8. Sovranità di Dio e responsabilità umana

"Ciascuno di noi renderà conto di sé stesso a Dio"  (Ro. 14:12).

Nel nostro ultimo capitolo abbiamo considerato con ampiezza la questione molto dibattuta e difficile della volontà umana. Abbiamo mostrato come la volontà dell'uomo naturale non sia né sovrana, né libera, ma, al contrario, sia serva e schiava. Abbiamo sostenuto come una concezione corretta della volontà del peccatore - il suo asservimento - sia essenziale ad una giusta valutazione della sua depravazione e rovina. La totale depravazione e degradazione della natura umana è qualcosa che l'uomo odia dover riconoscere, e che persisterà animosamente nel negare fintanto che egli non sia "istruito da Dio". Molto, anzi, moltissimo, dell'insegnamento errato che oggi noi udiamo in ogni dove, è il risultato logico e diretto del ripudio dell'espressa valutazione di Dio sulla depravazione umana. Vale per la creatura umana quanto dice l'Apocalisse: "Tu dici: "Sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di niente!" Tu non sai, invece, che sei infelice fra tutti, miserabile, povero, cieco e nudo" (Ap. 3:17). Molti, orgogliosamente, vantano "Il progresso dell'uomo" e negano la sua caduta. Scambiano la luce con le tenebre e le tenebre con la luce. Si vantano del "libero arbitrio" in campo morale dell'uomo quando, di fatto, egli è incatenato al peccato e reso schiavo da Satana, il diavolo "che li aveva presi prigionieri perché facessero la sua volontà" (2 Ti. 2:26). Possiamo però chiederci: Se l'uomo naturale non è un "agente morale libero", non ne consegue forse che pure egli non possa essere considerato responsabile di quel che fa?

"Agente morale libero" è un'espressione inventata dall'uomo e, come abbiamo detto prima, parlare di libertà dell'uomo naturale significa rinnegare apertamente la rovina spirituale in cui si trova. La Scrittura non parla mai della libertà o delle capacità d'ordine morale del peccatore. Al contrario, essa insiste sulla sua incapacità morale e spirituale. Ammettiamo che questo sia il ramo più difficile da trattare di tutta l'argomentazione. Coloro che hanno studiato a fondo questo tema, hanno riconosciuto all'unanimità come armonizzare la Sovranità di Dio con la responsabilità dell'uomo sia il nodo gordiano di tutta la teologia. La difficoltà principale che s'incontra al riguardo è di definire il rapporto esistente fra Sovranità di Dio e responsabilità umana.

Molti hanno ritenuto di liberarsi di questa difficoltà negandone l'esistenza. Un certo gruppo di teologi, nella loro ansia di conservare il principio di responsabilità dell'uomo, la estendono oltre ogni proporzione, fintanto che la sovranità di Dio scompare dalla vista, e in non pochi casi, essa è del tutto negata. Altri riconoscono come le Scritture presentino allo stesso tempo sia la sovranità di Dio sia la responsabilità umana, ma affermano che, nell'attuale nostra condizione di finitudine e limitata conoscenza, sia impossibile riconciliare queste due verità, rimanendo dovere ed obbligo del credente accoglierle entrambe. Noi riteniamo, però, che, in quel caso, si presupponga troppo in fretta che le Scritture stesse non risolvano quest'apparente contraddizione: di fatto troviamo nella Scrittura stessa, diversi punti che mostrano come possano conciliarsi sovranità di Dio e responsabilità umana. Sebbene la Parola di Dio non chiarisca ogni mistero (e diciamo questo con riserva), effettivamente essa getta molta luce su questo problema, e ci sembra che dia maggior onore a Dio ed alla Sua Parola, investigare le Scritture in spirito di preghiera, e trovare lì la soluzione completa di questa difficoltà, anche se, fin ora, altri hanno cercato invano. Tutto questo dovrebbe spingerci maggiormente ad inginocchiarci in preghiera.

Iddio si è compiaciuto di rivelarci, nell'ultimo secolo, molte cose dalla Sua Parola, che erano state nascoste agli studiosi dei secoli precedenti. Chi oserebbe affermare che, al riguardo della questione in esame, non vi sia ancora molto da imparare? Come abbiamo detto prima, la difficoltà principale che incontriamo, è quella di determinare quale sia il punto d'incontro della sovranità di Dio e della responsabilità umana. Per molti è sembrato che per Dio, imporre la propria sovranità, significherebbe, per Lui, manifestare la Sua potenza ed esercitare un'influenza diretta sull'uomo e, fare di più che ammonire od invitare, significherebbe interferire con la libertà umana, distruggere la sua responsabilità, e ridurlo ad una macchina. E' indubbiamente triste trovare come lo scomparso dott. Pierson - i cui libri sono generalmente biblici ed utili - dire: "E' tremendo pensare come persino Dio stesso non possa controllare la mia struttura morale, o costringermi a fare scelte morali. Egli non può impedire che io Lo sfidi e Lo neghi, e non voglia esercitare il Suo potere nel senso che vorrebbe, e non potrebbe se lo volesse" (Una clinica spirituale). E' ancora più triste scoprire come molti altri fratelli, rispettati ed amati, esprimano gli stessi sentimenti. E' triste perché questo si pone direttamente in contraddizione con le Sacre Scritture.

E' nostro desiderio affrontare onestamente le difficoltà qui implicate, ed esaminarle attentamente alla luce di ciò che Dio si è compiaciuto di concederci. Le difficoltà principali potrebbero essere espresse così: in primo luogo: Com'è possibile che Dio intervenga sugli uomini per prevenirli dal fare ciò che desidererebbero fare, e li costringa a fare altre cose che normalmente non desidererebbero fare, e preservare, al tempo stesso, la loro responsabilità? In secondo luogo, Come potrebbe essere considerato responsabile quel peccatore di fare ciò che non potrebbe mai fare? In terzo luogo: Com'è possibile che Dio decreti che gli uomini commettano certi peccati, considerarli responsabili perché li commettono, e giudicarli poi colpevoli perché li hanno commessi? In quarto luogo: In che modo il peccatore può essere ritenuto responsabile di accogliere Cristo, e di essere dannato per averlo respinto, quando Iddio lo ha preordinato alla condanna? Tratteremo così ora con questi diversi problemi nell'ordine che abbiamo indicato. Possa lo Spirito Santo stesso essere il nostro Maestro, affinché alla Sua luce noi si possa vedere la luce.

1. Com'è possibile che Dio intervenga sugli uomini per prevenirli dal fare ciò che desidererebbero fare, e li costringa a fare altre cose che normalmente non desidererebbero fare, e preservare, al tempo stesso, la loro responsabilità?

