricorrono a molti argomenti interessanti, ma quando li hanno esauriti diventa chiaro che si gingillano con una presenza di tipo localizzato. Donde viene questo se non dal fatto che sono incapaci di concepire altra partecipazione al corpo di Gesù Cristo se non tenendolo in mano quaggiù, quasi per poterlo maneggiare secondo propri gusti.
17. A giustificare, con ostinazione, l'errore che, senza riflettere, hanno creato non esitano, o per lo meno alcuni fra loro, a sostenere che il corpo di Gesù Cristo ha avuto da sempre le dimensioni del cielo e della terra. Il fatto di nascere bambino, di crescere, l'esser crocifisso e messo in un sepolcro, questo dicono, è accaduto per dispensa affinché compisse in forma visibile quanto era necessario alla nostra salvezza. Il fatto che sia apparso dopo la sua risurrezione e sia salito al cielo e anzi, poi sia stato visto da santo Stefano e da san Paolo (At. 1.3-9; 7.55; 9.3) , è anche accaduto in base ad una analoga dispensa perché potesse manifestarsi visibilmente quale re sovrano. Che discorsi sono questi, vi chiedo, se non richiamare in vita l'infernale Marcione? Nessuno infatti avrà il minimo dubbio che in queste condizioni, il corpo di Gesù Cristo sia stato apparente, ridotto ad un fantasma.
Altri evitano l'ostacolo ragionando in modo più sottile: questo corpo dato nel sacramento è glorioso e immortale; non vi è perciò nessun inconveniente a che sia in molti luoghi o in nessun luogo e privo di forma. Quale era il corpo, domando allora,
Che Gesù Cristo dava ai suoi discepoli la notte precedente la sua passione? La parole che in quella occasione pronuncia non dimostrano forse chiaramente che si trattava del corpo mortale che doveva, poco dopo, essere offerto? Rispondono che già aveva manifestato la sua gloria a tre dei suoi discepoli sul monte (Mt. 17.2). Lo ammetto; ma non si trattava che di dar loro una qualche percezione della sua immortalità, e per breve tempo. Non siamo però in presenza, in quel caso, di un duplice corpo, c'è soltanto quello che è ritornato immediatamente alla sua consueta forma naturale. Quando distribuiva il suo corpo nella prima Cena l'ora si avvicinava in cui doveva essere colpito e sfigurato come un lebbroso, non avendo dignità alcuna né bellezza (Is. 53.4) era lungi, allora, dal voler far mostra della gloria della sua risurrezione.
Offrono così occasione all'eresia di Marcione, affermando che il corpo di Gesù Cristo era visto mortale e sofferente in un luogo e risultava in un altro immortale e glorioso! Se si accetta la loro opinione, bisogna ammettere che la stessa cosa accade ogni giorno. Sono infatti costretti a confermare che il corpo di Gesù Cristo invisibilmente nascosto sotto le specie del pane, secondo le loro affermazioni, è nondimeno visibile in se. Questa gente che vomita fantasie così mostruose non solo non avverte alcuna vergogna della sua irriverenza, ma ci aggredisce con ingiurie senza fine perché non li vogliamo approvare.
18. Quando però si voglia vincolare il corpo e il sangue del Signore al pane e al vino è necessario separarli l'uno dall'altro. Essendo il pane offerto indipendentemente dal calice, il corpo, in quanto unito al pane, deve essere diviso dal sangue che è contenuto nel calice. Affermando che il corpo è nel pane e il sangue nel calice ed essendo il pane e il vino divisi l'uno dall'altro non si può evitare, con nessun cavillo, che in questo modo il sangue sia separato dal corpo. Assolutamente privo di serietà è l'argomento cui sono soliti ricorrere, secondo cui il sangue risulta già incluso nel corpo e similmente il corpo nel sangue, visto che il Signore ha distinti i segni in cui sono rinchiusi.
Se rivolgiamo i nostri sguardi e i nostri pensieri al cielo e sia mo colà trasportati per cercare il Cristo nella gloria del suo regno, poiché i segni ci aiutano a raggiungerlo nella sua pienezza, saremo nutriti della sua carne sotto il segno del pane, e del suo sangue sotto il segno del vino, in modo distinto per godere di lui interamente. Quantunque abbia portato la sua carne lontano da noi, e sia corporalmente salito in cielo, nondimeno è seduto alla destra del Padre, cioè regna nella potenza, nella maestà e nella gloria del Padre. Questo regno non è soggetto a limitazione spaziale ne a determinazioni sì che Gesù Cristo non possa mostrare la sua potenza ovunque gli piaccia, in cielo e in terra, e manifestarsi presente mediante la sua potenza e la sua efficacia, assistere i suoi infondendo loro il vigore della sua vita, sostenerli, confermarli, rinvigorirli e preservarli, non meno che se fosse corporalmente presente; nutrirli, insomma, del suo corpo facendoli partecipare ad esso mediante la potenza del suo Spirito. In questo consiste il ricevere il corpo e il sangue di Gesù Cristo nel sacramento.
19. Dobbiamo ora dare una definizione della presenza di Gesù Cristo nella Cena che non lo vincoli al pane, lo rinchiuda in esso, non pretenda insomma situarlo in terra in questi elementi corruttibili recando così offesa alla sua gloria celeste; una presenza che, d'altra parte, non gli attribuisca un corpo infinito collocandolo in luoghi diversi o faccia credere che egli sia ovunque in cielo e in terra, perché questo sarebbe in contrasto con la realtà della sua natura umana.
Manteniamo dunque decis.mente questi due punti: non permettere che venga recata offesa alla gloria celeste di nostro Signore Gesù Cristo, il che si verifica ogniqualvolta lo si localizza quaggiù in elementi corruttibili del mondo, né permettere d'altra parte che si attribuisca al suo corpo quanto potrebbe essere in contrasto con la sua natura umana; ciò che accade quando si afferma che è finito o lo si collochi simultaneamente in molti luoghi. Quando siano stati eliminati questi due equivoci accoglierò volentieri ogni pensiero atto ad esprimere rettamente la vera comunione al suo corpo ed al suo sangue che Gesù Cristo ci dà nella Cena. Esprimendola, in modo tale, dico, che si comprenda che li riceviamo non per mezzo dell'immaginazione o del pensiero ma che la sostanza loro ci è realmente data. Non si comprende perché questa dottrina debba risultare così odiosa alla gente e la difesa ne sia così iniquamente ostacolata c'è da pensare che Satana ha stregato molte intelligenze, quasi con tragico incantesimo. I1nostro insegnamento concorda certo pienamente con la Scrittura né contiene o crea assurdità, oscurità, ambiguità. Inoltre non è affatto in contrasto con i princìpi fondamentali della fede né con l'edificazione delle anime; in sostanza non contiene nulla che possa offendere; non ci fossero le enormità barbare e stupide dei Sofisti che hanno malvagiamente offuscata una così evidente chiarezza. Tuttavia poiché ancora oggi Satana fa ogni sforzo per denigrarla e contrastarla servendosi di spiriti forsennati e concentra quivi le sue energie, è necessario mantenerla con una fermezza ancor maggiore.
20. Dobbiamo prima di procedere esaminare l'istituzione della Cena da parte di Gesù Cristo principalmente perché i nostri avversari considerano che l'obiezione fondamentale consiste nel fatto che non accogliamo, per parte nostra le parole di Gesù Cristo nel loro significato. Volendoci scagionare di questa colpa, di cui a torto siamo incolpati, dovremo iniziare con l'esame dei testi scritturali.
Tre evangelisti, san Matteo, san Marco e san Luca, e anche san Paolo, narrano che Gesù Cristo avendo preso del pane lo ruppe e avendo reso grazie lo diede ai suoi discepoli dicendo: "Prendete mangiate, questo è il mio corpo che è dato o rotto per voi "; riguardo al calice, san Matteo e san Marco si esprimono in questi termini: "Questo calice è il sangue del nuovo patto che è sparso per molti per la remissione dei peccati " (Mt. 26.26-28; Mr. 14.22-24). San Paolo e san Luca hanno una lieve variante: "Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue " (Lu 22.17.19-20; 1 Co. 11.24).
I difensori della transustanziazione pensano che il pronome dimostrativo "questo "si riferisca all'apparenza del pane poiché la consacrazione si fa con la formula intera e nessuna sostanza è visibile, secondo loro, da potersi mostrare. L'ossequio dei termini li condiziona rigorosamente, ma se ne allontanano assai, affermando che ciò che era pane diventa corpo di Gesù Cristo, Gesù Cristo infatti afferma che ciò che ha preso in mano per darlo ai suoi discepoli è il suo corpo. Ora in mano aveva del pane. Chi non vede dunque che è questo stesso pane che presenta? Nulla sarebbe più irragionevole che applicare ad una apparenza vana, ad un fantasma, ciò che è detto del pane. Coloro che interpretano il verbo "essere "nel senso di "transustanziare ", quasi fosse detto: questo è mutato in corpo mio, fanno uso di argomenti ancor più cavillosi e forzati, pur non avendo gli uni e gli altri altra pretesa che attenersi alle parole di Gesù Cristo. Non si è mai visto in nessuna lingua che il verbo "essere "avesse il significato di "essere mutato in altro ". Coloro che, pur ammettendo che il pane sussista, pensano nondimeno che sia il corpo di Cristo si contraddicono fortemente.
I più moderati, pur insistendo sul significato letterale, affermano che, secondo le parole di Gesù Cristo, il pane deve essere considerato suo corpo ma attenuano in seguito questa assolutezza interpretando l'espressione nel senso che il corpo di Gesù Cristo è "col "pane, "nel "pane, "sotto "il pane. Abbiamo già menzionato la loro opinione e occorrerà trattarla più ampiamente in seguito. Prendiamo per ora soltanto in esame le parole di Gesù Cristo che considerano vincolanti al punto da non poter accettare che il pane sia detto "corpo "in quanto ne è il segno.
Mi chiedo perché, rifiutando ogni spiegazione, come dovendoci attenere al significato letterale dei termini, lasciano da parte quello che dice Gesù Cristo e si danno ad interpretazioni così diverse? Si tratta infatti di due cose molto differenti affermare che il pane è corpo o dire il corpo è Cl. Pane. Giudicando impossibile mantenere l'affermazione che il pane è realmente corpo di Gesù Cristo hanno cercato di aggirare l'ostacolo per vie traverse dicendo che il corpo è dato sotto e con il pane.
Altri più coraggiosi non hanno esitato ad affermare che, parlando in senso proprio, il pane è il corpo, dimostrandosi così assolutamente letteralisti. Se si muove loro l'obiezione che in tal modo il pane è dunque Gesù Cristo e perciò Dio, lo negano risolutamente poiché questo non è detto nelle parole: "Ecco il mio corpo ", con tale diniego però non concludono nulla, visto che tutti confessano che Gesù Cristo ci è offerto nella Cena. Sarebbe insopportabile bestemmia voler affermare che un elemento caduco e corruttibile sia Gesù Cristo, senza una qualche interpretazione figurata. Pongo loro il seguente quesito: queste due proposizioni si possano situare sullo stesso piano: "Gesù Cristo è figlio di Dio "e "il pane è corpo di Gesù Cristo "? Se ammettono una diversità, ammissione che sarà cavata loro di bocca, sia pure a denti stretti, mi dicano allora in che consiste tale differenza. Non potranno riscontrarne altra se non che il pane è detto corpo secondo un'accezione sacramentale. Ne consegue che queste parole di Gesù Cristo non sono soggette alla regola comune e non devono valutarsi secondo la grammatica.
Chiedo altresì a questi ostinati, che non possono accettare vengano prese in esame le parole di Gesù Cristo, quando è detto che il calice è il nuovo patto nel sangue (Lu 22.20; 1 Co. 11.25) secondo le affermazioni di san Luca e san Paolo, questo non dovrebbe avere lo stesso valore di quanto è stato detto riguardo alla prima parte: che il pane è corpo? Nell'un caso come nell'altro si dovrebbe seguire un unico criterio interpretativo, e potendo la brevità esser fonte di oscurità l'espressione più ampia chiarisce il significato dei termini. Quando perciò sostengono, appellandosi ad un termine, che il pane è il corpo di Gesù Cristo, citerò loro l'interpretazione di san Paolo e di san Luca come una formulazione più chiara, cioè che il pane è patto o garanzia che il corpo di Cristo ci è dato. Ove potrebbero trovare interpretazione migliore o più sicura? E non intendo con questo sminuire in alcun modo la partecipazione che, come ho riconosciuto sopra, noi abbiamo Cl. Corpo di Gesù Cristo; voglio soltanto piegare questa loro ostinazione assurda nel polemizzare riguardo ai termini. Seguendo la testimonianza di san Paolo e di san Luca penso che il pane sia il corpo di Gesù Cristo in quanto ne rappresenta il testamento o il patto. Rifiutando questo fatto non combattono affatto contro di me, bensì contro lo Spirito di Dio. Quantunque dichiarino avere in tale ossequio le parole di Gesù Cristo da non voler accettare alcuna interpretazione figurata, questa scusa non basta per giustificare l'orgoglio con cui rifiutano le motivazioni che si contrappongono alle loro. Dobbiamo tuttavia vedere in che consista questo patto nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo poiché a nulla gioverebbe che il patto di grazia fosse stato ratificato, mediante il sacrificio della sua morte, se non vi fosse congiunta quella comunicazione mediante la quale siamo resi uno con lui.
21. Risulta dunque chiaro che, in virtù della affinità esistente tra la realtà figurata e la figura, dobbiamo riconoscere che il termine "corpo "è stato attribuito al pane non in modo formale, come dicono le parole, ma in funzione di una appropriata similitudine. Non faccio uso di figure o parabole onde non mi si rimproveri di ricorrere a sotterfugi, allontanandomi dal testo.
Considero che si tratta di un tipo di espressione frequente in tutta la Scrittura quando si tratta di sacramenti. Non si può infatti stabilire una correlazione tra la circoncisione e il patto con Dio, l'agnello e la liberazione dall'egitto, i sacrifici della Legge e la soddisfazione per i peccati, e infine tra la roccia donde scaturì l'acqua nel deserto (Es. 17.6) e Gesù Cristo, se non in virtù di una forma traslata di discorso. E accade non soltanto che il nome della realtà superiore sia trasferito a quella inferiore ma. Viceversa, il nome della realtà visibile sia attribuito alla realtà significata. Così come quando vien detto che Dio apparve a Mosè nel pruno (Es. 3.2) , quando l'arca del Patto è chiamata Dio o presenza di Dio (Sl. 84.8; 42.3) , la colomba è detta Spirito Santo (Mt. 3.16). Quantunque, infatti, il segno differisca sostanzialmente dalla verità che raffigura, essendo realtà corporea, visibile, terrestre, mentre quello è spirituale e invisibile, tuttavia, trattandosi non soltanto di una raffigurazione della cosa a cui è riferita, quasi ne fosse semplicemente la rimembranza mentre ne è invece, realmente e di fatto, la presenza perché il nome di quest'altro non gli dovrebbe essere dato? Se i segni inventati dagli uomini, quantunque si tratti spesso di figure di realtà assenti più che segni di realtà presenti, e si riducano spesso ad essere semplicemente vane raffigurazioni, assumono tuttavia, a volte, il nome della realtà che significano, a maggior ragione i segni istituiti da Dio potranno assumere il nome della realtà di cui sono attestato senza ingannare, e anzi possedendone l'efficacia e la verità per comunicarcela. Insomma l'affinità e la similitudine tra le due realtà è tale che questa reciproca correlazione non deve essere giudicata strana ed eccessiva. Quelli che ci dicono "tropisti "dimostrano con queste battute di spirito la loro ignoranza, visto che, in tema di sacramenti, l'uso comune della Scrittura risulta essere interamente a nostro favore. Essendo i sacramenti grandemente simili fra loro sostanzialmente concordano tutti in questa traslazione di termini.