Sembrerebbe che se Dio agisse con il Suo potere ed esercitasse un'influenza diretta sugli uomini, questo vorrebbe dire interferire con la loro libertà. Sembrerebbe che se Dio facesse qualsiasi altra cosa, diversa dall'ammonire e dall'invitare gli uomini, questo equivarrebbe ad un'infrazione della loro responsabilità. Ci è detto che Dio non deve forzare l'uomo, né tanto meno costringerlo, altrimenti l'uomo diventerebbe una macchina. Quest'argomentazione suona molto plausibile, sembra essere buona filosofia, basata su un ragionamento corretto. E' stata accettata quasi universalmente come un assioma dell'etica. La Scrittura, però, lo contesta!

Consideriamo Genesi 20:6 "Dio gli disse nel sogno: «Anch'io so che tu hai fatto questo nell'integrità del tuo cuore: ti ho quindi preservato dal peccare contro di me; perciò non ti ho permesso di toccarla". Si sostiene, quasi universalmente, che Dio non debba interferire con la libertà umana, che Egli non debba né forzarlo, né costringerlo, altrimenti sarebbe ridotto ad una macchina. Il testo biblico citato, però, prova sicuramente, come non sia impossibile che Dio eserciti il Suo potere sull'uomo senza distruggerne il senso di responsabilità. Ecco un caso dove Dio esercita il Suo potere, limita la libertà umana, e lo preserva dal fare ciò che altrimenti avrebbe fatto. Prima di lasciare questo testo biblico, notiamo com'esso illumini il caso del primo uomo. Quei pretesi filosofi, che cercano d'essere più saggi di ciò che è scritto nella Bibbia, sostengono che Dio non avrebbe potuto impedire la caduta di Adamo, altrimenti l'avrebbe ridotto ad un semplice automa. Essi ci dicono costantemente che Dio non deve forzare o costringere le Sue creature, altrimenti Egli distruggerebbe la loro facoltà d'essere responsabili per se stessi. La risposta a tutto questo filosofeggiare, però, è che la Scrittura riporta diversi casi dove espressamente ci è detto che Dio, preventivamente, impedisce che certe Sue creature pecchino sia contro di Lui che contro il Suo popolo. Di fronte a questo, tutti i ragionamenti umani che potremmo fare, sono completamente inutili. Se Dio poteva "preservare" Abimelech dal peccare contro di Lui, non avrebbe forse Egli potuto fare lo stesso con Adamo? Se qualcuno chiedesse: "Allora, perché Dio non lo ha fatto?", potremmo ritornagli la domanda chiedendogli: "Perché Dio non ha "preservato" Satana dal cadere? Oppure, perché Dio non ha "preservato" il Kaiser dal far scoppiare la prima guerra mondiale? La risposta usuale a queste domande è, come abbiamo detto, Dio non poteva interferire con la "libertà" umana e ridurlo ad una macchina. Il caso di Abimelech, però, prova in modo conclusivo che tale risposta è insostenibile ed errata e, potremmo aggiungere, pure empia e blasfema, perché chi siamo noi per poter pensare di mettere dei limiti all'Altissimo? Come osiamo noi, creature finite, dire quello che Egli possa o non possa fare? Se però i nostri critici volessero insistere e chiederci perché Dio si sia rifiutato di esercitare il Suo potere e così impedire la caduta di Adamo, noi dovremmo rispondere e dire: Perché la caduta di Adamo meglio serviva i Suoi propositi benedetti e saggi e, fra le altre cose, forniva un'opportunità per dimostrare che laddove il peccato aveva abbondato, la grazia altresì sovrabbonda.

Potremmo ulteriormente domandarci: Perché Iddio pose nel giardino l'albero della conoscenza del bene e del male, quando Egli ben sapeva in anticipo che l'uomo avrebbe disubbidito alla Sua proibizione di mangiarne i frutti perché, notate bene, era stato Dio e non Satana a fare quell'albero. Se, a questo, qualcuno rispondesse: E' Dio, allora, l'autore del peccato, noi replicheremmo: Che vuol dire "Autore"? Era chiaramente la volontà di Dio che il peccato entrasse nel mondo, altrimenti non vi sarebbe entrato, perché nulla accade se non quello che Dio ha eternamente decretato. Inoltre, quello era più che un semplice permesso, perché Dio solo permette ciò che si è proposto di fare. Lasciamo ora la questione del peccato, ed insistiamo sul fatto che Dio avrebbe potuto "preservare" Adamo dal peccare senza distruggere la sua responsabilità.

Il caso d'Abimelech non è l'unico. Un'altra illustrazione dello stesso principio si può vedere nel racconto su Balaam, già notato nell'ultimo capitolo, ma, al riguardo del quale, dobbiamo dire qualcosa in più. Balak, il moabita, aveva mandato questo profeta pagano a "maledire" Israele. Per questo gli aveva promesso un ricco compenso, e, se leggiamo attentamente Numeri 22-24, vedremo come Balaam fosse ben disposto, anzi, ansioso, di accettare l'offerta di Balak e così peccare contro Dio ed il Suo popolo. Il Suo divino potere, però, lo aveva "preservato". Notate quanto lui stesso ammette: «Ecco, sono venuto da te; ma potrei forse dire qualsiasi cosa? La parola che Dio mi metterà in bocca, quella dirò» (Nu. 22:38). Non solo questo, ma quando leggiamo le rimostranze di Balak contro Balaam, troviamo: "L'altro gli rispose e disse: «Non devo forse stare attento a dire soltanto ciò che il SIGNORE mi mette in bocca?». Ecco, ho ricevuto l'ordine di benedire; gli ha benedetto; io non posso contraddire" (23:12,20). Questi versetti, certamente, ci mostrano la potenza di Dio e l'impotenza di Balaam: la volontà dell'uomo n'è frustrata e la volontà di Dio soltanto eseguita. Forse che però, così, la "libertà" o la "responsabilità" di Balaam era stata distrutta? Certamente no, come noi cercheremo di dimostrare.

Un'ulteriore illustrazione: "Il terrore del SIGNORE s'impadronì di tutti i regni dei paesi che circondavano Giuda, al punto che non mossero guerra a Giosafat" (2 Cr. 17:10). Qui l'implicazione è chiara. Se "il terrore del Signore" non si fosse impadronito di tutti questi regni, essi avrebbero fatto guerra contro Giuda. Solo il potere di preservazione di Dio poteva impedirlo. Se fosse stato permesso alla loro volontà di agire, la conseguenza sarebbe stata la "guerra". Vediamo così come la Scrittura insegni che Dio "preserva" sia nazioni che individui: quando e come a Lui piace, Egli s'interpone ed impedisce la guerra. Si confronti ulteriormente questo con Genesi 35:5.