L'Apostolo insegna che la rupe, donde era venuta bevanda spirituale agli Israeliti, era stata Cristo (1 Co. 10.4) , in quanto era il simbolo sotto cui era ricevuta questa bevanda spirituale, non in modo visibile e tuttavia in modo reale, nello stesso modo il pane è oggi detto "corpo di Cristo "in quanto rappresenta il simbolo sotto cui nostro Signore ci offre la vera manducazione del suo corpo. Affinché nessuno rifiuti la nostra esegesi giudicandola nuova, ricorderò che sant'Agostino non si è espresso né ha parlato in termini diversi. "Se i sacramenti "dice "non avessero alcuna similitudine con le realtà di cui sono sacramento non sarebbero più tali. In virtù di tale similitudine assumono anche, spesso, i nomi delle realtà figurate. Così, come il sacramento del corpo di Cristo è in qualche modo il corpo stesso e il sacramento del sangue è il sangue stesso, così il sacramento della fede può esser detto fede ". Molte analoghe affermazioni si trovano nei suoi scritti che sarebbe superfluo accumulare qui, dato che questa citazione sola è sufficiente. Dobbiamo però ricordare ai lettori che lo stesso dottore conferma e ripete questo pensiero nell'epistola ad Evodio. Priva di serietà è l'obiezione che quando sant'Agostino si esprime in questi termini riguardo ai sacramenti non si riferisce alla Cena. Poiché in tal caso non sarebbe lecito riferire ad una parte ciò che vien detto del tutto. È invece chiaro che, qualora non si voglia abolire ogni norma di buon senso, non si può sostenere che quanto concerne i sacramenti in generale non debba concernere anche la Cena. Lo stesso dottore mette chiaramente fine ad ogni disputa dicendo in un altro testo, che Gesù Cristo non ha avuto difficoltà a parlare del suo corpo quando ne offriva il segno; ed ancora che è stato atto di mirabile tolleranza da parte di Gesù Cristo ricevere Giuda al pasto in cui istituiva e dava ai suoi discepoli la figura del suo corpo e del suo sangue.
22. Se un qualche ostinato tuttavia, chiudendo gli occhi all'evidenza, intende fissarsi sul termine: questo è il mio corpo quasi questo verbo facesse della Cena un sacramento diverso dagli altri, la soluzione da dare è facile. Sostengono che quel verbo "essere "possiede una tale forza da non richiedere alcuna esplicitazione. Pur accettando questo punto, dovrò rispondere però che san Paolo dicendo: il pane che rompiamo è la comunione al corpo di Cristo (1 Co. 10.16) , fa uso pure lui del verbo essere; e dire comunione significa dir altro che dire corpo stesso. Anzi questo verbo è nella Scrittura di uso quasi costante laddove si parla dei sacramenti come quando viene detto: "Questo sarà il patto tra voi e me " (Ge 17.13); "l'agnello è la Pasqua " (Es. 12.2).
Insomma quando san Paolo afferma che la rupe era Cristo (1 Co. 10.4) , perché secondo loro il verbo dovrebbe avere in questo testo forza minore che nelle parole della Cena? Quando san Giovanni afferma: lo Spirito Santo non era ancora stato dato, poiché Gesù Cristo non era ancor stato glorificato (1 Gv. 7.39) dà al verbo essere altro significato? Volendo rimanere vincolati alla loro esegesi si abolirà l'essenza stessa dello Spirito Santo in quanto avrebbe preso inizio all'ascensione di Gesù Cristo. Mi dicano infine come deve essere interpretata la parola di san Paolo secondo cui il battesimo è lavacro di rigenerazione e di purificazione (Tt 3.5) , visto che, in modo evidente, risulta inutile per molti. Non vi è però argomento più atto e refutare le loro tesi che quell'altra parola di san Paolo dove è detto che la Chiesa è Gesù Cristo (1 Co. 12.12). Dopo aver fatto menzione della similitudine del corpo umano egli infatti aggiunge: "Così è di Cristo ". Con questa affermazione non intende parlare dell'unico figlio di Dio in se ma nelle sue membra.
Considero pertanto acquisito il fatto che ogni persona onesta e di buon senso giudicherà detestabili e deplorevoli le calunnie dei nostri avversari i quali scrivono che per parte nostra smentiamo Gesù Cristo non prestando fede alle sue parole, mentre in realtà le accogliamo con obbedienza e attenzione maggiori di quanto facciano loro. È anzi evidente la loro mancanza di serietà; perché interessa loro relativamente poco ciò che Gesù Cristo ha realmente detto e pensato; basta loro che egli fornisca una giustificazione per la loro tesi; al contrario la cura che ci guida nella ricerca del senso autentico delle sue parole testimonia quanto rispetto noi abbiamo per l'autorità di questo sovrano maestro. La loro critica, calunniosa in verità, è questa: sono i nostri sensi umani ad impedirci di credere ciò che Gesù Cristo ha detto con la sua bocca sacra; ho già in parte detto, e dimostrerò ancor meglio in seguito, quanto siano perversi e spudorati nel muovere questo rimprovero. Non esiste infatti per noi impedimento alcuno a credere in modo assoluto a Gesù Cristo e obbedirgli quando parli. La questione è soltanto di sapere se si debba considerare delittuosa la ricerca del significato autentico e naturale delle sue parole.
23. Questi abili dottori, volendo far figura di gente colta, pretendono non allontanarsi dall'interpretazione letterale neppure di un palmo. Per parte mia affermo che quando per esempio la Scrittura definisce Dio un guerriero (Es. 15.3) , qualora non si ricorresse al senso traslato l'espressione avrebbe un significato eccessivamente massiccio e pesante, non esito perciò per parte mia ad interpretarla come una similitudine tratta dall'ambiente umano. E in realtà gli eretici, che anticamente furono detti Antropomorfisti, avevano questo unico argomento per recare molestia e scompiglio nella Chiesa che si dovevano interpretare letteralmente espressioni quali: gli occhi di Dio vedono, è giunto alle sue orecchie, con mano distesa, la terra è il suo piedistallo. E si indignavano del fatto che i santi dottori non ammettessero la corporeità di Dio visto che la Scrittura sembra attribuirgli un corpo. Indubbiamente costoro avevano la lettera della Scrittura dalla loro parte; se però tutti i testi dovessero intendersi in modo così massiccio e acritico, la vera religione risulterebbe interamente pervertita da fantasie assurde. Non c'è infatti assurdità che gli eretici non possano dedurre, apparentemente, dalla Scrittura quando sia loro concesso stabilire quanto sembra bene con l'appoggio di un termine malinteso e malinterpretato. Il loro argomento, secondo cui Gesù Cristo volendo dare ai suoi discepoli una grande consolazione non poteva esprimersi in modo oscuro, quasi enigmatico, risulta essere a nostro favore. Se infatti i discepoli non avessero inteso che il pane era detto corpo per similitudine, in quanto era pegno e simbolo, si sarebbero scandalizzati di un fatto così prodigioso. In quella circostanza san Giovanni narra infatti che avevano dubbi e scrupoli su ogni parola. Gente che si chiedeva come Gesù Cristo poteva andare al Padre e provò una gran difficoltà a capire come sarebbe partito dal mondo (Gv. 14.5-8) , che non capiva insomma ciò che gli veniva detto riguardo alle cose celesti, avrebbe potuto accogliere tranquillamente questo concetto contrario ad ogni norma razionale: che cioè Gesù Cristo, seduto a tavola davanti ai loro occhi, fosse anche incluso invisibilmente sotto il pane? Il fatto che accettino senza obiettare quanto vien loro detto e mangiano il pane in quel modo, dimostra chiaramente che interpretano le parole di Gesù Cristo come le interpretiamo noi, considerando che in ogni sacramento è usuale dare al segno il nome della realtà significata. Perciò i discepoli hanno ricevuto certa ed evidente consolazione, e non in forma enigmatica come avviene oggi in costoro. L'unico motivo per cui questi presuntuosi abbiano a dimostrarsi così ostinatamente contrari a noi è questo: il Diavolo li ha accecati con i suoi incantesimi per condurli a considerare tenebrosa ed enigmatica una interpretazione in realtà così facile e lineare. Inoltre a voler polarizzare l'attenzione sui termini, non avrebbe senso che Gesù Cristo faccia distinzione tra il suo corpo e il suo sangue. Chiama il pane suo corpo e vino il suo sangue; ovvero si tratta di una ripetizione priva di significato ovvero si tratta di una distinzione per separare l'uno dall'altro. Si potrebbe anzi dire che il calice è il corpo e d'altra parte che il pane è il sangue sostenendo che Gesù Cristo è nascosto sotto ognuno dei due. Sono d'accordo con loro quando rispondono che deve considerarsi il fine per cui sono istituiti i sacramenti, ma non potranno mai evitare che il loro errore implichi questa conseguenza: che cioè il pane sia sangue e il vino sia corpo. Non capisco come riescano ad accordare le loro dichiarazioni quando affermano che il pane e il corpo sono due cose diverse e pretendono tuttavia che il pane è corpo in senso proprio e non figurato, come se uno dicesse che il vestito è altra cosa che l'uomo e tuttavia è propriamente detto uomo.
Il loro unico argomento è una furiosa e ingiuriosa ostinazione, vanno perciò gridando che, ricercando la vera interpretazione alle parole di Gesù Cristo, lo facciamo bugiardo. Risulterà ora facile per i lettori giudicare come questa gente ci calunnia, facendo credere agli ignoranti che si rovescia l'autorità delle parole di Cristo; in realtà essi le confondono e pervertirono altrettanto furiosamente quanto noi le esprimiamo fedelmente e con l'onestà che si conviene, come ho avuto modo di dimostrare esplicitamente.
24. Queste falsità e queste menzogne non si possono eliminare in modo radicale se non smascherando un'altra calunnia: noi saremmo a tal punto schiavi della ragione umana da misurare la potenza di Dio al metro delle leggi naturali essendo incapaci di attribuirle più di quanto suggerisce il senso comune. Una lettura dei nostri scritti dimostrerà in modo irrefutabile quanto perfide e disgustose siano tali calunnie. Mi appello dunque alla dottrina su esposta da cui risulta in modo sufficientemente chiaro che non riduciamo questo mistero nei limiti della capacità razionale dell'uomo né la sottoponiamo all'ordine di natura. Sono forse i filosofi naturalisti, mi domando, che ci hanno insegnato che Gesù Cristo nutre le nostre anime con la sua carne e il suo sangue altrettanto quanto sono nutriti e sostenuti i nostri corpi dal pane e dal vino? Donde viene alla carne questa efficacia di vivificare le anime? Tutti devono riconoscere che questo non avviene in modo naturale. Né sarà cosa più accettevole all'intendimento umano affermare che la carne di Cristo penetra in noi per esserci nutrimento. Chiunque abbia afferrato il senso della nostro dottrina sarà pieno di ammirazione per questa segreta potenza di Dio che noi insegniamo. Questi critici ben intenzionati e zelanti inventano invece un miracolo, non avvenendo il quale, a loro giudizio, Dio non agisce. Prego nuovamente i lettori di riflettere attentamente agli orientamenti della nostra dottrina: se deriva dal senso comune ovvero, con slancio di fede, travalica il mondo per giungere al cielo. Affermiamo che Gesù Cristo scende sino a noi mediante il segno esteriore e mediante il suo Spirito per vivificare realmente le anime nostre con la sostanza della sua carne e del suo sangue. Coloro che non ammettono che ciò possa avvenire senza molti fatti miracolosi si dimostrano oltremodo sciocchi, nulla è infatti più contrario al senso naturale che affermare le anime ricevere dalla carne la vita spirituale e celeste, proprio dalla carne che ha avuto la sua origine in terra ed è stata mortale. Nulla risulta più incredibile dell'affermazione che le realtà distanti l'una dall'altra quanto il cielo e la terra, non solo risultano esser congiunte ma a tal punto unite che le anime nostre ricevano nutrimento dalla carne di Cristo senza che essa abbandoni il cielo. Cessino dunque questi esaltati di aggredirci e renderci odiosi accusandoci di sminuire la potenza infinita di Dio. Dicendo questo ovvero commettono un grossolano errore ovvero mentono; in questo caso infatti il problema in discussione non concerne quello che Dio ha potuto fare, ma quello che Dio ha voluto fare. E accettiamo, per parte nostra, ciò che gli è piaciuto fare. Ora egli ha voluto che Gesù Cristo fosse fatto simile ai suoi fratelli, in ogni cosa, eccetto nel peccato (Eb. 4.15).
Come si presenta il nostro corpo? Non ha forse una dimensione precis. E definita? Non è forse localizzato in un luogo, offerto al tatto e alla vista? Perché, replicano, Dio non potrebbe far si che un corpo occupi luoghi diversi fra loro, non sia situato n nessun luogo determinato, non abbia forma o misura? Stupidi! Cosa andate chiedendo alla potenza di Dio? Che faccia sì che un corpo sia contemporaneamente un corpo e un non corpo? Potreste anche richiedere che faccia essere la luce contemporaneamente luce e tenebre. Dio però vuole che la luce sia luce e le tenebre siano tenebre e un corpo sia un corpo. È certo in grado, quando lo voglia, di mutare le tenebre in luce e la luce in tenebre. Ma nel richiedere che la luce e le tenebre non abbiano alcuna differenziazione che cosa chiedi se non il sovvertimento dell'ordine della sua sapienza? Bisogna dunque che il corpo sia corpo e lo Spirito sia Spirito e ognuno sussista secondo le leggi e le condizioni in cui Dio lo ha creato. La condizione del corpo è appunto quella di esistere in un luogo determinato, con una dimensione e una forma sue proprie. In questo modo Gesù Cristo ha preso il suo corpo, a cui, secondo la testimonianza di sant'Agostino ha bensì dato incorruttibilità e gloria ma a cui non ha sottratto la natura e la realtà. La testimonianza della Scrittura è infatti chiara ed evidente: egli è salito in cielo donde deve anche ritornare come è stato visto salire (At. 1.9-11).
25. Replicano che hanno dalla loro parte la citazione testuale in cui la volontà di Dio è esplicitata. Senz'altro; basta concedere loro il diritto di annullare, nella Chiesa, il dono dell'interpretazione e in base al quale un testo sia inteso nel loro significato. Si tratta indubbiamente di una citazione scritturale analoga però a quelle degli Antropomorfisti che anticamente facevano Dio corporale. Anzi ragionano come Marcione e Mani che riducevano il corpo di Gesù Cristo ad una esistenza celeste e fantomatica. Infatti essi citavano questi testi: "Il primo Adamo essendo dalla terra è terrestre, il secondo Adamo, cioè il Signore, è dal cielo " (1 Co. 15.47). Ed anche: "Gesù Cristo si è annichilito prendendo forma di servo, ed essendo stato trovato in ogni cosa simile agli uomini " (Fl. 2.7). Si tratta di giocolieri fanfaroni che pensano non si possa parlare di potenza di Dio se tutto l'ordine di natura non è capovolto dalle mostruosità che fabbricano nei loro cervelli. Questo significa piuttosto vincolare Dio e assegnargli dei binari per farlo obbedire alle nostre fantasie; da quale testo hanno infatti ricavato che il corpo di Cristo, pur essendo visibile in cielo, è non di meno nascosto e invisibile sotto una infinità di pezzi di pane? Certo diranno che questo e inevitabile se il corpo di Cristo è dato nella Cena; indubbiamente, perché è sembrato loro dover ricavare dalle parole di Gesù Cristo l'idea di una manducazione carnale del suo corpo; assillati dalle loro speculazioni sono stati costretti a inventare questa esegesi contraddetta da tutta la Scrittura. Il nostro insegnamento, lungi dallo sminuire in qualche modo la potenza di Dio, risulta invece essere il più atto a glorificarla.
Dato però che continuano ad accusarci di aver spogliato Dio del suo onore, perché rifiutiamo ciò che il senso comune stenta a credere, anche se promesso da Gesù Cristo, replicherò ancora una volta che non assumiamo affatto il senso naturale a norma di valutazione dei misteri della fede, anzi riceviamo con ogni docilità e spirito di mansuetudine, come ci esorta san Giacomo (Gm. 1.21) , tutto ciò che procede da Dio. Non rinunciamo però a far uso di un necessario discernimento per evitare di cadere nell'errore pernicioso da cui essi sono accecati. Leggendo infatti le parole: "Questo è il mio corpo "letteralmente e senza riflettere, inventano un miracolo assolutamente contrario all'intenzione di Gesù Cristo. Di conseguenza sorgono davanti ai loro occhi molti errori e assurdità; ma essendosi già impelagati in questo problema con eccessivo impegno eccoli che si immergono nell'abisso della potenza infinita di Dio per spegnere e cancellare ogni verità. Eccoti sorgere questa loro presunzione unita a disprezzo ed arroganza che fonda la loro affermazione secondo cui non intendono sapere in che modo il corpo di Cristo sia nascosto sotto il pane ma si accontentano di queste parole: "Questo è il mio corpo ". Per parte nostra ci sforziamo di produrre una interpretazione valida di questo, come di tutti gli altri testi, e ci impegnamo in questa ricerca con cura e umiltà.
Non accogliamo così, senza esame e senza discernimento ciò che si presenta ai nostri sensi, ma, dopo aver attentamente meditato e considerato tutto il problema, accettiamo il significato che lo Spirito Santo ci suggerisce. Essendo così fondati saldamente disprezziamo quanto la sapienza terrena può obiettare, anzi, manteniamo le nostre intelligenze prigioniere e le umiliamo affinché non abbiano ad innalzarsi o a ribellarsi all'autorità divina. Da questa impostazione procede l'esposizione offerta sopra che tutte le persone, in qualche modo, familiari con la Scrittura riconosceranno essere valida per tutti i sacramenti. Seguendo in questo l'esempio della santa Vergine (Lu 1.34) , non consideriamo proibito domandarci, riguardo ad una realtà elevata, come essa si possa compiere.
26. Nulla risulterà però più idoneo a confermare la fede dei figli di Dio quanto la dimostrazione che la dottrina, da noi esposta sin qui, è semplicemente tratta dalla Scrittura e fondata sulla di lei autorità, risolverò dunque questo punto in breve.
Non Aristotele ma lo Spirito Santo ci insegna che il corpo di Gesù Cristo, dopo essere risorto dai morti, mantiene la sua dimensione ed è accolto in cielo sino all'ultimo giorno. So bene che i nostri avversari dimostrano apertamente non tenere in alcun conto i testi che citiamo loro. Ogni volta che Gesù Cristo dice che se ne andrà lasciando il mondo (Gv. 14.12-28) , replicano che tale partenza non significa altro che un mutamento nella sua condizione mortale; se così fosse Gesù Cristo non si varrebbe della presenza dello Spirito Santo per supplire alla sua assenza, visto che quello non gli succederebbe. Gesù Cristo non è ridisceso dalla sua gloria celeste per riprendere condizione mortale. L'avvento dello Spirito Santo in questo mondo e l'ascensione di Cristo sono indubbiamente realtà diverse. È pertanto impossibile che egli dimori fra noi, secondo la carne, in modo tale da inviare il suo Spirito.
Al contrario egli dichiara esplicitamente che non sarà sempre con i suoi discepoli nel mondo (Mt. 26.2). Sembra loro possibile eludere questa citazione dicendo che Gesù Cristo ha semplicemente inteso dire che non sarebbe stato sempre povero e bisognoso sì da aver necessità di aiuto; il contesto è in contrasto con questa esegesi, non vi si parla di povertà o di indigenza o di altra miseria della vita terrena ma di onore. L'unzione della donna non era gradita agli apostoli; sembrava loro spesa inutile, superflua, anzi manifestazione di lusso da deplorare. Avrebbero infatti preferito che fosse distribuito ai poveri il valore dell'unguento, che a loro giudizio era stato sprecato. Gesù Cristo dice che non sarà sempre presente per ricevere questo onore. Non diversamente da noi legge sant'Agostino; lo dimostra la citazione seguente, molto esplicita:"Quando Gesù diceva non mi avrete sempre con voi, si riferiva alla presenza del suo corpo. Poiché secondo la sua maestà, la sua provvidenza, la sua grazia invisibile è compiuto ciò che ha altrove promesso: sarò con voi sino alla fine del mondo; però secondo la natura umana che ha assunto, secondo la nascita dalla Vergine, secondo la sua crocifissione, resurrezione e sepoltura, questa sentenza è adempiuta: non mi avrete sempre con voi. Perché questo? Perché corporalmente si è intrattenuto quaranta giorni con i discepoli e dopo è salito al cielo, mentre i discepoli lo seguivano con lo sguardo e non con i piedi, ed ora non è più qui. Tuttavia è sempre qui per il fatto che non si è allontanato con la sua maestà ". E ancora: "Abbiamo sempre Gesù Cristo con noi, secondo la presenza della sua maestà; secondo la presenza della sua carne ha detto "non mi avrete con voi ". Poiché la Chiesa l'ha avuto presente per pochi giorni secondo il corpo, ora lo possiede per fede ma non lo vede con gli occhi ". Vediamo qui che questo santo dottore fa consistere la presenza di Gesù Cristo con noi in queste tre realtà: la sua maestà, la sua provvidenza, la sua grazia inesprimibile; grazia nella quale includo la comunione che egli ci offre nel suo corpo e nel suo sangue. Vediamo dunque che non la si deve includere nel pane, poiché ha dimostrato di avere carne e ossa che potevano essere toccate e viste. Andare e salire non significa far finta di andare e salire, significa compiere realmente ciò che le parole dicono.
Qualcuno domanderà se si deve assegnare a Cristo un luogo preciso nel cielo. A ciò risponderò con sant'Agostino che tale domanda è superflua e oziosa; ci basta infatti sapere che è nel cielo.
27. Che dunque, il termine ascensione così spesso ripetuto, non indica forse che Gesù Cristo si è spostato da un luogo in un altro? Lo contestano in quanto, a loro avviso, l'altezza sta qui ad indicare soltanto la maestà del suo regno. Ma domando da capo: in che modo è avvenuta l'ascensione? Non è forse stato innalzato in alto a vista d'occhio? Gli evangelisti non affermano forse chiaramente che è stato assunto in cielo (At. 1.9; Mr. 16.19; Lu 24.51) ? Ostinati, per dimostrarsi abili sofisti, dicono che dalla nuvola è stato nascosto alla vista degli uomini affinché i credenti non lo cercassero più quaggiù in forma visibile. Se avesse voluto illustrare una sua presenza invisibile, avrebbe piuttosto dovuto svanire istantaneamente o essere nascosto dalla nuvola prima di alzare un piede. Quando però è portato in alto, nell'aria, e, frapponendo fra se e i suoi discepoli la nuvola, mostra che non lo si deve più cercare in terra, dobbiamo concludere in modo certo che ha attualmente il suo domicilio in cielo. Come d'altronde anche san Paolo dichiara, ordinandoci di attenderlo finché egli torni (Fl. 3.20). Per questa ragione gli angeli avvertono i discepoli che, guardando in aria, si ingannano, perché Gesù, accolto in cielo, verrà nel modo che lo hanno visto salire.
I nostri avversari, per dimostrare la loro abilità, fanno uso dei loro soliti cavilli, dicendo che allora si manifesterà in forma visibile, dato che non si è mai allontanato dai suoi, dimorando sempre invisibilmente con loro. Gli angeli avrebbero in quel caso parlato di una duplice presenza; mentre è chiara la loro intenzione di eliminare ogni dubbio riguardo all'ascensione di Gesù Cristo di cui i discepoli erano testimoni. Essi sembrano dire: essendo stato accolto in cielo dinanzi ai vostri occhi, ha preso possesso del regno celeste; attendete pazientemente che egli torni una seconda volta quale giudice del mondo; egli non è entrato in cielo per occupare da solo quel posto, ma per accogliere con sé noi e tutti i credenti.
28. Dato che costoro, per sostenere le loro fantasie bastarde, non hanno vergogna di ricorrere all'autorità degli antichi, soprattutto di sant'Agostino, dimostrerò brevemente che in questo caso agiscono slealmente.
Già alcuni uomini sapienti, e fedeli servitori di Dio, hanno dimostrato in modo sufficientemente chiaro la verità riguardo alla testimonianza degli antichi dottori; non intendo fare opera superflua, raccogliendo qui quanto si può trovare nei loro scritti. Neppure citerò tutto ciò che in sant'Agostino potrebbe servire alla nostra causa, ma mi accontenterò di dimostrare, brevemente, che si trova assolutamente schierato con noi.
Riguardo alla tesi, sostenuta dai nostri avversari in vista di toglierci il suo appoggio, secondo cui si incontra spesso nei suoi libri l'affermazione che ci sono dati nella Cena il corpo e il sangue di Gesù Cristo, cioè il sacrificio che è stato una volta offerto in croce, Si tratta di una giustificazione del tutto frivola visto che chiama anche i segni "sacramenti del corpo e del sangue ". Del resto non occorre cercare più a lungo in che senso egli adoperi questi termini visto che illustra sufficientemente il suo pensiero dicendo che i sacramenti ricevono il loro nome dalla similitudine delle cose che significano e così, in un certo modo il sacramento del corpo può esser detto corpo. A questa affermazione fa riscontro anche l'altra già citata: che Gesù Cristo non si è fatto scrupolo di dire: ecco il mio corpo dando i segni di quello. Ricorrono più avanti ad un'altra espressione dello stesso dottore: il corpo di Cristo cade in terra entra in bocca. Rispondo che questo deve essere inteso nel senso detto subito appresso: che si consuma nel ventre. Di nessun giovamento è l'affermazione che il pane si consuma dopo che il mistero si è compiuto, in quanto poco prima aveva detto: "Questo mistero, che viene amministrato agli uomini, è notorio, può perciò essere oggetto di dignità e di onore, come cosa santa, ma non come miracolo ". A questo si riferisce un altro testo che i nostri avversari, troppo facilmente, interpretano a loro favore: Gesù Cristo distribuendo il pane della Cena ai suoi discepoli si è in qualche modo dato con le proprie mani . Ricorrendo infatti a questo avverbio di paragone "in qualche modo ", attesta che il corpo non è stato realmente incluso nel pane. Né si tratta di un pensiero insolito visto che altrove sostiene chiaramente e fortemente che se si toglie ai corpi le loro dimensioni e la localizzazione non potrebbero situarsi in nessun luogo e di conseguenza non esisterebbero in modo assoluto. Il loro cavillo è a questo punto troppo debole: non si riferirebbe alla Cena, in cui Dio manifesta invece un intervento particolare: poiché questa conclusione era stata in modo particolare suggerita dall'esempio del corpo di Gesù. E questo santo dottore rispondendo con deliberato proposito dice che gli ha conferito immortalità ma non gli ha tolto la sua natura. "Perciò "dice "secondo il corpo, Gesù Cristo non è ovunque diffuso. Bisogna infatti evitare di sottolineare la dignità del mediatore che è stato fatto uomo al punto da distruggere la realtà del suo corpo. Poiché dal fatto che Dio sia onnipresente non deriva che tutto ciò che è in lui lo sia pure ". La motivazione aggiunta è la seguente: Gesù Cristo essendo uno solo, è nella sua persona Dio e uomo. In quanto Dio è ovunque, in quanto uomo è in cielo. Grave lacuna sarebbe stata da parte sua il non menzionare, sia pure di sfuggita, l'eccezione di quel mistero di tanta importanza qualora fosse risultato in contrasto con il tenore del suo discorso. E anzi se si legge attentamente ciò che segue si troverà che la Cena vi è inclusa. Poiché egli dice che il figlio unico di Dio, essendo anche uomo è ovunque presente; interamente, in quanto Dio risiede nel tempio di Dio, cioè nella Chiesa, e nondimeno è in cielo come uomo, perché occorre che un vero corpo abbia la sua dimensione. Constatiamo che per unire Gesù Cristo alla sua Chiesa non sottrae il suo corpo al cielo, e lo avrebbe certo fatto qualora questo corpo ci potesse essere nutrimento solo a condizione di esser nascosto sotto il pane.
In un altro testo volendo definire in che modo i credenti possiedano Gesù Cristo dice: "l'abbiamo mediante il segno della croce, il sacramento del battesimo e il mangiare e bere dell'altare ". Non è questa la sede per esaminare se sia stato ragionevole da parte sua metter sullo stesso piano un'assurda superstizione e i veri segni della presenza di Gesù Cristo. Faccio solo notare che stabilendo questo paragone, dimostra sufficientemente che non pensa a due corpi di Gesù Cristo per nasconderlo nel pane, da una parte, e lasciarlo invisibile nel cielo, dall'altra. Con più ampia spiegazione aggiunge poco dopo che abbiamo sempre Gesù Cristo, secondo la presenza della sua maestà, e non secondo la presenza della sua carne visto che, riguardo ad essa, è stato detto: "non mi avrete sempre con voi " (Mt. 26.2) .
I nostri avversari replicano che egli associa a queste parole il fatto che per sua grazia, in modo indicibile e invisibile si compie la sua parola, secondo cui egli sarà con noi sino alla fine del mondo (Mt. 28.20). Ma questo non appoggia in nulla la loro tesi in quanto si tratta di una parte di questa maestà che contrappone al corpo ponendo le due realtà come diverse: la carne e la grazia. In un altro luogo mette in contrasto questi due fatti che Gesù Cristo ha lasciato ai suoi discepoli sotto il profilo della presenza corporale per essere con loro con presenza spirituale; qui risulta che distingue in modo particolare l'essenza della carne e la potenza dello Spirito che ci congiunge a Cristo, quantunque ne siamo separati da una distanza in senso spaziale. Ricorre sempre a questo tipo di discorso come quando dice: egli verrà per giudicare i vivi e i morti secondo la regola di fede con presenza corporale, poiché sotto il profilo della presenza spirituale e sempre con la sua Chiesa. Questo detto si rivolge ai credenti che egli aveva cominciato a custodire essendo presente di corpo e i quali doveva abbandonare a causa dell'assenza del suo corpo per custodirli mediante una presenza spirituale. È un cavillo sciocco interpretare corporale nel senso di visibile, visto che egli contrappone il corpo alla potenza divina; aggiungendo che egli ci custodisce, Cl. Padre, esprime chiaramente il fatto che largisce la sua grazia dal cielo mediante lo Spirito Santo.