La questione che ora richiede la nostra considerazione è: Com'è possibile che Dio "preservi" l'uomo dal peccare e, al tempo stesso, questo non sia un'interferenza con la libertà e la responsabilità dell'uomo? Si tratta di una questione della quale molti dicono non esservi soluzione, a causa delle attuali nostre limitazioni nel comprenderlo. Questa questione fa si che noi ci domandiamo: In che cosa consiste questa "libertà" morale, la vera libertà morale? Rispondiamo: Essa consiste nell'essere liberati dalla nostra SERVITÙ al peccato. Più un'anima è emancipata dal servaggio del peccato, maggiormente essa entrerà in condizione di libertà: "Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi" (Gv.8:36). Nei casi prima citati, Iddio aveva "preservato" Abimelech, Balaam, ed i regni pagani dal peccare, e quindi noi affermiamo che Egli in nessun modo aveva interferito con la vera libertà[1]. Più un'anima si approssima alla mancanza di peccato, maggiormente essa si avvicina alla santità di Dio. La Scrittura ci dice che Dio "non può mentire", e che Egli "non può essere tentato", eppure, potremmo mai dire che Egli sia meno libero solo perché Egli non può fare ciò che è male? Certamente no. Non è evidente, allora, che più un uomo è elevato verso Dio, più egli è "preservato" dal peccare, più grande è la sua vera libertà!

Un esempio pertinente che mostra il punto d'incontro fra la sovranità di Dio e la responsabilità umana, al riguardo della questione della libertà morale, si trova in connessione con il dono che Egli ci ha fatto delle Sacre Scritture. Nel comunicarci la Sua Parola, Dio si compiace di usare strumenti umani, e, nell'usarli, Egli non li riduce a semplici amanuensi meccanici. "Sappiate prima di tutto questo: che nessuna profezia della Scrittura proviene da un'interpretazione personale; infatti nessuna profezia venne mai dalla volontà dell'uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo" (2 Pi. 1:20,21). Qui abbiamo la responsabilità umana e la sovranità di Dio poste in giustapposizione. Questi santi uomini erano sospinti (letteralmente, in greco, "portati") dallo Spirito Santo, eppure la loro responsabilità morale non è stata disturbata, né pregiudicata la loro "libertà". Dio, comunicando il Suo pensiero e la Sua volontà agli uomini, illuminò le loro menti, accese i sentimenti del loro cuore, rivelò loro la Sua verità, e li controllò in modo tale che fosse impossibile, da parte loro, l'errore. Che cos'è, però, che avrebbe loro potuto far loro causare errori se Dio non li avesse così controllati come strumenti nelle Sue mani? La risposta è IL PECCATO, il peccato che c'era in loro. Come, però, abbiamo visto, il tenere il peccato sotto scacco, l'impedire che in questi "santi uomini" potesse agire la loro mente carnale, non era un distruggere la loro "libertà", ma introdurli nella vera libertà.

Un'ultima parola è qui necessaria a proposito della natura della vera libertà. Vi sono tre cose principali al riguardo delle quali gli uomini peccano grandemente: miseria e felicità, follia e sapienza, servitù e libertà. Il mondo non considera nessuno più miserevole dell'afflitto, e nessuno più felice di chi è prospero, perché giudica tutte le cose dalla comodità attuale della carne. Ancora: il mondo si compiace di mettere in bella mostra una falsa sapienza (il che è "follia" presso Dio), trascurando ciò che ci rende saggi rispetto alla salvezza. Per quanto riguarda la libertà, gli uomini vorrebbero essere a loro completa disposizione, vivendo come meglio loro aggrada. Essi suppongono che l'unica vera libertà sia essere al comando e sotto il controllo di nessun altro che sé stessi, vivendo secondo i desideri del loro cuore. Questo, però è un servaggio ed una schiavitù del peggior tipo. La vera libertà non è la facoltà di vivere come meglio ci piace, ma di vivere come noi dovremmo vivere! Per questo, l'Unico che mai abbia calpestato questa terra dalla caduta di Adamo, godendo di perfetta libertà, era l'Uomo Gesù Cristo, il santo Servo di Dio, il cui cibo era solo quello di compiere la volontà del Padre.

Ci apprestiamo ora a considerare la seconda domanda:

2. Come potrebbe essere considerato responsabile quel peccatore di fare ciò che non potrebbe mai fare? e come può egli essere giustamente condannato per non aver fatto quello che non potrebbe comunque fare?

In quanto creatura, l'uomo naturale è responsabile d'amare, ubbidire e servire Dio. In quanto peccatore egli è responsabile di ravvedersi e di credere all'Evangelo. Siamo però, confrontati subito con il fatto che l'uomo naturale è incapace ad amare e a servire Dio, e che il peccatore, di per se stesso, non riesce a ravvedersi ed a credere. Dimostriamo dapprima quanto abbiamo detto.

Iniziamo citando e considerando Giovanni 6:44 "Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre, che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno". Il cuore dell'uomo naturale (ogni creatura umana) è così "insanabilmente maligno" che, se lasciato a se stesso, mai "verrebbe a Cristo". Quest'affermazione non sarebbe messa in questione se si comprendesse rettamente la forza delle parole "venire a Cristo".