29. Vediamo ora se abbia qualche giustificazione il sotterfugio, in cui tanto confidano, della presenza invisibile.
In primo luogo essi non sono in grado di citare una sola sillaba della Scrittura con cui dimostrare che Gesù Cristo è invisibile. Considerano argomento inoppugnabile ciò che nessuna persona di buon senso ammetterà: che il corpo di Gesù Cristo non possa essere offerto nella Cena se non sotto l'aspetto di un pezzo di pane. Ma è proprio questo il punto che deve essere dimostrato e non può, pertanto, costituire la premessa del ragionamento
Inoltre, divagando in questo modo, sono costretti a dare un doppio corpo a Gesù Cristo; perché, secondo loro è visibile in cielo, ed e invisibile nella Cena, per dispensazione speciale. Se questo corrisponde o meno alla realtà si può valutare in base a molti testi scritturali, in particolare alla testimonianza di san Pietro quando afferma che Gesù Cristo è in cielo fino alla sua venuta per giudicare il mondo (At. 3.21). Questi pazzi insegnano che egli è ovunque, senza forma alcuna e pretendono che è iniquo sottoporre un corpo glorioso alle leggi comuni della natura. Una risposta del genere conduce però direttamente alla tesi di Serveto, giustamente odiosa ad ogni persona che teme Dio, secondo cui il corpo di Gesù Cristo, dopo la sua ascensione è stato inghiottito dalla sua divinità . Non penso che questo sia il loro pensiero, ma quando si includono fra le qualità di un corpo glorificato anche quella di essere infinito e tale da riempire ogni cosa, evidentemente la sua sostanza viene abolita e non rimane nessuna distinzione fra la divinità e la natura umana. Inoltre se il corpo di Gesù Cristo è così variabile e di diverse forme sì da apparire in un luogo e rimanere invisibile in un altro che ne sarà della natura corporale che deve avere le sue dimensioni? Che accadrà altresì della sua unità?
Tertulliano ragiona molto meglio insegnando che Gesù Cristo ha un vero corpo naturale, di cui ci è data immagine nella Cena, quale pegno e certezza di vita spirituale. L'immagine infatti risulterebbe falsa se non fosse vero ciò che essa rappresenta. In realtà Gesù Cristo si riferiva al suo corpo glorioso dicendo: "Guardate e toccate poiché uno Spirito non ha carne né ossa " (Lu 24.39). Queste le caratteristiche a cui Gesù riconosce un vero corpo quando si vede e si tocca. Se le sopprimiamo, non si può più parlare di corpo.
Sempre di nuovo si rifugiano nella loro premessa: il carattere di eccezionalità di questo fatto. Nostro dovere è invece ricevere ciò che Gesù Cristo dichiara in modo assoluto considerando valido, senza eccezioni, ciò che egli vuole affermare. Egli dimostra chiaramente che non è un fantasma, come credevano i suoi discepoli, in quanto è visibile in carne ed ossa. Eliminiamo le proprietà che egli attribuisce come peculiari al suo corpo, e non saremo forse costretti a trovare una nuova definizione di presenza? Si agitino ed affannino finché vogliono questa eccezione, che hanno immaginato, non ha luogo d'essere, perché san Paolo afferma che aspettiamo il nostro salvatore dal cielo che renderà conforme al corpo della sua gloria il nostro corpo mortale (Fl. 3.21). Non possiamo infatti sperare che tale conformità avvenga sulla base delle qualità che essi immaginano, che cioè ciascuno abbia un corpo invisibile e infinito; e non si troverà certo individuo così ignorante da lasciarsi convincere da assurdità di questo genere. Rinuncino perciò ad attribuire al corpo glorioso di Gesù Cristo questa proprietà di essere contemporaneamente in molti luoghi e non essere contenuto in nessun luogo; insomma ovvero negano apertamente la risurrezione della carne, ovvero confessano che Gesù Cristo, rivestitosi della gloria celeste non si è spogliato della sua natura umana, visto che la nostra risurrezione sarà identica alla sua quando ci renderà partecipi e compagni della sua condizione attuale. Nessun insegnamento scritturale è più chiaro di questo: come Gesù Cristo ha rivestito la nostra carne, nascendo dalla vergine Maria, e ha sofferto in essa per cancellare i nostri peccati così ha assunto questa stessa carne nella sua resurrezione. Perciò tutta la speranza che abbiamo di giungere in cielo poggia sul fatto che Gesù Cristo vi è salito e, come dice Tertulliano, ha portato con sé la caparra della nostra risurrezione. Ora, faccio notare, quanto sarebbe debole questa fiducia se la carne che Gesù Cristo ha presa da noi non fosse la stessa che è entrata in cielo.
Siano pertanto rifiutate queste fantasticherie che vincolano al pane sia Gesù Cristo che la speranza degli uomini. Che scopo ha infatti questa presenza invisibile, di cui cianciano tanto, se non costringere coloro che desiderano essere uniti a Cristo a gingillarsi con segni esteriori? Gesù Cristo ha voluto invece staccare dalla terra non solo i nostri occhi ma tutti i nostri sensi quando impedì alle donne, che erano venute al sepolcro, di toccarlo perché non era ancora salito al Padre (Gv. 20.17). Sapendo che Maria e le sue compagne erano mosse da un santo affetto e da grande riverenza nel volergli baciare i piedi, non c'era ragione di impedire e condannare questo gesto, finché egli fosse salito in cielo, se non in quanto voleva mostrare che soltanto là deve essere cercato. Si obietta che da allora è stato visto da santo Stefano (At. 7.55). La risposta è facile. Non si richiedeva per tale visione che Gesù Cristo cambiasse sede, gli era sufficiente dare al suo servitore un potere soprannaturale di visione, facendogli vedere attraverso i cieli. Altrettanto dicasi di san Paolo (At. 9.4).
L'altra obiezione secondo cui Gesù Cristo è uscito dal sepolcro senza aprirlo (Mt. 28.6) ed è entrato dai discepoli a porte chiuse (Gv. 20.19) , non giustifica il loro errore. Come l'acqua divenne per Gesù Cristo una strada quando egli camminò sul mare (Mt. 14.25) , non ci deve stupire che la durezza della pietra si sia rammollita per lasciarlo passare. È pure verosimile che la pietra si sia alzata e abbia ripreso in seguito il suo posto. Entrare in un locale a porte chiuse non significa trapassare il legno, significa soltanto che egli si è aperto un passaggio con la potenza divina in modo da trovarsi miracolosamente fra i discepoli, quantunque le porte fossero chiuse.
Neppure risulta probante per difendere la loro tesi, anzi torna a vantaggio nostro, il testo in cui san Luca narra che improvvisamente Gesù scomparve dalla vista dei discepoli che andavano ad Emmaus (Lu 24.31). Per sottrarsi alla loro vista non si è infatti reso invisibile, ma è solo scomparso. Come anche, testimone lo stesso evangelista, camminando non si è travestito o trasformato, per non essere riconosciuto, ha semplicemente mutato loro la vista (Lu 24.16). Ora i nostri avversari non solo trasfigurano Gesù Cristo per farlo entrare nel mondo, ma se lo immaginano diverso da se stesso e diverso in terra e in cielo. In breve, secondo i loro sogni, quantunque non dicano esplicitamente che la carne di Gesù Cristo è Spirito, tuttavia lo insegnano. E non contenti di ciò la vestono, secondo i luoghi dove si colloca, di qualità opposte, per cui necessariamente risulta duplice.
30. Quand'anche accettassimo ciò che vanno blaterando riguardo alla presenza invisibile, bisognerà ancora dimostrare la ubiquità di Gesù Cristo senza la quale si sforzano invano di includerlo sotto il pane. Fintanto che non ci hanno dimostrato che egli è ovunque, senza limiti di distanza né dimora, non ci potranno convincere del fatto che è nascosto sotto il pane della Cena. È questa difficoltà che li ha costretti ad introdurre la mostruosa teoria del corpo infinito si. Abbiamo dimostrato con testimonianze esplicite e inoppugnabili della Scrittura che il corpo di Gesù Cristo è, non diversamente dagli altri, contenuto in uno spazio locale, come si richiede ad ogni corpo umano. Inoltre egli ha dimostrato, mediante la sua ascensione in cielo, di non essere ovunque, ma che recandosi in un luogo, ne abbandonava un altro.
La promessa che citano: "sarò con voi sino alla fine del mondo " (Mt. 28.20) non implica presenza corporale. Se così fosse Gesù Cristo dovrebbe abitare in noi corporalmente indipendentemente dalla Cena, poiché, nel testo, si parla di una comunione perpetua. Non c'è dunque ragione di impegnarsi così strenuamente in questa polemica, per rinchiudere Gesù Cristo sotto il pane, in quanto riconoscono che lo abbiamo nello stesso modo anche senza la Cena. Anzi secondo il testo Gesù Cristo non parla qui affatto della sua carne ma promette ai suoi discepoli un invisibile aiuto mediante il quale li difenderà e li manterrà contro tutti gli assalti di Satana e del mondo. Egli stava affidando loro un difficile incarico e li rassicura, promettendo di esser sempre presente, affinché non esitino ad assumere questo compito e non si dimostrino perplessi; quasi dicesse che il suo straordinario aiuto non sarebbe mai mancato. Se questa gente non provasse piacere a mischiare e confondere le cose, non sarebbe il caso di specificare questo tipo di presenza? In realtà preferiscono rivelare la loro ignoranza ricorrendo ad improperi anziché abbandonare, sia pur di poco, il loro errore. Non mi riferisco ai papisti, la cui dottrina è più accettabile, o per lo meno presentata meglio. Ve ne sono che infiammati da tale ardore non si vergognano di dire che, a causa dell'unione delle sue nature, ovunque è presente la divinità di Cristo si trova pure la sua carne, in quanto non si possono scindere. Questa unione diventa così una fusione il cui risultato è non so quale miscuglio che risulta non essere né Dio né uomo. Così l ha immaginata Eutiche, e dopo di lui Serveto.
Si ricava però chiaramente, da tutta la Scrittura, il concetto che nella persona di Gesù Cristo le due nature sono unite in modo che ognuna mantenga le sue proprietà. I nostri avversari non oseranno affermare che Eutiche non sia stato condannato giustamente. Mi stupisce il fatto che non ne valutino il motivo: sopprimendo infatti la distinzione fra le due nature e insistendo sull'unità della persona egli faceva Gesù Cristo essere uomo in quanto Dio e Dio in quanto uomo. Questi forsennati preferiscono dunque mischiare cielo e terra piuttosto che abbandonare le fantasticherie strappando Gesù Cristo dal santuario dei cieli.
Il volersi fondare su queste testimonianze scritturali: "Nessuno è mai salito al cielo se non il Figlio dell'uomo che vi dimora " (Gv. 3.13); ed: "Il Figlio che è nel seno del Padre è quello che ce l'ha manifestato " (Gv. 1.18) dimostra la loro stupidità in quanto disprezzano la comunicazione delle proprietà che non senza ragione è stata formulata dai Padri antichi. Quando, ad esempio, vien detto che il Signore della gloria è stato crocifisso (1 Co. 2.8) , questo non significa che in qualche modo egli abbia sofferto nella sua divinità, ma vuol dire che Gesù Cristo, soffrendo questa morte ignominiosa nella sua carne, era lui stesso il Signore della gloria. Per la stessa ragione si può dire che il Figlio dell'uomo era in cielo e in terra in quanto Gesù Cristo, secondo la carne, ha parlato quaggiù mediante la sua vita mortale e tuttavia non cessava di abitare in cielo in quanto Dio. Quando nello stesso testo è detto che "è sceso dal cielo ", questo non significa che la sua divinità abbia lasciato il cielo per rinchiudersi nella carne come in un carcere, ma significa che colui che riempie tutto ha nondimeno abitato corporalmente, in modo inesprimibile, nella sua umanità.
È in uso fra i teologi sorbonisti una distinzione elementare che non ho scrupolo di citare: Gesù Cristo è ovunque nella sua totalità, ma tutto ciò che ha in se non è ovunque. Volesse Iddio che quei poveretti meditassero attentamente il significato di questa sentenza; la loro sciocca teoria della presenza carnale di Gesù Cristo nella Cena sarebbe così distrutta. Il nostro mediatore perciò, essendo ovunque nella sua pienezza è costantemente vicino ai suoi. Nella Cena anzi si dimostra presente in modo particolare, tuttavia in vista di manifestare la sua presenza, non per recarvi tutto ciò che ha in se perché, quanto alla carne, egli deve dimorare in cielo sino alla sua apparizione per il giudizio.
31. Del resto coloro che non sono in grado di concepire una presenza della carne di Gesù Cristo nella Cena, se non in quanto legata al pane, grandemente si ingannano. Così facendo essi escludono infatti l'opera segreta dello Spirito che ci unisce a Gesù Cristo. Sembra loro che Gesù Cristo non sia presente se non discende sino a noi. Come se innalzandoci a se non ci facesse godere altrettanto bene della sua presenza.
Il nostro problema, o la nostra controversia, verte unicamente sulla modalità di questa presenza perché i nostri avversari vogliono localizzare Gesù Cristo nel pane e noi, per parte nostra, affermiamo che non è lecito sottrarlo al cielo. I lettori giudichino chi si esprime con maggior verità e sensatezza, purché sia esclusa questa calunniosa teoria secondo cui si elimina Gesù Cristo dalla Cena se non lo si rinchiude nel pane. Trattandosi di un mistero di natura celeste non è richiesto che Gesù Cristo venga trascinato quaggiù per essere congiunto a noi.
32. Del resto se qualcuno mi chiedesse come questo avvenga, non avrei il minimo scrupolo a confessare che si tratta di un segreto troppo eccelso perché il mio spirito lo possa afferrare e spiegare con parole, e sostanzialmente, ne avverto la realtà per esperienza, più di quanto sia in grado di formularla. Accetto perciò le promesse di Gesù Cristo senza fare lunghe discussioni. Egli dichiara che la sua carne rappresenta il nutrimento per l'anima mia e il suo sangue la bevanda; gli presento dunque l'anima mia affinché sia saziata di tale nutrimento. Egli ordina nella sua Santa Cena di prendere, di mangiare e bere il suo corpo e il suo sangue sotto i segni del pane e del vino, non ho il minimo dubbio che egli dia ciò che mi promette e che per parte mia io lo riceva. Respingo soltanto le assurdità e le folli speculazioni contrarie alla sua maestà o alla realtà della sua natura umana, speculazioni che si rivelano essere in contrasto con la parola di Dio.