Faremo, perciò, una piccola digressione per definire e considerare che cosa implichino le parole: "Nessuno può venire a me" - cfr. Gv. 5:40 "…eppure non volete venire a me per aver la vita!". Affinché un peccatore venga a Cristo per avere vita, è necessario che si renda conto del terribile pericolo in cui egli si trova; è necessario che veda la spada della giustizia divina sospesa sulla sua testa; è necessario che si svegli e veda come non vi sia che un passo fra lui e la morte, e che la morte significa "giudizio" e, come conseguenza della sua scoperta, egli desideri realmente, di tutto cuore, di sfuggirvi, e che egli "fugga" dall'ira a venire gridando a Dio che abbia misericordia di lui, e che voglia a tutti i costi entrare per "la porta stretta". Per poter venire a Cristo per avere la vita, per un peccatore, significa sentire e riconoscere di essere del tutto privo di titoli al favore divino; significa vedere sé stesso come realmente "senza forza", perduto e senza speranza; significa ammettere di non meritare altro che la morte eterna, dando quindi ragione a Dio contro sé stesso; significa cadere prostrato nella polvere di fronte a Dio, ed umilmente implorare Dio affinché abbia misericordia di lui. Per poter venire a Cristo ed ottenere vita, il peccatore deve rinunziare alla propria giustizia ed essere disposto a ricevere la giustizia di Dio in Cristo; significa screditare del tutto la propria sapienza ed essere governato dalla Sua; significa ricevere senza riserve il Signore Gesù come proprio Salvatore e Signore, come il Tutto della sua vita. Tutto questo, in parte ed in breve, è ciò che implica il "venire a Cristo". Chiediamoci, però se un peccatore mai voglia assumere un tale atteggiamento di fronte a Dio. E' improbabile, anzi, è escluso. Perché? Perché, in primo luogo, egli non si rende conto di quanto pericolosa sia la sua situazione, e, di conseguenza, egli non vede il motivo di doverne sfuggire così in fretta. Al contrario, per la maggior parte, gli uomini, nella loro situazione, ci stanno comodamente e, a meno che lo Spirito Santo operi in loro, ogni qual volta sono disturbati dal campanello d'allarme della loro coscienza, essi fuggono per trovare rifugio, in tutti i posti, meno che in Cristo. In secondo luogo, essi non riconosceranno mai che tutta la loro giustizia non è altro che stracci sporchi, anzi, come il Fariseo, ringrazieranno Dio per non essere come il Pubblicano. In terzo luogo, poi, essi non sono disposti a ricevere Cristo come loro Signore e Salvatore, perché non hanno intenzione alcuna di liberarsi dei loro idoli: rischierebbero il benessere stesso della loro anima, piuttosto che rinunziarvi. Per questo diciamo che l'uomo naturale, lasciato a se stesso, ha un cuore così depravato che non potrà mai venire a Cristo. Le parole di Cristo che abbiamo citato, non sono certo le uniche che parlino di questo problema. Vi sono molti testi della Scrittura che presentano l'incapacità morale e spirituale dell'uomo naturale. In Giosuè 24:19, leggiamo: " Voi non potete servire il SIGNORE, perché egli è un Dio santo, è un Dio geloso; egli non perdonerà le vostre ribellioni e i vostri peccati". Ai Farisei, Cristo disse: "Perché non comprendete il mio parlare? Perché non potete dare ascolto alla mia parola" (Gv. 8:43), ed ancora: "Ciò che brama la carne è inimicizia contro Dio, perché non è sottomesso alla legge di Dio e neppure può esserlo; e quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio" (Ro. 8:7,8). La questione, però, ritorna: come potrebbe mai Dio ritenere il peccatore responsabile di non fare ciò che è incapace di fare? Questo richiede un'attenta definizione dei termini. Che cosa s'intende esattamente per "incapace" e "non può"? Si comprenda ora bene che, quando parliamo dell'incapacità del peccatore, noi non intendiamo che il peccatore desideri venire a Cristo e che si trovi privo della capacità necessaria per realizzare questo suo desiderio. No. Il fatto è che l'incapacità o l'assenza di potere, è dovuta essa stessa alla mancanza di volontà a venire a Cristo, e questa mancanza di volontà o disponibilità, è il frutto di un cuore depravato. E' di importanza fondamentale che noi si distingua fra incapacità naturale e incapacità morale e spirituale. Per esempio, leggiamo: "Aiia non poteva vedere, poiché gli si era indebolita la vista per la vecchiaia" (1 Re 14:4), e ancora: "Quegli uomini remavano con forza per raggiungere la riva; ma non riuscivano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso" (Gi. 1:13). In entrambi questi brani, le parole "non poteva" e "non riuscivano" si riferiscono ad un'incapacità naturale. Quando però leggiamo: "I suoi fratelli vedevano che il loro padre l'amava più di tutti gli altri fratelli; perciò l'odiavano e non potevano parlargli amichevolmente" (Ge. 37:4), è chiaro che qui si parla di un'incapacità morale. Ad essi non mancava la capacità naturale di "parlargli amichevolmente", perché non erano muti. Il motivo di questa loro incapacità è presentato nel versetto stesso: era perché "l'odiavano". Ancora, in 2 Pietro 2:14 leggiamo di un certo tipo di uomini malvagi che "Hanno occhi pieni d'adulterio e non possono smetter di peccare!". Ecco, ancora, come si tratta qui di un'incapacità morale quella di cui si parla. Perché questi uomini "non possono smettere di peccare"? Perché "hanno occhi pieni d'adulterio. Lo stesso vale per Romani 8:8 "Quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio": qui c'è incapacità spirituale. Perché l'uomo naturale "non può piacere a Dio"? Perché è "estraneo alla vita di Dio" (Ef. 4:18). Nessuno può scegliere ciò a cui il suo cuore è ostile. " Razza di vipere, come potete dir cose buone, essendo malvagi?" (Mt. 12:34), "Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre, che mi ha mandato" (Gv. 6:44). Ecco ancora, davanti a noi, un'incapacità morale e spirituale. Perché il peccatore non può venire a Cristo se il Padre non lo attira? La risposta è: "Perché il peccatore ama il peccato ed odia Cristo". Confidiamo di aver chiarito come la Scrittura distingua nettamente fra incapacità naturale e incapacità morale e spirituale. Certamente tutti possono vedere la differenza fra la cecità di Bartimeo, che desiderava ardentemente ricuperare la vista, e quella dei Farisei, che avevano gli occhi chiusi "… perché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile: sono diventati duri d'orecchi e hanno chiuso gli occhi, per non rischiare di vedere con gli occhi e di udire con gli orecchi, e di comprendere con il cuore e di convertirsi, perché io li guarisca" (Mt. 13:15). Se però mi si dice: "Allora l'uomo naturale potrebbe venire a Cristo se solo lo volesse!". Al che rispondiamo: Ah, ma il cardine di tutta la questione sta proprio in quel SE. L'incapacità del peccatore consiste nella sua mancanza di potere morale per desiderare e volere eseguire.

Ciò per il quale abbiamo or ora conteso, è di primaria importanza. La questione della responsabilità risiede proprio nella distinzione fra capacità naturale del peccatore e la sua capacità morale e spirituale. La depravazione del cuore umano non distrugge che l'uomo debba rendere conto delle sue scelte a Dio: la stessa incapacità morale del peccatore serve solo ad accrescere la sua colpa. Questo lo si può provare facilmente riferendoci ai testi biblici citati più sopra. Leggiamo come i fratelli di Giuseppe "non potevano parlargli amichevolmente", e perché? Perché essi lo "odiavano". Chiediamoci, però, questa loro incapacità morale, avrebbe potuto essere addotta come scusa per giustificare il fatto di non potergli parlare amichevolmente? Certo no: era proprio di quest'incapacità morale che consisteva la grandezza del loro peccato. Allo stesso modo, di coloro ai quali è detto: "Non possono smettere di peccare" (2 Pietro 2:14), avrebbero potuto accampare questo come scusa per non riuscire a smettere? No, anzi, il fatto d'avere "gli occhi pieni d'adulterio" è per loro solo un'aggravante.

Se qui un qualche peccatore obiettare: "Che ci posso fare se sono nato in questo mondo con un cuore depravato? Io non sono responsabile per la mia incapacità morale e spirituale, sono fatto così", gli si potrebbe rispondere: la responsabilità e la colpevolezza risiedono nel voler indulgere in queste propensioni depravate, e questo indulgervi è del tutto libero, perché Dio non costringe nessuno a peccare. Gli uomini potrebbero aver pietà di me, ma essi certamente non mi scuserebbero se io dessi libera espressione ad un temperamento violento e poi dicessi di non averne colpa perché l'ho ereditato dai miei genitori… Il loro senso comune è sufficiente per guidare il loro giudizio, in un caso come questo. Essi affermerebbero che io sono responsabile di tenere sotto controllo il mio temperamento. Perché, allora, cavillare contro lo stesso principio nel caso citato prima? "Dalle tue parole ti giudicherò, servo malvagio!", certamente si applica qui! Che direbbe il lettore ad un uomo che lo avesse derubato, e che più tardi si giustificasse, dicendo "Non posso fare a meno d'essere un ladro: questa è la mia natura"? Certamente risponderebbe: Allora il penitenziario sarebbe la residenza più  appropriata per quell'uomo. Che diremmo allora a chi sostiene di non poterci fare nulla se segue soltanto i desideri del suo cuore peccatore? Che solo il Lago di Fuoco sarebbe la sua residenza più appropriata. Potrebbe forse un assassino dire che odiava tanto la sua vittima da non potere fare a meno di ammazzarla? Che era più forte di lui il desiderio d'ucciderlo? Non potrebbe solo questo aggravare il suo crimine? Che dire allora di colui che ama così tanto il peccato da essere "in inimicizia contro Dio"?

Il fatto della responsabilità umana è riconosciuto quasi universalmente. E' inerente alla natura morale dell'uomo. Non solo è insegnato dalle Scritture, ma testimoniato dalla stessa coscienza naturale. La base della responsabilità umana è la capacità umana. Che cosa si intende con il termine generale "capacità"? Dobbiamo definirla. Forse potrà essere meglio compreso dal lettore medio un esempio concreto, più che un'argomentazione astratta. Supponete che un uomo mi debba 1000 e trovasse tutto il denaro che volesse per i suoi piaceri e divertimenti e non per me, e ciò nonostante mi dicesse di non essere in grado di pagarmi. Che cosa dovrei dirgli? Io gli direi che, di fatto, ciò che gli manca non sono i soldi, ma un cuore onesto. Non sarebbe, però, questa, da parte mia, una formulazione ingiusta delle mie parole se un amico del mio debitore disonesto dicesse che io ho affermato che un cuore onesto sia ciò che costituisce la capacità di pagare il debito? No, io risponderei, la capacità del mio debitore risiede nella capacità della sua mano di firmarmi un assegno, e questa lui ce l'ha, ciò che gli manca è un principio d'onestà. E' la sua capacità a compilare ed a firmare un assegno che lo rende responsabile di farlo, ed il fatto che egli manchi di un cuore onesto, non distrugge la sua responsabilità. Allo stesso modo, il peccatore, sebbene manchi di capacità morale e spirituale, egli possiede capacità naturale, ed è questo che lo rende responsabile di fronte a Dio. Gli uomini hanno le stesse facoltà naturali di amare Dio quanto ne hanno per odiarlo, lo stesso cuore per credere in Lui che per non credergli, ed è il fatto che non Lo amino e non credano in Lui a costituire la loro colpa. Un minorato mentale o un bambino, non è personalmente responsabile verso Dio, perché è carente di capacità naturali. Un uomo normale, però, dotato di razionalità e coscienza capace di distinguere fra bene e male, in grafo di soppesare il valore di questioni eterne È un essere responsabile, ed è proprio perché le possiede che dovrà "rendere conto di se stesso a Dio" (Ro. 4:12).

Diciamo ancora che le distinzioni che abbiamo fatto fra capacità naturale e l'incapacità morale e spirituale dell'uomo, sono di prima importanza. Per natura egli possiede una capacità naturale, ma manca di capacità morale e spirituale. Il fatto che non possieda quest'ultima, non distrugge la sua responsabilità, perché la sua responsabilità si fonda sul fatto che di fatto egli possieda la prima. Permettetemi un'altra illustrazione. Ecco due uomini colpevoli di furto. Il primo è un minorato mentale, il secondo è perfettamente sano, ma è figlio di due criminali. Nessun giudice condannerebbe il primo, ma ogni giudice sensato non condannerebbe l'altro. Anche se il secondo di questi ladri possiede una natura morale viziata, ereditata dai suoi genitori, questo non costituirebbe per lui una scusa, presupposto che egli fosse un essere razionale normale. Sta qui, allora, la base della responsabilità umana - il fatto di possedere la razionalità più il dono della coscienza. E' proprio perché il peccatore è dotato di queste facoltà naturali, che egli può essere considerato una creatura responsabile; costituisce la sua colpevolezza il fatto che non usi queste facoltà naturali per la gloria di Dio.

In che modo può essere coerente con la Sua misericordia, il fatto che Dio esiga il pagamento del debito d'ubbidienza da colui che non è in grado di pagarlo? Oltre a quello che abbiamo detto prima, dovrebbe essere rilevato come Dio non ha perduto il Suo diritto, anche se l'uomo ha perduto la sua capacità. L'impotenza della creatura non cancella il suo obbligo. Un servo ubriacone rimane un servo, ed è contrario ad ogni buon senso sostenere che il suo padrone perda i suoi diritti a causa dei difetti del servo. Inoltre, è di prima importanza tenere a mente che Dio contrasse con noi in Adamo, nostro rappresentante legale e capo federale, e in lui, Dio ci diede un potere che noi abbiamo perduto a causa della caduta del nostro progenitore. Sebbene, però, la nostra capacità sia andata perduta, Dio può giustamente esigere da noi ubbidienza e servizio.

Ci volgiamo ora a riflettere su:

3. Com'è possibile che Dio decreti che gli uomini commettano certi peccati, considerarli responsabili perché li commettono, e giudicarli poi colpevoli perché li hanno commessi?