La quale ci insegna che Gesù Cristo, essendo accolto nella gloria dei cieli, non si deve ricercare quaggiù (Lu 24.26) e attribuisce alla sua umanità tutto ciò che è proprio dell'uomo. Ora questo non ci deve stupire quasi fosse incredibile. Avendo il regno di Gesù Cristo una dimensione esclusivamente spirituale tutto ciò che egli attua nella sua Chiesa non deve essere riferito all'ordine naturale del mondo. E, parlando per bocca di sant'Agostino, affermo che questo mistero si compie per mezzo di uomini ma in modo divino, si amministra in terra, ma in modo celeste. Questa è la presenza corporale richiesta dal sacramento, presenza in cui riconosciamo essere e rivelarsi tanta efficacia e potenza da non recare alle anime nostre soltanto una fiducia indubitabile della vita eterna, ma altresì la certezza della immortalità della nostra carne che già risulta vivificata dalla carne immortale di Gesù Cristo e partecipa in qualche modo alla sua immortalità. Coloro che, con linguaggio eccessivo, oltrepassano queste dichiarazioni oscurano una verità che di per se è semplice ed evidente.
Se qualcuno si dovesse dichiarare insoddisfatto, consideri meco che siamo in presenza del sacramento la cui realtà intera è da riferirsi alla fede. Mediante quella partecipazione del corpo che abbiamo esposta non nutriamo la fede meno di quanto fanno coloro che pensano dover trarre Gesù Cristo dal cielo. Affermo chiaramente però di rifiutare quel miscuglio che hanno intenzione di fare tra carne di Gesù Cristo e la nostra anima quasi filtrassero attraverso un alambicco perché ci deve bastare il fatto che Gesù Cristo dà vita alle nostre anime con la sostanza della sua carne anche se questa vita deriva dalla sua carne senza che entri in noi.
Osserviamo altresì che la regola di fede a cui san Paolo ordina di riferire ogni interpretazione della Scrittura (Ro 12.3) , si applica perfettamente al caso nostro. Al contrario considerino a quale regola, o norme di fede, si vogliono attenere coloro che si oppongono a verità così manifeste. Poiché colui non è da Dio che non confessa Gesù Cristo essere venuto in carne (Gv. 3.4); e questa gente, malgrado i suoi cavilli, lo spoglia della realtà della sua carne.
33. Altrettanto si deve dire della comunione che costoro giudicano nulla se non ingurgitano la carne di Gesù Cristo sotto il pane. Si offende però gravemente lo Spirito Santo non volendo credere che la comunicazione al corpo e al sangue di Cristo avviene per sua azione incomprensibile. Se anzi il significato di questo mistero, quale lo insegniamo noi ed è stato accolto in modo particolare nella Chiesa antica, fosse stato rettamente inteso nella sua portata, nel corso degli ultimi quattrocento anni, ci si potrebbe dire soddisfatti e si sarebbe chiusa la porta a molte gravi e deplorevoli assurdità che hanno sconvolto la Chiesa sia nel nostro tempo che nel passato.
Il guaio deriva dal fatto che gente priva di cervello richiede una presenza massiccia, di cui non v'è traccia nella Scrittura, e inoltre combatte per mantenere quelle fantasticherie assurde e temerarie che ha escogitato e fa gran chiasso come se la religione dovesse perire qualora Gesù Cristo non fosse rinchiuso nel pane. Essenziale è conoscere come il corpo di Gesù Cristo, in quanto è stato offerto in sacrificio per noi, sia fatto nostro e come noi siamo resi partecipi del suo sangue che è sparso; poiché questo significa possederlo interamente per godere di tutti i suoi benefici. Ora quegli scellerati, lasciando da parte realtà di tanta importanza, anzi disprezzandole e quasi rifiutandole, prendono piacere soltanto nel dibattere questa questione: il corpo di Cristo è nascosto sotto il pane o sotto le specie del pane? Affermano falsamente che il concetto di manducazione spirituale del corpo di Gesù Cristo sia contraria alla "vera "o "reale "manducazione, per adoperare il termine loro, visto che il dissenso verte sulle modalità di tale manducazione, in quanto essi la fanno carnale, rinchiudendo Gesù Cristo sotto il pane, noi la definiamo spirituale affermando che è l'opera segreta dello Spirito Santo a costituire il vincolo della nostra comunione con il Salvatore nostro.
Non è vera neppure l'altra obiezione, secondo cui consideriamo unicamente i frutti, i benefici che i credenti ricevono dalla carne di Gesù Cristo. Poiché ho già detto sopra che Gesù Cristo stesso rappresenta la materia, la sostanza della Cena, donde procede la conseguenza che siamo assolti dai nostri peccati mediante il sacrificio della sua morte, siamo lavati dal sangue suo e in virtù della sua risurrezione siamo innalzati alla speranza della vita celeste. Ma le sciocche fantasie di cui li ha nutriti il loro Maestro delle Sentenze ha sconvolto il loro intendimento. Ecco quanto egli dice testualmente: "I sacramenti senza la realtà sono le specie del pane e del vino, il sacramento unito alla realtà sono la carne e il sangue di Cristo, la realtà senza il sacramento è la carne mistica "e ancora, poco dopo: "La realtà significata è contenuta nella carne di Gesù Cristo; la realtà significata e non contenuta è il suo corpo mistico ". Riguardo alla distinzione che egli opera tra la carne e il potere che ha di nutrire concordo con lui, ma giudico errore intollerabile la fantasticheria che essa sia il sacramento in quanto è inclusa sotto il pane. Di qui deriva il fatto che hanno falsamente interpretato il termine di manducazione sacramentale pensando che anche i malvagi, quantunque del tutto estranei a Gesù Cristo e lontani da lui, mangiano il suo corpo. Nel mistero della Cena la carne di Gesù Cristo è realtà spirituale, quanto la nostra salvezza eterna. Ne deduco perciò la conclusione che tutti coloro che sono privi dello Spirito di Cristo non possono mangiare la sua carne più di quanto si possa bere del vino senza avere il gusto. Gesù Cristo risulta discreditato in modo veramente grave quando gli si attribuisce un corpo morto e privo di forza da dare a parte agli increduli. E questo contrasta esplicitamente con le parole: "Chiunque mangerà la mia carne e berrà il mio sangue dimorerà in me e io in lui " (Gv. 6.56). Rispondono che questo testo non parla della manducazione sacramentale; lo ammetto, a condizione che non ci si vada sempre ad arenare sullo stesso scoglio: che si possa cioè mangiare la carne di Gesù Cristo senza frutto alcuno. Sarei curioso di sentire da loro quanto tempo lo conservano nello stomaco dopo averlo mangiato. Penso sarà loro piuttosto difficile trovare una risposta a questo quesito. Obiettano che la realtà delle promesse divine non può essere sminuita e tanto meno venir meno a causa dell'ingratitudine degli uomini; lo ammetto, anzi affermo che la efficacia di questo mistero permane nella sua pienezza anche quando i malvagi si sforzano, per quanto sta loro, di annullarlo. Una cosa però è il fatto che la carne di Gesù Cristo ci sia offerta, un'altra è il fatto che noi la riceviamo. Gesù Cristo offre a tutti questo cibo e questa bevanda spirituale, gli uni se ne nutrono con gran desiderio, gli altri la disdegnano, quasi disgustati. Il rifiuto di costoro farà perdere al cibo e alla bevanda la loro natura? Diranno che questo paragone sostiene la loro tesi: che la carne di Gesù Cristo, quantunque non abbia sapore e valore per gli increduli non cessa per questo di essere carne. Contesto però che la si possa mangiare senza qualche appetenza di fede; o, per esprimerci come sant'Agostino, nego che si possa ricavare dal sacramento se non quello che ci si attinge mediante la fede, come con un recipiente adatto. Nulla viene perso o sminuito nel sacramento, la sua verità e la sua efficacia permangono anche se gli increduli, pur partecipandovi se ne vanno vuoti e senza vantaggio.
I nostri avversari obietteranno che se gli increduli non ricevono altro che pane corruttibile, viene così negato valore a quelle parole: "Questo è il mio corpo "; la soluzione è facile: Dio non chiede che la sua veridicità sia garantita dal fatto che gli increduli ricevono ciò che egli dà loro ma dal carattere perenne della sua bontà che fa sì che egli si dimostri pronto a farli partecipi di ciò che rifiutano, malgrado la loro indegnità, anzi lo offre loro con liberalità. In questo è da vedersi la validità dei sacramenti che nessuno al mondo può annullare: la carne e il sangue sono dati ai reprobi in modo altrettanto reale che agli eletti di Dio e ai credenti. Come la pioggia cadendo su di una rupe vi scorre qua e là non trovando accesso in essa, così la loro incredulità respinge la grazia di Dio impedendole l'accesso. Anzi non è possibile che Gesù Cristo sia accolto, senza la fede, più di quanto è possibile che un seme possa germogliare nel fuoco.
Domandare in che modo Gesù Cristo sia risultato dannazione per parecchi, se non in quanto lo hanno ricevuto indegnamente significa cavillare senza intelligenza. Da nessuna parte si legge che gli uomini si procurino dannazione ricevendo Gesù Cristo indegnamente, bensì rifiutandolo. E nessun argomento possono ricavare dalla parabola dove Gesù Cristo dice che del seme germogliò fra le spine, e fu in seguito soffocato (Mt. 13.7). In questo caso egli parla invece del significato di quella fede, che i nostri avversari non pensano si debba richiedere per mangiare la carne di Gesù Cristo e bere il suo sangue, visto che, in questo caso, fanno Giuda compagno di san Pietro. Anzi il loro errore è chiaramente refutato in quella stessa parabola quando vien detto che una parte del seme cadde sulla strada e l'altra sulla roccia e né l'uno né l'altro misero radici (Mt. 13.4-5). Onde si deduce che l'incredulità rappresenta un ostacolo tale che Gesù Cristo non è in grado di raggiungere coloro che non hanno fede.
Chiunque desideri che la nostra salvezza sia accresciuta dalla santa Cena, non farà nulla di più idoneo che guidare i credenti alla fonte della vita che è Gesù Cristo per attingere da lui. La dignità della Cena è esaltata in modo adeguato quando la consideriamo ausilio e strumento per incorporarci in Gesù Cristo ovvero, essendo incorporati in lui, per fortificarci in tal comunione finché egli ci unisca a se in modo perfetto nella vita eterna.
Quando sollevano l'obiezione che, se gli increduli non partecipassero al corpo ed al sangue di Gesù Cristo, san Paolo non dovrebbe considerarli colpevoli (1 Co. 11.29) , risponderò che non sono condannati in quanto hanno bevuto e mangiato il pane e il vino, ma in quanto hanno profanato il mistero, calpestando il pegno della unione sacra, che abbiamo con Gesù Cristo, che meritava di essere celebrato con ogni rispetto.
34. Dato che sant'Agostino è stato il più autorevole fra gli antichi dottori a sostenere la tesi che il sacramento non perde nulla della sua efficacia e che la grazia in esso raffigurata non vien meno a motivo della infedeltà o della malvagità degli uomini, è necessario dimostrare chiaramente, ricorrendo alle sue stesse parole, che la sua testimonianza è utilizzata in modo assolutamente superficiale da parte di coloro che vogliono dare da mangiare il corpo di Gesù Cristo ai cani.
La manducazione sacramentale, se si vuol prestare fede al loro discorso, consiste nel fatto che gli increduli ricevono il corpo e il sangue di Gesù Cristo senza l'efficacia del suo Spirito e senza effetto della sua grazia. Sant'Agostino, al contrario, esaminando attentamente le parole: "Chi avrà mangiato la mia carne e bevuto il mio sangue non morrà mai ", ne dà la spiegazione seguente: Considera la forza del sacramento e non il sacramento visibile in se, anzi il suo aspetto interiore e non esteriore e il fatto che lo si mangi Cl. Cuore e non con il ventre. Conclude perciò che il sacramento della unione che abbiamo Cl. Corpo e il sangue di Gesù Cristo è nella cena offerto per gli uni a vita, a dannazione per gli altri; ma la realtà significata non può essere che data a vita a tutti coloro che ne sono resi partecipi. Se i nostri avversari vogliono trovar cavilli affermando che quel termine: realtà significata non si riferisce al corpo ma alla grazia che non è sempre congiunta ad esso, questo sotterfugio cade con i termini: visibile-invisibile. Poiché, malgrado il dispetto che ne hanno, sono costretti a confessare che il corpo di Gesù Cristo non può esser detto visibile; ne consegue che gli increduli non partecipano che a segni esteriori.
Per chiarire ogni difficoltà dopo aver detto che questo pane richiede una appetenza dell'uomo interiore, Agostino aggiunge che Mosè e Aronne e Fineas e molti altri che hanno mangiato la manna sono stati graditi a Dio. Perché? In quanto prendevano spiritualmente l'alimento visibile, lo desideravano spiritualmente, lo gustavano spiritualmente per esserne spiritualmente saziati. Noi pure abbiamo ricevuto oggi l'alimento visibile, ma una cosa è il sacramento, altro è la sua efficacia. Poco dopo aggiunge: "Colui, pertanto, che non dimora in Cristo, e in cui Cristo non dimora, non mangia la sua carne spiritualmente e non beve il suo sangue quand'anche carnalmente e visibilmente mastichi i segni del corpo e del sangue ". Vediamo che ancora una volta egli contrappone il segno visibile alla manducazione spirituale. Risulta dunque pienamente smascherato l'errore secondo cui il corpo di Gesù Cristo, essendo invisibile, è mangiato realmente e in modo assoluto anche se non spiritualmente. Constatiamo altresì che agli increduli e ai profani non lascia altro che la recezione del segno visibile. Di qui la sua affermazione, abbastanza evidente: i discepoli hanno mangiato il pane che era Gesù Cristo, Giuda ha mangiato soltanto il pane di Gesù Cristo. Egli esclude in questo modo gli increduli dal partecipare al corpo e al sangue. Lo stesso intendimento ha quell'altra dichiarazione: "Perché ti stupisci che sia stato dato a Giuda il pane del Signore mediante cui fu reso schiavo del Diavolo, quando vedi, all'opposto, che l'angelo del Diavolo è stato dato a Paolo per renderlo perfetto in Gesù Cristo? ".
È bensì vero che in un altro testo afferma che il pane della Cena non ha cessato di essere il corpo di Cristo per coloro che lo mangiavano indegnamente a loro condanna, e quando lo hanno preso indegnamente questo non significa che non abbiano preso nulla. In un altro testo però chiarisce il suo pensiero; dichiarando esplicitamente che i cattivi e i dissoluti, che con la bocca fanno professione di fede cristiana e la rinnegano nella vita, mangiano il corpo di Gesù Cristo, e polemizzando contro l'opinione di alcuni che pensavano che non solo ricevessero il sacramento ma anche il corpo, dice: "Non bisogna pensare che costoro mangino il corpo di Cristo, non devono infatti essere inclusi fra le membra di Cristo, poiché, pur tralasciando molti altri motivi, questo rimane chiaro che non possono esser membra di Cristo e membra di una prostituta ". Inoltre il Signore dicendo: "chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me è io in lui " (Gv. 6.26) , dimostra che cosa significa mangiare il suo corpo in realtà e non solo nel sacramento: significa dimorare in Cristo affinché dimori in noi. Come dicesse: "colui che non dimora in me e in cui non dimoro, non pensi e non creda di mangiare la mia carne e di bere il mio sangue ". I lettori meditino attentamente queste parole in cui egli contrappone mangiare il sacramento e mangiare in verità e non avranno più dubbi o punti oscuri.
Riafferma ancor più chiaramente questo pensiero dicendo: "Non preparate il vostro stomaco ma il cuore, poiché per lui è apprestata la Cena. Ecco noi crediamo in Gesù Cristo e lo riceviamo per fede, conosciamo il nostro pensiero nel riceverlo: ecco prendiamo un pezzettino di pane e siamo saziati nel cuore. Perché quello che sazia non è ciò che si vede ma ciò che si crede ". Anche in questo testo, come sopra, egli limita al segno visibile ciò che gli increduli ricevono e dichiara che Gesù Cristo non può essere ricevuto per fede; altrettanto afferma altrove: Tanto i buoni che i malvagi hanno comunione ai segni ed esclude gli increduli dalla vera manducazione della Cena di Gesù Cristo. Il che non avrebbe fatto se avesse avuto l'ottusa mentalità che i nostri avversari gli vogliono attribuire. In un altro testo, parlando della
Manducazione e del frutto di essa conclude: "Il corpo e il sangue di Gesù Cristo sono vita per ognuno se, quanto si prende visibilmente, viene spiritualmente mangiato e bevuto ". Coloro perciò che vorrebbero far si che gli increduli siano partecipi del sangue e della carne di Gesù Cristo ci mostrino, per essere d'accordo con sant'Agostino, il corpo di Cristo visibile, poiché egli dichiara che tutta la verità del sacramento è spirituale. È facile ricavare dalle sue parole che la manducazione sacramentale non comporta altro che il mangiare visibile ed esteriore del segno quando la incredulità escluda la partecipazione alla sostanza. E in realtà se si potesse mangiare il corpo di Gesù Cristo realmente, senza mangiarlo spiritualmente, che ne sarebbe di questo detto del medesimo dottore: "Non mangerete affatto il corpo che vedrete né berrete il sangue che spargeranno coloro che mi crocifiggeranno. Vi ho dato un sacramento che vi vivificherà quando sia spiritualmente inteso? ". Non ha certo voluto negare che il medesimo corpo offerto da Gesù Cristo in sacrificio sia anche quello che ci è dato nella Cena, ma ha indicato le modalità di questa partecipazione: è che il corpo ci dia vita per virtù segreta dello Spirito Santo pur essendo nella gloria celeste. Ammetto certo che quel saggio dottore dice, a volte, che il corpo di Gesù Cristo è preso anche dagli increduli ma lo spiega dicendo che è in modo sacramentale; e dichiara in seguito che si può parlare di manducazione spirituale quando non si mangiala grazia di Dio con i nostri morsi. Affinché gli avversari non dicano che voglio vincere la causa facendo cumulo di citazioni, vorrei sapere come si tirano d'impaccio quando egli dice che i sacramenti non danno e non recano ciò che raffigurano se non ai soli eletti. Non vorranno negare che il pane della Cena sia figura del corpo di Cristo, ne consegue che i reprobi sono esclusi dalla partecipazione ad esso.
Si può citare anche una parola di Cirillo a dimostrare che, al riguardo, egli non ha avuto un pensiero diverso: "Se in una cera fusa si getta dell'altra cera entrambe si confondono. Così è inevitabile che se alcuno riceve la carne e il sangue del Signore sia con lui congiunto, affinché sia trovato essere in Cristo e Gesù Cristo in lui ".
Penso aver sufficientemente chiarito il fatto che coloro che non ricevono il corpo di Gesù Cristo sacramentalmente sono esclusi da un'autentica manducazione, in quanto l'essenza del corpo non si può scindere dalla sua forza e, d'altra parte, la verità delle promesse di Dio non viene sminuita per questo, visto che egli non interrompe la pioggia dal cielo anche se i sassi e le rupi non assimilano alcuna umidità.
35. Quando siano chiari questi concetti saremo facilmente distolti da quella adorazione carnale di cui alcuni, in modo temerario e perverso, hanno fatto oggetto il sacramento, in base a un ragionamento di questo tipo: se il corpo è presente, di conseguenza e l'anima e la divinità sono anch'esse presenti Cl. Corpo, perché non posson più esser separati o scissi. Dunque Gesù Cristo deve essere adorato in questa forma.
Se in primo luogo è negata questa deduzione, che essi chiamano "concomitanza ", che faranno? Quand'anche affermino che è assurdo separare l'anima e la divinità dal corpo pure non sono in grado di convincere nessuna persona di buon senso del fatto che il corpo di Gesù Cristo sia Gesù Cristo stesso. Anche se questo sembra derivare dalla loro argomentazione. Ma poiché Gesù Cristo parla distintamente del suo corpo e del suo sangue senza specificare le modalità della presenza, che conclusioni potranno ricavare da una cosa dubbia? Certo quando la loro coscienza sarà turbata da una qualche forte tentazione molto facilmente risulteranno confusi, stupiti, smarriti con i loro sillogismi, vedendosi sprovvisti della garanzia della parola di Dio che sola può rendere stabile le nostre anime, quando sono chiamate a rendere ragione, e senza la quale inciampano e precipitano in ogni circostanza, constatando che l'insegnamento e gli esempi degli apostoli sono loro contrari, e scoprendosi soli artefici delle loro fantasie.
A questi interrogativi faranno seguito parecchi altri rimorsi di coscienza e altri dubbi. E che? È forse cosa senza importanza adorare Dio in quella forma senza che ce ne avesse dato l'ordine? Si poteva, trattandosi del servizio e della gloria di Dio, attuare con tanta leggerezza una cosa di cui non ci era fatta parola? Se gli inventori di queste argomentazioni avessero, con l'umiltà che si addice, mantenute le fantasticherie dei loro sensi nei limiti della parola di Dio, avrebbero prestato attenzione alle parole: "Prendete, mangiate, bevete "e avrebbero obbedito al comandamento con cui ci viene ordinato di prendere e non di adorare il sacramento. Coloro perciò che lo prendono senza adorarlo, come è stato ordinato dal Signore, sono certi di non allontanarsi dal comandamento di Dio. Questa certezza è la migliore consolazione che ci possa essere data quando prendiamo qualche iniziativa. C'è l'esempio degli apostoli, che non hanno, a quanto ci risulta, adorato il sacramento in ginocchio, ma che l'hanno preso e mangiato standosene seduti. C'è l'uso della Chiesa apostolica che, secondo quanto narra san Luca, ha avuto comunione non nell'adorazione, ma nel rompere il pane (At. 2.42). C'è la dottrina apostolica, con cui san Paolo istruisce la Chiesa dei Corinzi, dopo aver dichiarato di aver ricevuto dal Signore ciò che egli insegna (1 Co. 11.23).
36. Tutto questo deve rendere i cristiani attenti al pericolo di svolazzare, seguendo le loro fantasie, oltre i limiti della parola di Dio, trattandosi di realtà così elevate e di tanta importanza. Quanto è stato sin qui esaminato ci deve liberare da ogni dubbio poiché abbiamo mostrato che il credente, per ricevere Gesù Cristo nella Cena, deve innalzare la sua anima e il suo spirito al cielo. E in realtà se la funzione del sacramento è di aiutare l'intendimento dell'uomo, altrimenti infermo, affinché possa innalzarsi per giungere all'altezza dei misteri celesti, coloro che si baloccano con i segni smarriscono la retta via per veramente cercare Gesù Cristo.
Chi oserà negare, dunque, che sia pessima superstizione l'inginocchiarsi davanti al pane per adorare quivi Gesù Cristo? Non c'è dubbio che il concilio di Nicea abbia voluto ovviare a questo inconveniente quando proibì ai credenti di fissare la propria attenzione sui segni visibili . Per questa ragione è stata istituita nella Chiesa antica la prassi che il diacono, prima della consacrazione, gridasse a voce alta e chiara al popolo di volgere l'animo in alto. E la Scrittura stessa non solo ci narra con chiarezza l'Ascensione di Gesù Cristo ma quando fa menzione di lui ci esorta ad innalzare i cuori per sottrarci ad ogni pensiero carnale (Cl. 3.1). Seguendo dunque questa norma, bisognava adorare piuttosto spiritualmente nella gloria dei cieli anziché inventare questa pericolosa forma di adorazione, frutto di una concezione grossolana e carnale di Dio e di Gesù Cristo.
Coloro che hanno introdotto l'adorazione del sacramento non l'hanno solo ricavata dalla loro fantasia, procedendo oltre la Scrittura, in cui non se ne fa menzione, e dove non avrebbe certo mancato di essere menzionata se fosse stata gradita a Dio, ma anzi l'hanno fatto in esplicita opposizione alla Scrittura figurandosi un nuovo Dio secondo i propri gusti, abbandonando il Dio vivente. Se non è idolatria questo adorare i doni anziché il donatore che cosa, nel mondo, si deve dire idolatria? Così facendo hanno commesso un duplice errore: l'amore è stato sottratto a Dio per essere trasferito alle creature; e Dio stesso è stato disonorato per il fatto che si è profanato il suo dono e i suoi benefici quando si è fatto del suo sacramento un idolo abominevole.
Noi, al contrario, per non cadere in questo trabocchetto radichiamo in modo assoluto e le nostre orecchie e i nostri occhi, i nostri cuori e i nostri pensieri, e la nostra lingua nel santissimo insegnamento di Dio. Poiché si tratta della scuola dello Spirito Santo, insegnante eccellente, da cui si impara tanto che non è necessario aggiungere nulla da altra fonte e si può tranquillamente ignorare ciò che in essa non viene insegnato.
37. Dato che la superstizione, quando ha oltrepassato una volta certi limiti, non ha fine, ci si è smarriti in un modo ancora più grave. Si sono inventate cerimonie, usi, che non concordavano affatto con l'istituzione della Cena al solo scopo di onorare il segno come Dio stesso. Quando muoviamo il rimprovero ai nostri avversari per questo fatto, rispondono che tali onori sono recati a Gesù Cristo.
In primo luogo se questo venisse fatto nel contesto della celebrazione della Cena potrei obiettare che la vera adorazione non deve essere rivolta al segno ma a Gesù Cristo in cielo. Dato però che fanno queste loro sciocchezze fuori della Cena, non hanno la scusa di dire che onorano Gesù Cristo nel pane visto che non hanno alcuna promessa. Consacrano la loro ostia per portarla in processione, mostrarla in grande pompa, tenerla appesa nel ciborio, affinché sia adorata ed invocata. Chiedo loro in base a che potere la pensano consacrata? Ci risponderanno: in base alle parole: "Questo è il mio corpo ". Replico, ed ho le ragioni valide per farlo, che nello stesso testo è detto: "Prendete e mangiate ". Essendo la promessa congiunta con il comandamento dico che è inclusa in esso al punto che viene annullata quando ne sia separata. Questo risulterà più chiaro con un esempio. Nostro Signore ci ha dato un comandamento dicendo: "Invocami "; aggiungendo immediatamente però la promessa: "ti esaudirò " (Sl. 50.15). Se qualcuno, invocando san Pietro o san Paolo, intendesse prevalersi di questa promessa chi non lo giudicherebbe pazzo e fuori di sé? Ora vi domando, fanno forse qualcosa di diverso quelli che scindono, nella Cena, la promessa: ecco il mio corpo, dal comandamento che vi è unito facendone un uso del tutto estraneo alla istituzione di Cristo? Ci si ricordi dunque che tale promessa concerne coloro che osservano l'ordine di Gesù Cristo; al contrario coloro che si servono del comandamento per altro scopo sono del tutto privi dell'appoggio della parola di Dio.
Abbiamo sin qui esaminato in che modo questo sacramento giovi alla nostra fede davanti a Dio. Nostro Signore non ha solo voluto ricordarci la grandezza della sua bontà, ma ce la offre, come abbiamo detto poco sopra, visibilmente, e ci invita a riconoscerla,
Ci ammonisce parimenti a non dimostrarci ingrati verso questa benignità che egli manifesta, ma anzi a magnificarla con la lode che si conviene e celebrarla con azioni di grazia.
Nell'istituire questo sacramento per i suoi apostoli, ordinò loro di ripeterlo in memoria sua (Lu 22.19). Ordine che san Paolo interpreta con le parole: "Annunziare la morte del Signore " (1 Co. 11.20: ciò significa, pubblicamente e uniti ad una voce, confessare in modo esplicito la vita e la salvezza essere nella morte del Signore, per glorificarlo mediante la nostra confessione ed esortare altri, Cl. Nostro esempio, a tributargli una medesima gloria. Riscontriamo nuovamente a questo punto lo scopo del sacramento: mantenerci nel ricordo della morte di Gesù Cristo. L'ordine di annunziare la morte del Signore finché venga al giudizio significa questo: dichiarare con esplicita confessione ciò che la nostra fede ha riconosciuto nel sacramento, che cioè la morte di Gesù Cristo è la nostra vita. In questo consiste la seconda funzione di questo sacramento: costituire una confessione esplicita di fede.
38. In terzo luogo nostro Signore ha voluto che il sacramento fosse per noi un incitamento, superiore ad ogni altro, per infiammarci e incitarci alla carità, alla pace, all'unione. Poiché nostro Signore ci rende in tal modo partecipi del suo corpo, in modo assoluto, sì da essere fatto uno con noi e da farci uno con se. Non avendo Cristo che un corpo solo, di cui tutti siamo resi partecipi, ne consegue necessariamente che mediante tale partecipazione siamo resi un corpo solo, una unità rappresentata dal pane che ci è offerto nel sacramento. Come il pane è composto da molti chicchi di grano così mischiati e confusi insieme da non potersi più distinguere o separare l'uno dall'altro, nello stesso modo dobbiamo essere congiunti insieme e uniti fra noi mediante una volontà concorde, al punto da non lasciar sussistere divisione o contrasto alcuno. Preferisco illustrare questo concetto con le parole di san Paolo: "Il calice della benedizione "egli dice "che noi benediciamo è la comunione Cl. Sangue di Cristo; il pane della benedizione che noi rompiamo è la comunione Cl. Corpo di Cristo. Noi dunque che siamo molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo tutti a quell'unico pane", (1 Co. 10.16-17). Grande profitto trarremo dal sacramento se avremo impresso e inciso nei nostri cuori questo convincimento: che cioè nessuno dei fratelli può essere disprezzato, respinto, ferito o offeso in alcun modo da noi senza che contemporaneamente si ferisca, disprezzi, offenda in lui Gesù Cristo e gli si faccia violenza con le nostre ingiurie; non possiamo avere dissapori o divisioni con i nostri fratelli senza essere in disaccordo e divisi da Gesù Cristo; Gesù Cristo non può essere amato da noi senza essere amato nei nostri fratelli; dobbiamo avere per i nostri fratelli, che sono membra del nostro corpo, la sollecitudine e le cure che abbiamo per il nostro corpo stesso. Come una parte del corpo non può soffrire alcun dolore senza che la sensazione si diffonda in tutte le altre, così non possiamo sopportare che i nostri fratelli siamo afflitti da qualche male senza assumerne la nostra parte con spirito di compassione.
Non senza ragione Agostino ha così spesso chiamato questo sacramento: vincolo di carità. Quale pungolo risulterebbe più pungente e acuto, per incitarci ad avere fra noi mutua carità, del pensiero che Gesù Cristo, nel darsi a noi, non solo ci invita a questo dono e a questa dedizione reciproca illustrandola Cl. Suo esempio, ma nel farsi comune a tutti ci fa realmente essere tutti uno in lui?