Consideriamo ora il caso estremo di Giuda. Noi sosteniamo che dalle Scrittura è chiaro che Dio avesse decretato dall'eternità che Giuda doveva tradire il Signore Gesù. Se qualcuno volesse mettere in questione quest'affermazione, consideri solo la profezia di Zaccaria, attraverso la quale Dio dichiara che Suo Figlio sarebbe stato venduto per "trenta sicli d'argento" (Za. 11:12). Come abbiamo detto nelle pagine precedenti, nella profezia Iddio rende noto ciò che sarà, e nel farlo, Egli solo ci rivela ciò che Egli ha stabilito che debba avvenire. Che Giuda dovesse essere colui attraverso il quale la profezia di Zaccaria sarebbe stata adempiuta, non è necessario discutere. La questione che noi dobbiamo affrontare qui, però, è questa: "Doveva Giuda essere un agente responsabile dell'adempimento del decreto di Dio? Rispondiamo di sì. La responsabilità riguarda le motivazioni ed intenzioni di chi commette l'atto. Questo fatto si riconosce sempre. La legge umana distingue fra un colpo inflitto accidentalmente (preterintenzionale, un male inferto senza cattive intenzioni) e un colpo inferto con premeditazione malvagia. Applicate lo stesso principio a Giuda. Quali erano i progetti, le intenzioni del suo cuore nel contrattare con i sacerdoti, il prezzo del suo tradimento? Certamente, in questo, egli non aveva alcun desiderio consapevole di adempiere così un qualsiasi decreto di Dio, non n'aveva consapevolezza. Al contrario, le sue intenzioni erano solo malvagie, e quindi, sebbene Dio avesse decretato e diretto il suo atto, nonostante questo, le sue intenzioni malvagie furono quelle che lo resero giustamente colpevole, come egli stesso poi riconoscerà: "Ho peccato, consegnandovi sangue innocente" (Mt. 27:4). Lo stesso può dirsi per la crocifissione di Cristo. La Scrittura dice chiaramente: "… quest'uomo, quando vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e la prescienza di Dio, voi, per mano di iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste" (At. 2:23), e sebbene "I re della terra si sono sollevati, i principi si sono riuniti insieme contro il Signore e contro il suo Cristo", essi lo hanno fatto: "Per fare tutte le cose che la tua volontà e il tuo consiglio avevano prestabilito che avvenissero" (At. 4:26,28). Questi versetti insegnano molto più che queste cose siano avvenute per semplice concessione da parte di Dio, che Lui l'abbia semplicemente permesso, ma dichiarano che la Crocifissione, in ogni suo dettaglio, fu decretata da Dio. Nonostante questo, fu pure "per mano di iniqui", non semplicemente "con mani umane", che il nostro Signore fu "inchiodato sulla croce ed ucciso". Essi erano "iniqui", le intenzioni, cioè, del Suoi crocifissori, erano malvagie.

Si potrebbe, però, obiettare che, se Dio aveva decretato che Giuda tradisse Cristo, e che i Giudei ed i Gentili Lo crocifiggessero, essi non potevano fare altrimenti, e quindi non erano responsabili delle loro intenzioni. La risposta è: Dio aveva decretato che essi eseguissero gli atti che poi hanno eseguito, ma nel perpetrare questi atti, essi erano giustamente colpevoli, perché loro proposito nel farlo era solo malvagio. Dobbiamo chiaramente affermare che Dio non produce disposizioni peccaminose in alcuna Sua creatura, sebbene Egli, di fatto, le contenga e le diriga per realizzare così i Suoi propositi. Per questo, Dio non è né l'Autore né uno che approvi il peccato. Questa distinzione è così espressa da Agostino: "Il fatto che gli uomini pecchino, procede da loro stessi; che nel peccare essi eseguano questa o quell'azione, è dalla potenza di Dio, che divide le tenebre secondo il Suo beneplacito". Così è scritto: "Il cuore dell'uomo medita la sua via, ma il SIGNORE dirige i suoi passi" (Pr. 16:9). Ciò su cui qui vogliamo insistere, è che i decreti di Dio non sono la causa necessitante del peccato degli uomini, ma le limitazioni e la direzione predeterminata e prescritta delle azioni peccaminose umane. In relazione al tradimento di Cristo, Dio non decretò che Egli dovesse essere venduto da una delle Sue creature per prendere poi un buon uomo, instillargli nel cuore un desiderio malvagio e quindi forzarlo ad eseguire questo crimine al fine di eseguire il Suo decreto. No, non è così che le Scritture rappresentano quanto avvenne. Al contrario, Dio decretò l'atto e scelse uno che lo eseguisse, ma non fu Dio a renderlo cattivo affinché eseguisse l'atto; al contrario, il traditore era già "un diavolo" al tempo in cui il Signore Gesù lo scelse come uno dei dodici (Gv. 6:70) e nell'esercizio e manifestazione della propria malvagità, Dio semplicemente diresse le sue azioni, azioni che erano perfettamente in linea con il cuore malvagio di Giuda, e quindi fu lui ad eseguire le sue malvagie intenzioni. Lo stesso avvenne con la crocifissione.

4. In che modo il peccatore può essere ritenuto responsabile di accogliere Cristo, e di essere dannato per averlo respinto, quando Iddio lo ha preordinato alla condanna?

A questa domanda abbiamo già implicitamente risposto in quanto abbiamo detto nei punti precedenti, ma, per il beneficio di coloro che insistono su questo punto in particolare, forniremo un breve esame separato della questione. Nel considerare, così, la difficoltà di cui sopra, è necessario soppesare attentamente i seguenti punti:

a) In primo luogo, nessun peccatore, mentre si trova in questo mondo, sa per certo, né può sapere, di essere "un vaso preparato per la distruzione". Questo appartiene ai segreti consigli di Dio, ai quali non può avere accesso. I segreti di Dio non sono affare suo: è la volontà rivelata di Dio (nella Sua Parola) ad essere il metro delle responsabilità umane.

b) Inoltre, la volontà rivelata di Dio è chiarissima. Ogni peccatore si trova fra coloro a cui Dio "comanda che si ravvedano" (At. 17:30). Ad ogni peccatore è "comandato" di credere (1 Gv. 3:23), e tutti coloro che realmente si ravvedono e credono, saranno salvati. Quindi, ogni peccatore ha il dovere di investigare le Scritture "Le quali possono darti la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù" (2 Ti. 3:15). E' "dovere" del peccatore, perché il Figlio di Dio gli ha comandato di investigare le scritture (Gv. 5:39). Se egli le investiga con un cuore intenzionato a cercare il volto di Dio, allora egli si pone proprio là dove Dio suole incontrare i peccatori. Su questo punto, il puritano Thomas Manton ha scritto queste parole molto utili: "Non posso dire infallibilmente, a ciascuno che ara il suo campo, che avrà un buon raccolto. Posso solo dirgli questo: Iddio è solito benedire chi è diligente e provvidente. Io non posso dire a ciascuno che vorrebbe avere una posterità: Sposati, ed avrai figli; non posso dire infallibilmente a colui che va a combattere per il suo paese, che certamente avrà vittoria e successo, ma posso dire con Joab: 'Abbi coraggio, e dimostriamoci forti per il nostro popolo e per le città del nostro Dio; e faccia il SIGNORE quello che gli piacerà'. Non posso dire infallibilmente che tu riceverai grazia, ma posso dire a tutti: Usiamo gli strumenti adatti, e lasciamo il successo della sua fatica e della sua salvezza alla volontà ed al beneplacito di Dio. Non lo posso dire infallibilmente, perché Dio non ha obbligo alcuno di farlo, ciononostante, quest'opera è resa frutto della volontà di Dio, infatti: 'Egli ha voluto generarci secondo la sua volontà mediante la parola di verità' (Gm. 1:18). Facciamo ciò che Dio ha comandato, e lasciamo che Dio faccia ciò che vuole. Non dovrei ribadirlo, perché il mondo intero, in tutte le sue azioni, dovrebbe già essere guidato da questo principio. Facciamo il nostro dovere, e attribuiamo il successo a Dio, la cui pratica consueta è quella di venire incontro alla creatura che Lo cerca; anzi, Egli è già con noi, perché se usiamo i mezzi che Egli per noi ha disposto, già siamo sotto l'influenza della Sua grazia. Quindi, dato che Egli è già con noi, e non lesina verso di noi alcun bene, non abbiamo motivo per disperare della Sua bontà e misericordia, al contrario, dobbiamo sperare per il meglio" (Vol. XXI, p. 312). Dio si è compiaciuto di darci le Sacre Scritture, le quali "testimoniano" del Salvatore e fanno conoscere la via della salvezza. Ogni peccatore ha qualche facoltà naturale per leggere la Bibbia, tanto quanto egli le usa per leggere il giornale; se egli è analfabeta o cieco, e quindi, non è in grado di leggere, potrà sempre chiedere a qualcuno che gli legga la Bibbia, proprio come può fare per altre cose. Se, dunque, Dio ci ha dato la Sua Parola, ed in quella Parola Egli ci ha reso nota la via della salvezza, e se ci è comandato di investigare quelle Scritture che ci possono impartire la sapienza necessaria per la nostra salvezza, e, ciononostante, noi rifiutiamo di farlo, allora è chiaro che è colpa nostra e solo noi possiamo essere biasimati se Dio giustamente ci getterà nel Lago di Fuoco, il nostro sangue ricadrà sul nostro capo.

c) In terzo luogo, se ci si obiettasse: Ammesso tutto quello che hai detto prima, non è un fatto che ciascuno dei non-eletti non sia in grado di ravvedersi e di credere? La risposta è: Sì. Di ogni peccatore è un dato di fatto che, di per sé stesso egli non possa venire a Cristo. Dalla prospettiva di Dio, questo "non può" è assoluto. Ora, però, stiamo parlando della responsabilità del peccatore (il peccatore predestinato alla condanna, sebbene egli non lo sappia), e dal punto di vista umano, l'incapacità del peccatore è di tipo morale, come abbiamo rilevato precedentemente. Inoltre, bisogna rammentarci che, oltre all'incapacità morale del peccatore, vi è anche l'incapacità volontaria. Il peccatore deve essere considerato come non solo impotente a fare il bene, ma come uno che prende piacere a fare il male. Dal punto di vista umano, quindi, il "non può" equivale ad un "non vuole"; si tratta di una  impotenza volontaria. L'impotenza dell'uomo risiede nella sua ostinazione. E' per questo che tutti sono "inescusabile", "Perciò sei giusto quando parli, e irreprensibile quando giudichi" (Sl. 51:4). Iddio è giusto quando danna tutti coloro che "amano le tenebre più che la luce". Che Dio esiga ciò che va al di là della nostra capacità d'eseguire, è chiaro da tanti testi biblici. Dio diede la Legge ad Israele sul Sinai e pretese obbedienza perfetta ad essa, rilevando quali sarebbero state le conseguenze, poi, della disubbidienza (vedi De. 28). Forse che qualche lettore oserebbe affermare che Israele fosse stato in grado di ubbidire perfettamente alla Legge? Se lo affermasse, si legga un po' Romani 8:3, dove è detto espressamente: " Infatti, ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha fatto; mandando il proprio Figlio in carne simile a carne di peccato e, a motivo del peccato, ha condannato il peccato nella carne". Considerate attentamente quanto afferma il Nuovo Testamento. Prendete brani come Matteo 5:48: "Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste"; 1 Corinzi 15:34: "Ridiventate sobri per davvero e non peccate"; 1 Giovanni 2:1: "Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate". Forse che c'è qualche lettore che sia in grado, da solo, di adempiere a queste prescrizioni di Dio? Se si, è inutile che noi stiamo a discutere con lui. Ora, però, sorge la domanda: Perché Dio ci comanda di fare ciò che non siamo in grado di fare? La prima risposta è: Perché Dio rifiuta di abbassare i Suoi criteri di giustizia al livello delle nostre peccaminose infermità. Essendo perfetto, Dio deve porre davanti a noi un criterio perfetto di giustizia. Ancora, però, potremmo chiederci: Se l'uomo è incapace di conformarsi a ciò che Dio esige da lui, dove sta la sua responsabilità? Per quanto difficile possa sembrare il problema, esso comporta una soluzione semplice e soddisfacente. L'uomo è responsabile (1) di riconoscere davanti a Dio la propria incapacità, e (2) di invocarlo con forza per poter ricevere quella grazia che lo faccia essere capace. Questo certamente potrà essere accettato da ogni lettore cristiano. E' mio preciso dovere riconoscere davanti a Dio la mia ignoranza, la mia debolezza, la mia peccaminosità, la mia impotenza nel conformarmi a ciò che Egli, in modo santo e giusto, mi comanda. E' anche mio preciso dovere, come pure mio privilegio benedetto, di implorare di tutto cuore Dio a che Egli mi dia la sapienza, la forza, la grazia, che sole mi possono mettere in grado di fare ciò che Gli è gradito; chiedergli di operare in me "il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo" (Fl. 2:13).

Allo stesso modo, il peccatore, ogni peccatore, è responsabile di invocare il Signore. Da sé stesso, egli non potrebbe né ravvedersi, né credere. Egli non può nemmeno venire a Cristo, né voltare le spalle ai propri peccati. Dio gli dice di farlo, e suo primo dovere è quello di "porre il suo sigillo sul fatto che Dio è verace". Il suo secondo dovere è quello di gridare a Dio a che Egli gli dia la forza necessaria - chiedere a Dio che, nella Sua misericordia, Egli sconfigga la sua inimicizia, e "lo attiri" a Cristo, che Egli gli impartisca i doni del ravvedimento e della fede. Se lo farà, sinceramente e di tutto cuore, allora certissimamente Dio risponderà al suo appello, perché è scritto: "Chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato" (Ro. 10.13).