39. Da ciò risulta molto chiaramente quanto ho già detto sopra, che cioè l'amministrazione autentica dei sacramenti consiste nella Parola. I doni infatti che ci derivano dalla Cena implicano la presenza della Parola. Si tratta di confermarci nella fede, di esercitarci nella professione del nostro cristianesimo, di esortarci ad una vita santa? Occorre che la Parola sia presente.
Cosa più che perversa dunque il trasformare la Cena in un rito muto e senza predicazione come è accaduto sotto la tirannia del Papa. Hanno preteso che la consacrazione dipendesse unicamente dall'intenzione del sacerdote, quasi non concernesse affatto il popolo a cui il mistero doveva essere presentato. Questo errore è stato causato dal fatto che si sono considerate le promesse, da cui dipende la consacrazione, non riferirsi ai segni ma a coloro che li ricevono. Gesù Cristo non si rivolge al pane, ordinandogli di diventare suo corpo, ma ordina ai suoi discepoli di mangiare e promette loro che questa sarà testimonianza della Comunione Cl. Suo corpo. E san Paolo ordina soltanto di offrire e annunziare ai fedeli le promesse, dando loro il calice e il pane. Ed in realtà deve essere così. Non siamo infatti in presenza di incantesimi o pratiche magiche quasi bastasse mormorare qualche parola su oggetti insensibili, ma bisogna comprendere che la Parola mediante cui i sacramenti sono consacrati è predicazione vivente che edifica coloro che la ascoltano, che penetra nel loro intendimento, si imprime nei cuori e reca la sua efficacia compiendo ciò che promette.
Ne deriva che è prassi sciocca e inutile conservare il sacramento per amministrarlo in forma straordinaria agli ammalati. Infatti ovvero lo ricevono senza che si dica loro parola, ovvero il ministro, nell'amministrarlo, ne illustra il significato e l'uso. Se non si dice nulla siamo in presenza di un gesto abusivo e privo di senso. Se ha luogo una spiegazione del mistero, affinché coloro che lo debbono ricevere lo ricevano per edificazione e con frutto, in questo annunzio consiste la vera consacrazione. Come potrà dunque considerarsi sacramento il pane consacrato in assenza di coloro ai quali deve essere distribuito, visto che questo non reca loro giovamento alcuno? Mi si dirà che questa prassi viene seguita ad imitazione della Chiesa antica. Lo ammetto. Ma in cose suscettibili di avere così gravi conseguenze non c'è provvedimento migliore e più sicuro che quello di seguire la verità pura, visto che non è possibile commettere errori senza che sorgano gravi pericoli.
40. Constatiamo però che il sacro pane della Cena di nostro Signore nutrimento spirituale dolce e saporito e utile ai veri servitori di Dio, in quanto fa loro riconoscere Gesù Cristo quale evita loro, li induce ad azioni di grazia, li esorta a reciproca carità si muta, al contrario, in veleno mortale per coloro di cui non edifica, nutre e conforta la fede e che non incita a confessione di lode e a carità. Come un alimento corporale, quando trovi uno stomaco maldisposto si guasta e finisce Cl. Nuocere più che Cl. Giovare, così questo nutrimento spirituale, quando sia dato ad un'anima macchiata di malizia e di perversità, le causa maggior danno, non per sua colpa, ma perché non vi è nulla di puro per coloro che sono contaminati da infedeltà (Tt 1.15) , quand'anche sia santificato dalla benedizione di Dio. Come dice san Paolo: "Coloro che mangiano indegnamente sono colpevoli verso il corpo ed il sangue del Signore, e mangiano e bevono il loro giudizio e la loro condanna perché non discernono il corpo del Signore" (1 Co. 11.29). Questa gente infatti che, senza un briciolo di fede o un minimo sentimento di carità, si precipita, come i porci, a prendere la Cena del Signore non discerne affatto il corpo del Signore stesso. Non credendo che egli rappresenti la loro vita lo disonorano, per quanto è loro possibile, spogliandolo di tutta la sua dignità e lo profanano e insozzano ricevendolo in questo modo. Essendo in disaccordo e in lotta con i loro fratelli osano macchiare il sacro segno del corpo di Gesù Cristo con i loro litigi e i loro dissensi e non importa loro che il corpo di Gesù Cristo sia diviso e strappato membro a membro. A ragione perciò si dovranno considerare colpevoli verso il corpo e il sangue del Signore che insozzano così gravemente, con orribile empietà. Con una manducazione indegna prendono dunque la propria condanna. Pur non avendo alcuna fede fondata in Gesù Cristo, nel prendere il sacramento, dichiarano tuttavia non aver salvezza che in lui e voler rinunciare ad ogni altra fiducia. Si accusano perciò da se e testimoniano contro se stessi firmando la loro condanna. Essendo inoltre, a causa dei loro odi e del loro malvolere, divisi e lontani dai loro fratelli, dai membri di Gesù Cristo cioè, non hanno parte alcuna con Gesù Cristo. Attestano tuttavia che la sola salvezza consiste in questo: aver comunione con Gesù Cristo ed essere uniti a lui.
Per questa ragione san Paolo ordina che ognuno provi se stesso prima di mangiare quel pane e di bere quel calice. Se interpreto bene, egli ha con questo inteso chiedere ad ognuno di riflettere e di esaminare se stesso, per vedere se riconosce sinceramente Gesù Cristo essere suo salvatore ed è pronto a dichiarare questo fatto con una confessione esplicita, se è disposto, secondo l'esempio di Gesù Cristo, ad offrire se stesso per i suoi fratelli e per coloro con cui constata avere in comune Gesù Cristo. Se considera tutti i suoi fratelli membra del corpo di Cristo nella stessa misura in cui lo confessa, lui è pronto ad alleviarli, preservarli, aiutarli come sue membra. Non che questi doveri di fede e di carità possano essere perfetti già ora, ma in quanto rappresentano la meta del nostro sforzo e del nostro ardente desiderio affinché la nostra fede iniziata si accresca di giorno in giorno e la nostra carità, ancor debole, si fortifichi.
41. In linea generale però si deve constatare che volendo preparare gli uomini a prendere degnamente il sacramento si sono turbate e tormentate crudelmente le povere coscienze senza insegnare nulla di ciò che era necessario.
Hanno preteso che soltanto coloro che sono in stato di grazia mangiano degnamente il sacramento, interpretando questo stato di grazia come un essere purgato e puro da ogni peccato. In base a questa dottrina tutti gli uomini che sono stati e sono in terra si devono considerare esclusi da quel sacramento perché se dobbiamo cercare la nostra dignità in noi stessi siamo perduti. Non possiamo trovare altro che rovine, distruzione, confusione; e con tutti i nostri sforzi otterremo come unico risultato di ritrovarci più indegni proprio quando avremo impiegato ogni nostra fatica a procurarci una qualche dignità.
Per porre rimedio a questo difetto hanno inventato un mezzo per acquistare dignità: avendo dovutamente esaminato le nostre coscienze, rimediamo alla nostra indegnità mediante costrizione, confessione, e soddisfazione. Abbiamo più sopra visto quali siano le modalità di questa purificazione, quando fu necessario trattare l'argomento. Per quanto concerne il presente problema affermo che quei rimedi e quei palliativi risultano superficiali e inefficaci per coscienze turbate, prostrate, afflitte e atterrite dal proprio peccato. Se nostro Signore, infatti, non accoglie alla partecipazione della sua Cena se non uomini giusti e innocenti, si richiede eccezionale sicurezza per dare a qualcuno la garanzia di possedere questa giustizia che sappiamo richiesta da Dio. Chi potrà dare a quelli che hanno fatto quanto sta in loro la conferma che realmente si siano sdebitati verso Dio? E quand'anche questo fosse possibile chi oserà pretendere aver fatto quanto sta in lui di fare? Non essendoci, così, fornita alcuna certezza riguardo alla nostra dignità la partecipazione al sacramento risulterà sempre preclusa da quella terribile minaccia che coloro che mangiano e bevono indegnamente il sacramento, mangiano e bevono il proprio giudizio.
42. Risulta ora facile giudicare qual sia la natura e da chi provenga questa dottrina che domina nel papismo: privare con crudele rigore i miseri peccatori, già mezzi morti, e spogliarli della consolazione di questo sacramento in cui ci sono invece offerte tutte le consolazioni dell'evangelo. Il Diavolo non avrebbe certamente potuto inventare sistema più rapido per condurre gli uomini a perdizione che ridurli così imbestialiti e delusi affinché non trovino gusto né piacere a quel nutrimento con cui il Padre celeste voleva invece saziarli. Ad evitare di cadere in questa confusione e in questo baratro, prendiamo coscienza del fatto che questi santi alimenti sono medicina per i malati, consolazione per i peccatori, elemosina per i poveri e invece non sarebbero di giovamento alcuno a uomini savi, giusti, ricchi qualora se ne potesser trovare qualcuno. Essendoci in essi Gesù Cristo dato quale cibo comprendiamo che senza di lui verremmo meno e precipiteremmo nell'inedia come il corpo si indebolisce per mancanza di nutrimento. Anzi, essendoci dato come alimento vitale noi comprendiamo bene che, senza di lui, siamo assolutamente morti in noi stessi. L'unica e la più adeguata dignità che ci è possibile recare a Dio consiste perciò in questo: offrire la nostra miseria e la nostra indegnità affinché, in virtù della sua misericordia ci renda degni di se, esser confusi in noi stessi per esser da lui consolati, essere umiliati in noi stessi per essere esaltati da lui, accusarci per essere in lui giustificati, essere morti in noi stessi per essere in lui vivificati. Inoltre che desideriamo e ricerchiamo questa unità, che ci è raccomandata nella sua Cena. Come ci fa essere tutti uno in lui, così desideriamo che esista fra tutti noi uno stesso volere, uno stesso cuore, una stessa lingua.
Quando avremo attentamente meditato e considerato queste cose non ci turberanno, né ci prostreranno, questi interrogativi: come potremmo noi, uomini sprovvisti e spogli di ogni bene, macchiati e corrotti da colpe e da peccati, semi morti, mangiare degnamente il corpo del Signore? Anzi ci renderemo conto che veniamo, miseri, ad un benigno donatore, malati al medico, peccatori alla fonte della giustizia e poveri morti a colui che vivifica, e la dignità richiesta da Dio consiste in primo luogo ed essenzialmente nella fede che attribuisce ogni cosa a Cristo e si affida interamente a lui senza riporre nulla in noi stessi; infine nella carità che presenteremo a Dio imperfetta affinché egli l'accresca visto che non la si può offrire in forma perfetta.
Alcuni, pur concordando con noi nel fatto che la dignità consiste nella fede e nella carità, hanno tuttavia grandemente errato circa la misura di tale dignità richiedendo una perfezione di fede a cui nulla si possa aggiungere e una carità eguale a quella che nostro Signore Gesù Cristo ha avuto per noi. Così facendo respingono e allontanano però, da questa santa Cena, tutti gli uomini non meno di quanto facciano coloro di cui abbiamo parlato sopra. Se infatti la loro opinione dovesse essere accolta nessuno prenderebbe la santa Cena, se non indegnamente, perché tutti, fino all'ultimo dovrebbero essere ritenuti colpevoli e convinti della loro imperfezione. È certo segno di estrema ignoranza, per non dire di bestialità, il richiedere in vista del sacramento questa perfezione che lo renderebbe vano e superfluo; infatti non per i perfetti è stato istituito, ma per i deboli; per stimolare, risvegliare, incitare, ed esercitare la loro fede e la loro carità e correggerne le lacune.
43. Per quanto concerne il rito esteriore, i fedeli prendano in mano il pane o non lo prendano, lo spartiscano fra loro o ognuno mangi quello che gli viene dato, restituiscano il calice nelle mani del ministro o lo offrano al vicino, il pane sia fatto con lievito o senza, il vino sia rosso o bianco, si tratta di cose senza nessuna importanza, indifferenti e lasciate alla discrezione della Chiesa. Quantunque sia nota la prassi della Chiesa antica che tutti prendevano in mano il pane e Gesù Cristo abbia detto: "Distribuitelo fra voi ", (Lu 22.17).
Risulta dalla storia che nei tempi anteriori ad Alessandro vescovo di Roma si adoperava, nella Cena, del pane lievitato, identico al pane comune. Questo Alessandro si mise in testa, per primo, di adoperare pane senza lievito. Non vedo affatto quale ne fosse la ragione se non il desiderio di stupire, con un gesto insolito, il popolino anziché istruire il suo cuore nella vera religione.
Tutti coloro che sono mossi da un qualche (sia pur minimo ) sentimento di pietà considerino quanto la gloria di Dio risplenda più chiaramente in quell'uso del sacramento e quanto maggiore sia la dolcezza e la consolazione spirituale che ne deriva ai credenti, se lo paragoniamo a quei giochi di prestigio sciocchi e vani la cui utilità consiste unicamente nell'ingannare l'intelligenza del popolo che ne prova spavento e stupore. Mantenere il popolo nella religione, nel timor di Dio, significa per loro che la gente, intontita e rimbecillita dalla superstizione sia condotta, anzi trascinata dove vogliono loro. Qualcuno pensa giustificare queste invenzioni con l'argomento dell'antichità? Conosciamo l'antichità di riti quali la cresima e il soffio battesimale; sappiamo come la Cena di nostro Signore sia stata, poco dopo l'età apostolica, alterata da invenzioni umane, e questo è accaduto a causa della leggerezza e della follia, unite alla temerarietà dello spirito umano, che non si può trattenere dal farsi beffe dei misteri di Dio. Noi, al contrario, ci ricordiamo che Dio valuta a tal punto l'obbedienza alla sua parola da volere che in base ad essa noi giudichiamo i suoi angeli e il mondo.
Lasciando da parte questa congerie di riti e di cerimonie si può amministrare adeguatamente la santa Cena presentandola spesso, almeno una volta alla settimana, alla Chiesa nel mondo seguente: Iniziare anzitutto con una preghiera pubblica e la predicazione, in seguito il ministro, essendo posti sul tavolo il pane ed il vino, legga l'istituzione della Cena, dichiarando in seguito le promesse che sono contenute in essa, unitamente alla scomunica a coloro che ne fossero esclusi per divieto di nostro Signore; si reati in seguito una preghiera chiedendo a nostro Signore di volere, con la stessa benignità con cui ci ha elargito questo sacro cibo, ammaestrarci e disporci a riceverlo con fede e gratitudine, e farci, per sua misericordia, degni di partecipare a quel pasto pur non essendone degni da noi stessi. A questo punto si cantino i salmi o si legga qualche testo della Scrittura e ordinatamente, come si conviene, i fedeli ricevano questi sacri cibi, i ministri spezzando e distribuendo il pane e presentando il calice. La Cena ultimata, si esortino i fedeli alla fede, alla fermezza nella confessione, alla carità e a condurre una vita cristiana. Infine siano rese grazie e si cantino lodi a Dio. Ultimato il tutto, l'assemblea sia sciolta con la benedizione.