Supponete che io, ieri sera tardi, sia scivolato sul marciapiede gelato e mi sia rotta l'anca. Non sono in grado di rialzarmi. Se rimango per terra, congelerei a morte. Che fare, allora? Se ho la determinazione di morire, rimango lì a terra in silenzio. Se lo facessi, però, io sarei, di quello, l'unico responsabile. Se, però, desidero essere soccorso, alzerei la mia voce e griderei per farmi sentire ed aiutare. Allo stesso modo il peccatore, benché non sia in grado di alzarsi e di fare il primo passo verso Cristo, è responsabile di gridare a Dio, e se lo fa, di tutto cuore, per lui è disponibile un Liberatore. "Egli non è lontano da ciascuno di noi" (At. 17:27); "Dio è per noi un rifugio e una forza, un aiuto sempre pronto nelle difficoltà" (Sl. 46:1). Se però il peccatore rifiuta di gridare al Signore, se è sua determinazione quella di perire, allora il suo sangue gli ricadrà sulla testa, e la sua "condanna è giusta" (Ro. 3:8).

Ora alcune osservazioni al riguardo dell'estensione della responsabilità umana, fino a dove essa giunga. E' ovvio che la misura della responsabilità umana vari a seconda di differenti casi, e che, con certi individui, sia più grande o meno grande. Il criterio di giudizio è dato dalle parole del Salvatore: "A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà" (Lu. 12:48). Certo Dio non esigeva, da quelli che vivevano al tempo dell'Antico Testamento, tanto quanto egli esiga da quelli che sono nati al tempo della dispensazione cristiana. Certo Dio non esigeva, a quelli che vivevano durante "i secoli bui", quando le Scritture erano accessibili solo a pochi, tanto quanto Egli esiga da quelli di questa generazione, dove ogni famiglia possiede per sé almeno una copia della Sua Parola. Allo stesso modo, Dio non esige da un pagano tanto quanto esige da un cristiano. Il pagano non perirà per non aver creduto in Cristo, ma per non essere vissuto all'altezza della luce di cui poteva godere - la testimonianza di Dio nella natura e nella coscienza.

Per riassumere. Il fatto della responsabilità dell'uomo si fonda sulla sua capacità naturale, è testimoniata dalla sua coscienza e su di essa s'insiste in tutte le Scritture. La base della responsabilità dell'uomo è quella d'essere una creatura razionale capace di valutare l'importanza di questioni eterne, e che essa possieda una Rivelazione scritta di Dio, in cui è chiaramente definito il rapporto che deve avere con il suo Creatore ed i suoi doveri verso di Lui. La misura della responsabilità dell'uomo varia da individuo ad individuo, essendo determinata dalla quantità di luce che ciascuno ha ricevuto da Dio. Il problema della responsabilità dell'uomo riceve almeno una soluzione parziale nelle Sacre Scritture, ed è nostro obbligo solenne, come pure nostro privilegio, investigarle attentamente in spirito di preghiera per riceverne ulteriore luce, invocando lo Spirito Santo, affinché Egli ci guidi "in ogni verità". E' scritto: "Guiderà gli umili nella giustizia, insegnerà agli umili la sua via" (Sl. 25:9).

In conclusione, rimane solo da osservare come sia responsabilità d'ogni umana creatura usare tutti i mezzi che Dio ha posto a sua disposizione. Un atteggiamento d'inerzia fatalistica, sul presupposto che Dio ha decretato irrevocabilmente tutto ciò che deve succedere, significa fare un uso peccaminoso e dannoso di ciò che Dio ha rivelato per il conforto del mio cuore. Lo stesso Iddio che ha decretato che dovrà realizzarsi un certo fine, ha pure decretato che quel fine sia raggiunto attraverso e come risultato dei mezzi per questo stabiliti. Dio non disdegna l'uso di mezzi e strumenti, e neppure debbo farlo io. Per esempio: Dio ha decretato che: "Finché la terra durerà, semina e raccolta, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno mai" (Ge. 8:22), ma questo non significa che l'uomo non debba arare il terreno e seminare. No, Iddio spinge la creatura umana a fare proprio queste cose, benedice il loro lavoro, e così adempie la sua vocazione. Allo stesso modo, Dio ha, fin dall'inizio, scelto un popolo ai fini della salvezza, ma questo non significa che non siano necessari degli evangelisti che predichino l'Evangelo, o peccatori che vi credano; è mediante questi strumenti che si realizza il Suo eterno consiglio. Sostenere che, solo perché Dio ha irrevocabilmente determinato il destino eterno d'ogni creatura umana, questo ci sollevi dalla responsabilità di interessarci alla nostra anima, oppure di non fare diligente uso dei mezzi della salvezza, sarebbe lo stesso di rifiutarmi di fare i miei doveri terreni, perché tanto Dio ha già fissato quale debba essere la mia sorte. Che l'abbia fatto è chiaro da: "Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione" (At. 17:26; cfr. Gb. 7:1; 14:15 ecc.). Se, dunque, la preordinazione di Dio può consistere delle rispettive attività dell'uomo nei suoi presenti interessi, perché non nel futuro? Sia che noi riusciamo o non riusciamo a vedere il legame che unisce l'una all'altra, il nostro dovere è chiaro: "Le cose occulte appartengono al SIGNORE nostro Dio, ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli per sempre, perché mettiamo in pratica tutte le parole di questa legge" (De. 29:29). In Atti 27:22, Dio rende noto che Egli ha ordinato che venga salvata la vita di tutti coloro che avevano accompagnato Paolo sulla nave; eppure l'Apostolo non esita a dire: "Se costoro non rimangono sulla nave, voi non potete scampare" (At. 27:31). Dio aveva stabilito i mezzi per i quali sarebbe stato eseguito ciò che aveva decretato. Da 2 Re 20, apprendiamo come Dio fosse assolutamente deciso ad aggiungere 15 anni alla vita del re Ezechia, eppure egli deve applicare dei medicamenti sulle sue piaghe! Paolo sapeva d'essere eternamente sicuro nelle mani di Cristo (Gv. 10:28), eppure egli dice: "tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù" (1 Co. 9:27). L'Apostolo Giovanni assicurava i suoi lettori con queste parole: "…quanto a voi, l'unzione che avete ricevuta da lui rimane in voi", ma nello stesso versetto seguente dice: "E ora, figlioli, rimanete in lui" (1 Gv. 2:27,28). E' solo osservando questo principio vitale che siamo responsabili di usare i mezzi che Dio ha stabilito, che noi saremo in grado di preservare l'equilibrio della Verità, ed essere salvati da un fatalismo paralizzante.


La sovranità di Dio

di A. W. Pink
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