44. Quanto abbiamo sin qui esposto riguardo a questo sacramento mostra chiaramente che non è stato istituito per esser preso una volta all'anno e per tradizione, come è ora prassi generale, ma frequentemente, per rammentare sovente ai credenti la passione di Gesù Cristo, affinché questo ricordo sostenga e confermi la loro fede, ed essi siano incitati ed esortati a confessare, e lodare il Signore e magnificare la sua bontà; e questo ricordo infine mantenga e alimenti fra loro reciproca carità e affinché se ne facciano reciproco attestato riscontrando il suo legame con il corpo di Gesù Cristo. Ogni qual volta abbiamo comunione con i segni del corpo del Signore ci impegniamo l'un l'altro, quasi contrattualmente, ad avere un atteggiamento di carità attiva, a non far nulla che possa offendere il fratello, a non omettere nulla di ciò che gli possa recare aiuto e soccorso ogni volta che lo richiede la necessità e se ne presenta l'occasione.
San Luca attesta, negli Atti, che tale fu l'uso della Chiesa apostolica quando dice che i credenti erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, cioè nelle elemosine, nel rompere il pane e nelle preghiere (At. 2.42). Si dovrebbe così vigilare a che nessuna assemblea di credenti avvenga senza la Parola, le elemosine, la partecipazione alla Cena o la preghiera. In base agli scritti di Paolo si può legittimamente congetturare che questo ordine era istituito nella Chiesa di Corinto e notoriamente è stato in uso ancora per lungo tempo. Da qui prendono origine quegli antichi canoni attribuiti ad Anacleto e a Callisto ove è ordinato, pena la scomunica, che tutti partecipino alla Cena dopo la consacrazione. Similmente quanto è detto nei canoni detti apostolici che tutti coloro che non si fermano sino al termine del rito e non ricevono il sacramento, debbono essere redarguiti perché recano disturbo alla Chiesa. Fu stabilito, in conseguenza, nel concilio di Antiochia, che chi entrasse nella Chiesa, udisse il sermone e si astenesse dalla Cena, fosse scomunicato finché si ravvedesse da quel vizio. Questa disposizione, quantunque attenuata al primo concilio di Toledo, è stata tuttavia sostanzialmente mantenuta. Viene infatti detto quivi che chi non prende il sacramento, dopo aver udito il sermone, debba essere ammonito, e se non obbedisce all'ingiunzione debba essere respinto dalla Chiesa.
45. È facile notare che i santi Padri intesero mantenere, con questi decreti, l'uso frequente della Cena, quale era stato istituito nell'età apostolica, considerandolo utile al popolo di Dio e constatando che veniva invece tralasciato a poco a poco per negligenza.
Sant'Agostino ci fornisce una testimonianza riguardo al tempo suo scrivendo: "Questo sacramento della unità che abbiamo nel corpo del Signore si celebra quotidianamente in alcune Chiese, in altre solo in certe occasioni; gli uni lo prendono a loro salvezza, gli altri a loro dannazione ". E nella prima lettera a Iunario: "In alcune Chiese non trascorre giorno senza che si riceva il sacramento del corpo e del sangue del Signore, in altre non lo si riceve che il sabato e la domenica, in altre ancora la domenica soltanto".
Ora, dato che il popolo, come abbiamo detto, non si comportava a questo riguardo come avrebbe dovuto, i santi Padri criticavano severamente questa indifferenza per non lasciar sorgere il sospetto che l'approvassero. Abbiamo esempi di questo atteggiamento in san Crisostomo nella lettera agli Efesini ove dice: "A quel tale che disonorava il banchetto, non fu detto: perché sei qui seduto, ma: "perché sei entrato". Chiunque dunque sta qui ad assistere senza partecipare al sacramento si dimostra arrogante e sfrontato. Come giudichereste una persona invitata ad un banchetto che dopo essersi lavata, accomodata, apprestata a mangiare finisse Cl. Non toccare cibo? Il suo atteggiamento non suonerebbe forse offesa al pranzo e a colui che l'ha invitato? Ti trovi qui associato a coloro che si apprestano a ricevere il sacramento in preghiera, e per il fatto che non ti allontani confessi essere nel numero, e alla fine non partecipi con loro; sarebbe preferibile tu non fossi neppur venuto. Mi dirai che sei indegno, ti risponderò che neppur sei degno di pregare, visto che la preghiera e una preparazione in vista di ricevere quel sacro mistero ".
46. Anche sant'Agostino e sant'Ambrogio condannano severamente la prassi che già al tempo loro si andava diffondendo nelle Chiese orientali per cui il popolo assisteva solo alla celebrazione del sacramento senza parteciparvi. L'abitudine di prendere la comunione una volta all'anno è indubbiamente invenzione del demonio, chiunque sia stato ad introdurla. Si dice che l'autore di questo decreto sia stato Zefirino vescovo di Roma; credo però che tale decreto non avesse ai suoi tempi il significato che ha oggi. È possibile che mediante questa istituzione egli non abbia preso un cattivo provvedimento per la sua Chiesa, in quei tempi. Effettivamente la santa Cena era allora presentata ai fedeli in ogni assemblea della comunità e una gran parte dei partecipanti non prendeva il sacramento. Né si verificava il fatto che tutti insieme, in una sola volta, prendessero il sacramento, e d'altra parte era necessario che testimoniassero la loro fede con un atto esteriore, essendo frammisti ad infedeli e idolatri, quel sant'uomo aveva stabilito, a scopo disciplinare, un giorno in cui tutto il popolo dei credenti di Roma partecipando alla Cena di nostro Signore facesse confessione della sua fede. Non mancavano, del resto, di prendere la comunione frequentemente.
L'istituzione di Zeffirino però, buona di per se, è stata volta al male dai suoi successori, quando fu istituita quella legge della comunione annuale; si ottiene così il risultato che quasi tutti, quando hanno fatto una comunione nell'anno si addormentano, certi di avere perfettamente assolto il loro dovere per il rimanente periodo dell'anno. È chiaro che si doveva agire diversamente. Per lo meno si doveva proporre alla comunità dei credenti la Cena di nostro Signore una volta alla settimana e si dovevano dichiarare le promesse che in essa ci nutrono spiritualmente e ci saziano. Nessuno certo deve essere costretto a prendere la comunione, ma tutti dovrebbero essere esortati a farlo e coloro che hanno negletto di farlo si dovrebbero ammonire e correggere. Allora, tutti scoprendosi affamati converrebbero insieme a quel pasto.
Non senza ragione dunque ho denunciato sin dall'inizio quale frutto della astuzia del Diavolo questa prassi, che, facendoci obbligo di comunione un giorno all'anno, ci rende pigri e sonnolenti per tutto il rimanente del tempo. È vero che già ai tempi di Crisostomo questi abusi cominciavano a manifestarsi, abbiamo però visto con quanta forza egli li deplori. Amaramente si duole del fatto che il popolo non ricevesse il sacramento nel corso dell'anno quantunque vi fosse invitato, e a Pasqua lo ricevesse senza preparazione. Perciò esclama: "Pessima abitudine! Presunzione! Invano siamo dunque quotidianamente all'altare visto che nessuno riceve ciò che noi offriamo".
47. Analoga è l'intenzione che ha prodotto l'altro decreto che sottrae una metà della Cena alla maggioranza del popolo di Dio, cioè il segno del sangue riservandolo a non so quanti tonsurati e consacrati e togliendolo ai cosiddetti "laici e profani ". Poiché questi sono i titoli e gli appellativi che essi danno alla eredità di Dio. L'ordine eterno e la volontà di Dio è invece che tutti ne bevano; e l'uomo osa cambiarli e annullarli con leggi contrarie, decretando che non tutti sono autorizzati a bere. Questi legislatori, perché non li si giudichi contrari a Dio senza ragione, tirano in ballo gli inconvenienti che si potrebbero verificare se il vino fosse dato a tutti; quasi Dio non li avesse previsti e prevenuti nella sua sapienza eterna. Anzi, inventano con sottigliezza che un elemento è sufficiente per rappresentare entrambi. Se è il corpo, dicono, è tutto Gesù Cristo, che non può più essere
Disgiunto o separato dal suo corpo. E il corpo contiene il sangue. Così i nostri sensi si accordano con Dio, non appena lo si abbandona si slanciano a briglia sciolta in volteggi e disquisizioni.
Nostro Signore presentando il pane disse essere suo corpo; dando il calice lo chiamò suo sangue. La ragione e la sapienza umana replicano audacemente, al contrario, che il pane è sangue e il vino è corpo, come se nostro Signore, senza ragione e senza motivo, avesse fatto questa distinzione, sia nelle parole che nei segni, fra il suo corpo e il suo sangue, e come se si fosse mai udito che il corpo di Gesù Cristo o il suo sangue sia detto Dio e uomo. Avesse avuto l'intenzione di indicare la sua persona intera avrebbe detto: questo sono io, come è solito esprimersi nella Scrittura, e non avrebbe detto: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. Egli ha voluto, per sovvenire alla debolezza della nostra fede, separare il calice dal pane, per mostrare che lui soltanto ci basta quale cibo e bevanda. Quando invece ci sia sottratta una delle due parti, non si trova più che la metà del nostro cibo. Quand'anche perciò risultasse vero ciò che essi affermano, che il sangue è Cl. Pane, essi privano però le anime credenti di ciò che Gesù Cristo ha dato quale elemento necessario per conferma della loro fede. Rifiutando dunque le loro sciocche sottigliezze guardiamoci dal lasciarci sottrarre il beneficio che ci viene dal doppio dono dello Spirito che Gesù Cristo ci ha dato.
48. So bene che i ministri di Satana, avvezzi come sono a beffarsi della Scrittura, anche in questo caso se ne ridono e inventano cavilli: in primo luogo non si deve trarre da un semplice fatto una norma generale costringendo la Chiesa ad osservarla.
Perfida menzogna affermare che si tratti di un semplice dato di fatto. Gesù Cristo infatti non si è limitato a dare il calice ai suoi discepoli ma ha ordinato loro di far questo in avvenire. Le parole: bevete tutti di questo calice, hanno il significato di un ordine esplicito; e san Paolo non tramanda questo come il semplice ricordo di un fatto ma come un ordine preciso. Il loro secondo cavillo consiste nel pretendere che Gesù Cristo abbia ammesso alla celebrazione di questa Cena i soli apostoli che egli aveva precedentemente ordinati e consacrati nell'ordine del sacerdozio, che essi definiscono ordine sacro. Chiedo a questo punto che rispondono a questi cinque interrogativi, cui non possono sfuggire senza che le loro menzogne siano facilmente smascherate.
Primo: quale oracolo ha loro rivelato questa soluzione così estranea alla Parola di Dio? La Scrittura fa menzione dei dodici seduti con Gesù Cristo ma non sminuisce la dignità di Gesù Cristo al punto tale da attribuir loro il titolo di sacerdoti, di cui parleremo a suo tempo. Egli ha dato allora quel sacramento ai dodici, ma ha tuttavia ordinato loro di distribuirselo. Secondo: perché nei tempi migliori della vita della Chiesa, durante il millennio che seguì l'età apostolica, tutti, senza eccezione, partecipavano ai due elementi del sacramento? Ignorava forse la Chiesa antica quali persone Gesù Cristo avesse ammesso alla sua Cena? Spudoratezza estrema voler negare questo o addurre delle scuse. Le Storie ecclesiastiche e i testi degli Antichi sono espliciti nel testimoniare di questo fatto. "Il nostro corpo "dice Tertulliano "è saziato dalla carne e dal sangue di Gesù Cristo affinché l'anima nostra sia nutrita da Dio ". Sant'Ambrogio dice all'imperatore Teodosio: "Prenderesti tu con le mani macchiate di sangue il corpo del Signore? Potresti bere il suo sangue? ". San Girolamo: "I preti che consacrano il pane della Cena e distribuiscono il sangue del Signore al popolo ". San Crisostomo: "Non siamo come ai tempi della legge antica quando il prete mangiava la sua parte e il popolo ciò che rimaneva: qui uno stesso corpo vien dato a tutti e uno stesso calice; tutto ciò che è nell'eucarestia è comune al prete e al popolo". Molte testimonianze si leggono pure in sant'Agostino.
49. A che pro discutere di un fatto così evidente? Si leggano tutti i dottori greci e latini, non ce n'è uno che non menzioni questo fatto. Questo uso non è stato abolito finché si è mantenuto nella Chiesa una minima traccia di purezza. Anche san Gregorio, che a diritto possiamo dire l'ultimo vescovo di Roma, ne attesta la presenza ancora ai tempi suoi quando dice: "Voi avete imparato che sia il sangue dell'agnello non sentendone parlare ma bevendolo ", "Poiché tutti i credenti lo bevono nella Cena ". Questa prassi si è ancora mantenuta durante altri quattrocento anni, quantunque ogni cosa fosse già corrotta. E non la si osservava infatti come prassi trascurabile, ma come legge inviolabile. L'istituzione di nostro Signore era ancora tenuta in onore e non si aveva dubbi circa il fatto che fosse sacrilegio separare le cose che Dio aveva unite. Lo attestano le parole di Gelasio vescovo di Roma: "Abbiamo udito che alcuni ricevendo solo il corpo del Signore si astengono dal calice; costoro, peccando per superstizione, devono essere costretti a ricevere il sacramento nella sua totalità, ovvero essere respinti del tutto. La scissione di questo mistero non può avvenire senza gravi sacrilegi ". I motivi addotti da san Cipriano si consideravano allora, ed erano di fatto, sufficienti a convincere ogni cuore di credente. "Come potremmo esortare il popolo "dice "a spargere il suo sangue per la confessione di Cristo, se gli rifiutiamo il sangue di lui quando deve combattere? Come lo renderemo capace di bere il calice del martirio se non ammettendolo a bere innanzitutto il calice del Signore "? Riguardo alla tesi dei Canonisti, secondo cui la citazione di Gelasio si riferisce ai preti, si tratta di una obiezione così sciocca e puerile da non meritare confutazione.
50. In terzo luogo. Perché Gesù Cristo invitò semplicemente a mangiare del pane, ma riguardo al calice disse che tutti insieme ne bevessero? Ciò che fecero. Sembra quasi che volesse espressamente prevenire questa malizia diabolica.
Quarto: se nostro Signore ha, come essi pretendono, ritenuto degni della sua Cena i soli sacerdoti, chi mai ebbe l'ardire e l'audacia di chiamare a partecipare ad essa gli altri che ne sarebbero stati esclusi da nostro Signore, visto che detta partecipazione è un dono riguardo al quale nessuno avrebbe avuto autorità senza ordine di colui che solo poteva darlo. Come si arrischiano oggi di distribuire i segni del corpo di Gesù Cristo al popolo se non ne hanno l'ordine o l'esempio da nostro Signore?
Quinto: mentiva san Paolo dicendo ai Corinzi di aver appreso dal Signore ciò che aveva loro insegnato? Poiché egli dichiara in seguito che, secondo questo insegnamento, tutti indifferentemente dovevano partecipare ai due elementi della Cena. Se san Paolo aveva appreso dal Signore, che tutti, senza discriminazione, dovevano essere ammessi, coloro che ne escludono invece quasi tutto il popolo di Dio, considerino da chi l'hanno appreso, perché non possono attribuire questo ordine a Dio, in cui non c'è sì e no che cioè non si contraddice né muta parere. Anzi, si rivestono tali abominazioni del titolo di Chiesa, e sotto questa veste, le si giustifica come se la Chiesa fosse rappresentata da questi anticristi che calpestano, con tanta facilità, disperdono ed annullano l'insegnamento e le istituzioni di Gesù Cristo, o come se non dovessimo considerare Chiesa, la Chiesa apostolica in cui ha fiorito il Cristianesimo.